Da quando il 10 febbraio è stato istituito come “Giorno del ricordo”, a seguito di una votazione parlamentare che aveva visto un accordo bipartisan fra la destra e il centrosinistra con 502 voti favorevoli e solo 15 contrari (Partito dei Comunisti Italiani e Rifondazione Comunista), la menzogna sulle migliaia di morti delle foibe è diventata verità ufficiale. La promulgazione di una tale legge da parte dell’allora Presidente della Repubblica Ciampi, il 30 marzo del 20041, non deve sorprendere. Essa, infatti, si inserisce in un più generale processo alla resistenza e all’antifascismo, prevalentemente in chiave anti-comunista, che ha assunto negli ultimi decenni proporzioni preoccupanti culminando addirittura in sede sovranazionale con la vergognosa equiparazione fra nazismo e comunismo avallata da una risoluzione del Parlamento Europeo nel settembre del 20192. In Italia questa forma di revisionismo storico vede la vicenda delle foibe e dell’esodo istriano come cavallo di battaglia della manipolazione della storia e della memoria collettiva, e suonano come una beffa le parole dell’ex-repubblichino (ed ex-ministro della Repubblica!) Mirko Tremaglia che all’indomani della discussione sulla suddetta proposta di legge, avanzata dal Senatore della Margherita Bordon3, affermava: “la storia non deve essere strumentalizzata dalla politica”4. Questo tentativo di “pacificazione” della memoria nazionale, come volevano intenderlo i protagonisti politici di quel periodo, avrebbe dovuto, a detta loro, chiudere i conti con il passato scomodo di una tragedia collettiva troppo a lungo sottaciuta. In realtà la narrazione sulle foibe che si può a giusto titolo definire neo-irredentista – non a caso fu scelta come data il 10 febbraio, anniversario dei trattati di Parigi del ‘47 dove l’Italia cedeva le colonie e i territori conquistati durante due guerre, oltre alla città di Trieste – aveva iniziato a prendere piede sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nell’arco di 50 anni un quantitativo considerevole di libri, articoli, riviste e libelli erano stati pubblicati, presentando la stessa narrazione propagandistica sulle foibe, con le stesse manipolazioni, falsità e intenti revanscisti. Il discrimine rispetto ad oggi, tuttavia, come ricorda la storica Alessandra Kersevan5, era che quantomeno fino agli anni ottanta la maggior parte della storiografia accademica e della pubblicistica borghese più autorevole, consideravano le metodologie di ricerca di queste narrazioni faziose e storiograficamente inaccettabili, poiché decontestualizzavano in maniera spesso spudorata i fatti dalla cornice storica, cioè quella della brutale occupazione italiana delle terre slave. Il ricordo della guerra e della resistenza era ancora troppo vivo nella memoria di molti. Le cose iniziarono a cambiare dagli anni Novanta, con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, quando le tesi scioviniste sui fatti delle foibe uscirono dai circoli dell’estrema destra, più o meno edulcorata.
L’intento principale di questa enorme operazione di revisionismo storico e di manipolazione della memoria collettiva è in primo luogo quello non soltanto di porre le vittime e i resistenti, gli jugoslavi e i partigiani comunisti, sullo stesso livello dei carnefici fascisti, ma anche quello di derubricare e far passare in secondo piano le brutalità di una occupazione italiana, durante la Seconda guerra mondiale, improntata al più feroce razzismo anti-slavo e alla pulizia etnica, questa sì, realmente tentata, da mano italiana.
Pertanto, mentre l’ex-ministro Gasparri si prodigava in dichiarazioni del seguente tenore: “milioni di italiani furono gettati vivi solo per essere italiani”6 e più di recente sul servizio pubblico lo “storico” Paolo Mieli affermava che centinaia di migliaia di italiani furono sepolti vivi nelle foibe in un tentativo di pulizia etnica7, il mezzo milione e oltre di jugoslavi che durante l’occupazione furono assassinati dai fascisti e dai loro fantocci8 – come per esempio il fascista Ante Pavelić che con i suoi ustascia e il sostegno della chiesa cattolica locale avviò una feroce pulizia etnica a danno di serbi, rom ed ebrei – diventano delle note a margine da dimenticare. In nome del luogo comune degli “italiani brava gente”, i crimini italiani vengono cancellati con un colpo di spugna dacché la barbarie slavo-comunista avrebbe commesso delle atrocità “ben peggiori”. La realtà storica in verità è ben diversa, e per comprendere pienamente il fenomeno foibe è importante inquadrarlo nel suo contesto storico. Sin dagli albori del Risorgimento e dell’Unità di Italia, con la III Guerra di indipendenza del 1866, il neo-nato stato italiano si trovò al suo confine orientale a dover fare i conti con dei territori abitati da diverse migliaia di persone di origine slovena. La risposta dello Stato liberale, nella sostanza, non fu molto diversa nelle sue linee guida, da quella adottata dal suo più feroce continuatore, il regime fascista. Iniziarono subito, infatti, i tentativi di denazionalizzazione della componente slava attraverso tutta una serie di provvedimenti volti all’imposizione della lingua italiana dalla toponomastica, all’amministrazione, alla scuola e finanche nelle funzioni religiose. Questa serie di provvedimenti vennero estesi maggiormente nel momento in cui, con l’espansione ad est dei confini dovuti alla Prima guerra mondiale, nel territorio nazionale vennero a trovarsi centinaia di migliaia di persone di origine slovena, croata e anche tedesca che abitavano quella regione multietnica che era la Venezia Giulia. Funzionari delle suddette etnie, reduci di guerra asburgici, maestri, ferrovieri e dipendenti statali vennero allontanati e sostituiti con personale italiano proveniente da altre regioni. Le istituzioni culturali e la stampa in lingua slovena e croata subirono delle limitazioni, vennero italianizzati a forza persino i cognomi slavi, così come molte scuole di lingua slava vennero italianizzate e altre completamente chiuse. Tutte misure, queste, che col fascismo conobbero una pesante recrudescenza e contribuirono ad un esodo di massa dalla regione di circa 100.000 sloveni e croati che si rifugiarono prevalentemente nel Regno di Jugoslavia o in altri paesi9. Con l’avvento dello squadrismo, prima ancora della nascita del regime, il razzismo anti-slavo nella Venezia Giulia raggiunse livelli molto alti, culminando in episodi di repressione e violenza spietata come, ad esempio, l’assalto e l’incendio del Narodni Dom di Trieste, il più importante centro di lingua e cultura slovena della zona, il tutto con l’assenso complice delle autorità, il 13 luglio 1920. Oppure la strage di Strugnano, del ‘21, nei pressi di Capodistria, quando alcuni squadristi spararono una raffica di proiettili da un treno in corsa su un gruppo di bambini sloveni intenti a giocare, uccidendone due e ferendone gravemente altri cinque10.
Dopo l’instaurazione del regime, le politiche anti-slave si aggravarono ulteriormente. Oltre le vecchie angherie, le minoranze dovettero subire vessazioni come quelle di essere perseguitati per aver parlato la propria lingua non solo in contesti ufficiali ma anche nella vita quotidiana11, la confisca ai contadini delle terre che venivano poi assegnate ad italiani, e il largo uso del Tribunale Speciale nei confronti di chi osava protestare. Ma, come prevedibile, l’oppressione raggiunse il parossismo durante l’aggressione imperialista del fascismo ai territori della Jugoslavia durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo una settimana dall’invasione, il debole Regno di Jugoslavia capitolava di fronte ai nazifascisti tedeschi, italiani e ungheresi: era il 16 aprile del ‘41. Il territorio venne smembrato e all’Italia vennero assegnati la Provincia di Lubiana, alcune porzioni di costa dalmata, il Kosovo (annesso all’Albania italiana) e il protettorato, de facto, sulla porzione di litorale adriatico del regno fantoccio degli ustascia di Pavelić.
Le direttive nei confronti della popolazione slava da parte di Mussolini erano state chiarite da un suo discorso a Pola, del 1920, che culminava inequivocabilmente così: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. […] io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”12.
Il programma di fascistizzazione dell’annessa provincia di Lubiana prevedeva il tentativo di guadagnare la borghesia, i ceti abbienti e l’alto clero alla causa dell’occupante in funzione anticomunista e antipopolare, e diversi notabili locali non tardarono ad aderire al collaborazionismo. Vennero formate delle milizie di volontari anticomunisti (MVAC), in sloveno Bela Garda (Guardia bianca), che si misero immediatamente al servizio dei fascisti italiani e tedeschi, così come fecero i collaborazionisti croati della zona con la Lako Prevonznog Zdrug (Legione corata)13. Questo ci fornisce un elemento importante per capire come mai, una volta liberati i territori, anche persone di origine slovena e croata subirono la giustizia partigiana o si unirono poi all’esodo istriano, restituendoci una dimensione di classe del conflitto molto importante e spesso oscurata dalla narrazione esclusivamente nazionalista. Ad ogni modo, gli occupanti italiani si lasciarono spesso andare a brutalità ed efferatezze di ogni tipo contro la popolazione locale, per non parlare dei massacri contro il movimento di resistenza che si stava già formando. E questo è dimostrato dalle stesse parole dei comandanti italiani dell’esercito: “il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula ‘dente per dente’ bensì da quella ‘testa per dente’” e “si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia…”14. Uguale durezza venne riservata alla popolazione civile, inclusi donne e bambini. Il generale Roatta, già dal ‘42 per spezzare la resistenza della popolazione, oltre alle fucilazioni e l’internamento degli uomini sospettati di essere partigiani o semplicemente cooperanti con essi, inaugurò le prime deportazioni di massa di civili, il bombardamento dei villaggi e gli incendi delle case. Un comportamento non dissimile da quello attuato dai nazisti durante l’Operazione Barbarossa in URSS e che demolisce totalmente l’archetipo mitico degli “italiani brava gente”. Dal ‘41 al 8 settembre del ‘43 furono internati nei campi di concentramento italiani centinaia di migliaia di jugoslavi e a migliaia vi trovarono la morte. Fra i campi si ricordano quello di Gonars, quelli sparsi nelle province di Treviso, Padova, Perugia, Savona, Frosinone, Udine etc. ai quali si aggiungono quelli creati nei territori occupati, come per esempio il tristemente noto campo di Arbe. In quest’isola dalmata i vertici italiani eressero un inferno per i prigionieri (fra i quali, ricordiamolo, anche donne, vecchi e bambini), con un’enorme baraccopoli priva di qualsiasi struttura igienica che portò alla morte per malattia molti dei diecimila internati del campo15. La cifra delle terribili condizioni cui erano sottoposti gli jugoslavi è data nuovamente dagli spudorati comandi italiani. Davanti ad una relazione medica che metteva il luce la grave denutrizione degli internati e le malattie conseguenti, il generale Gambara rispondeva: “Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”16.
Con l’8 settembre si ebbe lo sfaldamento dell’esercito e con esso anche quello del potere civile e delle strutture di occupazione e repressione. I campi di concentramento vennero abbandonati o lasciati ai tedeschi e le unità italiane seguirono destini diversi: chi cercava in qualche modo di rimpatriare, chi invece si univa alle unità partigiane che si erano già formate nei territori occupati – per esempio la Divisione Italia e la Divisione italiana partigiana “Garibaldi”, composta da soldati italiani e al seguito dell’Esercito di liberazione jugoslavo guidato da Tito – e chi invece direttamente entrava nelle formazioni jugoslave. La lotta di liberazione jugoslava contro l’oppressore fascista suscitava enormi entusiasmi nella classe operaia e i contadini della Venezia Giulia. Già immediatamente dopo l’8 settembre le formazioni partigiane provenienti dal confine italiano si unirono alla lotta, come ad esempio la Brigata Proletaria, una formazione multietnica costituitasi dagli operai dei cantieri di Monfalcone che combatté in prima linea contro i tedeschi e le camicie nere a Gorizia nel ‘43, una delle prime battaglie della resistenza italiana. Con l’insurrezione generale antifascista nei territori occupati e in Istria iniziarono le operazioni di giustizia popolare nei confronti degli aguzzini fascisti. Il potere popolare e i tribunali che si erano formati contestualmente iniziarono ad arrestare molti fascisti e molti di coloro che si erano particolarmente distinti nello sfruttamento dei lavoratori e nelle discriminazioni etniche. In questo contesto entrano in scena le foibe. Queste voragini profonde che si aprono nelle campagne del Carso fanno parte storicamente della tradizione locale in quanto molto spesso usate dalle popolazioni per gettarci dentro qualsiasi cosa: carcasse di bestiame, materiali di qualsiasi natura e finanche seppellirci i morti. L’uso “politico” delle foibe non è inizialmente ascrivibile ai fatti che caratterizzarono la storia della Seconda Guerra Mondiale e l’immediato dopoguerra. I primi a utilizzare la foiba come archetipo punitivo, per così dire, furono gli irredentisti e i fascisti italiani e sempre in riferimento alla pulizia delle zone dalle popolazioni considerate allogene. In un libro di testo in uso nelle scuole della Venezia Giulia durante il ventennio, si trovava per esempio una poesia “In fondo alla Foiba”, in dialetto che, rifacendosi all’irredentismo della cittadina istriana di Pisino contro chi non parlava “la favella di Dante”, concludeva:
A questo ed a quel:
Fioi mii, chi che ofende
Pisin, la pagherà:
In fondo alla Foiba
Finir el dovarà.
O, ancora prima, nel ‘19, in una canzone irredentista intitolata “Trieste. La fedele di Roma” di Giulio Italico (alias Giuseppe Cobol), si faceva sempre riferimento all’“infoibamento” come strumento di punizione17. Pertanto, già dal linguaggio, l’utilizzo della foiba non è certo ascrivibile ai partigiani slavo-comunisti; inoltre, i fascisti stessi durante l’occupazione fecero ampiamente uso delle foibe per esecuzioni di partigiani e altri oppositori.Per quel che riguarda invece ciò che successe dopo, cioè dalla sollevazione antifascista del ‘43 fino ai momenti successivi alla liberazione di Trieste, il 1 maggio del ‘45, per quanto sicuramente le foibe furono utilizzate – anche in questo caso – per gettarci dentro cadaveri di persone spesso fucilate altrove, i documenti storici e tutte le evidenze scientifiche delle ispezioni vanno nella direzione totalmente opposta rispetto alla propaganda delle decine di migliaia di morti (se non milioni!) della presunta “pulizia etnica” a danno degli italiani nel Carso. Dagli studi scrupolosi condotti dagli storici, che hanno cercato di quantificare il numero degli infoibati e delle persone scomparse dalla zona di Trieste all’indomani della liberazione, sono emersi dei dati di molto contrastanti con quelli della vulgata revisionista. A fronte delle migliaia di scomparsi denunciati, in realtà il numero reale ammonterebbe, principalmente fra le forze di pubblica sicurezza, guardia di finanza, forze armate e civili compromessi, ad un numero di circa 517 persone. La maggior parte di queste morta in internamento presso gli jugoslavi o giustiziata tramite fucilazione; soltanto 42 di esse sono ascrivibili a cadaveri effettivamente ritrovati nelle foibe18.
Delle foibe triestine la vicenda più paradigmatica è quella di Basovizza, sintesi perfetta dell’operazione di revisionismo e manipolazione della storia. Assurta a vero e proprio simulacro della mitologia sulla pulizia etnica – nel ‘92 l’allora Presidente della Repubblica Scalfaro la elevò a monumento nazionale – la foiba di Basovizza, in realtà un pozzo minerario, è la dimostrazione plastica di un tentativo grottesco di falsificazione. La “regina” di tutte le foibe che, a sentire i propagandisti della prima ora, avrebbe dovuto contenere migliaia di salme di civili e soldati, in realtà, dalle rilevazione condotte alla fine della guerra, ha visto riemergere pochi resti umani (fra gli altri di soldati tedeschi), carcasse di animali e resti di materiale bellico. Nulla, dunque, per poter avvalorare le migliaia di salme, neppure dopo il ‘48, ultimo rilevamento; e pur avendo la possibilità di farlo non sono state condotte delle spedizioni di ricerca per accertare la presenza delle prove del presunto eccidio di massa19. Il numero dei morti, ciclicamente fluttuante, venne calcolato sulla base dello spazio che vi era fra le rilevazione ante guerra della profondità del pozzo, e le rilevazioni successive (che vedevano una riduzione della profondità): quello scarto di circa 30 metri sarebbe, per gli assertori dell’eccidio, pieno di cadaveri (per 300 metri cubi). Partendo da questa base, si calcolò quante salme potrebbero essere contenute in 300 metri cubi ed ecco così ottenuto il numero degli infoibati: un dato del tutto arbitrario e completamente privo di evidenze, e questo senza considerare il fatto che già nell’immediato dopoguerra il pozzo di Basovizza venisse utilizzato come discarica. A fronte di un numero reale di morti difficilmente quantificabile con precisione – comprese le foibe istriane – ma sicuramente di gran lunga inferiore alle decine di migliaia, per non dire le centinaia o i milioni di gasparriana memoria, il mito della pulizia etnica delle foibe si è sviluppata fino a diventare ideologia ufficiale. E a questo punto è bene ricordare come questo tipo di narrazione abbia iniziato a circolare già durante la guerra, grazie ai servizi di informazione della X Mas, e per volontà del suo caporione, Junio Valerio Borghese20
L’uso strumentale della memoria
Le principali distorsioni che hanno portato alla fabbricazione di una storia auto-assolutoria, vittimista e revanscista muovono fondamentalmente sulle medesime tre linee, come puntualmente nota lo storico Alexander Höbel21. La prima è quella dell’isolamento dal contesto storico generale che, come visto prima, è caratterizzato da una condotta italiana duramente repressiva nei confronti delle popolazioni slave, già dallo Stato liberale, per poi toccare l’apice sotto il fascismo e durante la guerra. Il disgiungere i fatti delle foibe dagli avvenimenti bellici, quasi a volerli occultare o derubricare, è l’operazione di decontestualizzazione più spudorata. La seconda linea è quella della falsificazione quantitativa, cioè il gonfiare in maniera arbitraria il numero delle persone coinvolte in quei fatti che, pur drammatici, sono stati portati ad una dimensione completamente immaginaria. La terza è la falsificazione qualitativa, che sintetizza le altre due, e cioè il trasformare in qualcosa di diverso i fatti delle foibe che, da atti di giustizia per ragioni politiche, vengono trasformati in tentativi di pulizia etnica se non addirittura di genocidio, nelle narrazioni più patetiche. A quest’ultima linea distorsiva si aggiunge un’altra importante questione, cioè quella dell’esodo giuliano-dalmata, un avvenimento che viene direttamente collegato ai fatti delle foibe ma che con questi ha poca relazione. Innanzitutto perchè l’esodo iniziò a guerra finita, principalmente dal ’46, incrementando dopo i trattati di Parigi del ’47, dopo che l’Italia perse quei territori a favore della Jugoslavia, e continuando poi per il decennio successivo. In secondo luogo, l’esodo coinvolse anche persone legate al collaborazionismo sloveno-croato, e soprattutto non fu frutto del presunto “terrore” degli infoibamenti – avvenimenti peraltro limitati e accaduti in un frangente di tempo altrettanto limitato, cioè durante la guerra e nelle sue fasi finali – ma frutto di una scelta di tipo politico. Questo è dimostrato anche dal fatto che un certo numero di italiani decise di rimanere in quei territori anche sotto il governo della Jugoslavia. Paura di perdere il privilegio di nazionalità dominante, paura di perdere privilegi di classe nel nuovo Stato jugoslavo e, magari, per chi avesse commesso dei crimini, anche paura di dover renderne conto davanti alla giustizia, furono i motivi principali dell’esodo, non la “paura delle foibe” o della “pulizia etnica”.
Riportare i fatti della guerra, delle foibe e dell’esodo ad una dimensione che non sia puramente nazionalista ma che si confronti con la tragedia che per le classi subalterne e per i popoli, italiani inclusi, fu il fascismo e la sua aggressione imperialista alla Jugoslavia dovrebbe essere la linea guida per rendere giustizia alla propria storia, non quella di asservire i fatti all’ideologia nazionalista per auto-assolversi.
Naturalmente non è stato questo lo spirito che ha animato gli instauratori del “Giorno del ricordo” che invece, anche per ragioni di mera convenienza politica, hanno scelto la strada dello sciovinismo, dell’auto-assoluzione e del vittimismo ipocrita, toccando talvolta punte di raccapricciante spudoratezza. E se questa strada comprensibilmente è stata intrapresa dalle destre e dagli epigoni della tradizione fascista, tanto da portare all’assurdo tentativo di richiamare una qualche analogia fra Shoah e foibe – dal primo promotore della legge sulla commemorazione delle foibe, l’ex-missino Menia, al senatore leghista Stiffoni il quale testualmente affermava: “quali le differenze tra chi è responsabile di queste uccisioni di massa e i campi di sterminio? Non c’è alcuna differenza”22 – molto meno comprensibile potrebbe apparire l’adesione ad una simile narrazione da parte degli allora Democratici di Sinistra (gli eredi di quello che era stato il Partito Comunista Italiano dopo il 1991, poi Partito Democratico della Sinistra). Ad esempio, il relatore alla Commissione Affari esteri di questi ultimi, Pezzoli, affermava: “è importante che il Parlamento, dopo aver riconosciuto l’olocausto compiuto ai danni degli ebrei e la successiva diaspora, ed apprestandosi ad approvare una proposta di legge che prevede l’istituzione di un fondo a favore delle vittime del nazismo, conceda un riconoscimento anche ai congiunti delle vittime delle foibe”23. Da parte della cosiddetta sinistra l’intento malcelato era naturalmente di intestarsi a baluardo della “nazionalità”, al pari delle destre, al fine di creare una posticcia memoria condivisa e scaricare sui comunisti jugoslavi ogni presunta nefandezza. Il tutto chiaramente in un’ottica di negazione del proprio passato comunista e sposando in pieno la retorica equiparazionista fra nazismo e comunismo che vorrebbe crimini e responsabilità analoghe. Non è un caso, dunque, che da questo revisionismo storico nascano forme di rivalutazione dello stesso fascismo. Un revisionismo che ha visto, e vede, un’aggressione ideologica nei confronti della resistenza da parte di chi vorrebbe mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani comunisti e, parafrasando Mann, riversare tutto il proprio odio verso questi ultimi.
Fabrizio Fornaro
2 vedi un nostro precedente articolo sull’anticomunismo crescente in Europa e nel mondo: https://www.lordinenuovo.it/2021/01/11/anticomunismo-autoritarismo-e-repressione-crescono-nel-mondo-capitalista/
5 A. Kersevan, Breve storia del confine orientale d’Italia nel novecento in Fascismo e Foibe: ideologia e pratica della violenza nei Balcani, Ed. La città del sole, Napoli, 2008, pp. 71-72
6 http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2004/02/08/Politica/FOIBE-GASPARRI-RICORDARE-TUTTI-GLI-ORRORI-DELLA-STORIA_110100.php
8 A. Höbel, La battaglia della memoria, in op. cit. pp. 13
9 A. Kersevan, op.cit., pp. 75
10 C. Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Ed. Kappa Vu, Udine, 1997, pp. 11
11 vedi manifesto di Dignano
12 http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=14&id=00098166&part=doc_dc-ressten_rs-ddltit_sddeadddl27522189e2743gdmdvdf-trattazione_dg-intervento_bassodsu&parse=no&stampa=si&toc=no
13 A. Kersevan, op. cit., pp. 81
14 cit. in Cernigoi, op. cit., crf. note 20-21
15 tabella tratta da wiki con coordinate bibliografiche
16 cfr. manoscritto [fig.23] in Kersevan, op.cit. pp. 93.
Alcune immagini del campo di concentramento di Arbe con in basso anche il documento autografo di Gambara: https://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2011/12/TESTA%20PER%20DENTE%20Internamento.pdf
17 cfr. Cernigoi, op.cit. pp. 66 e i documenti http://www.diecifebbraio.info/documenti/#cobol
18 Cernigoi, op.cit. pp.64
19 per ulteriori approfondimenti in merito alle indagini su Basovizza: http://www.diecifebbraio.info/2012/01/la-foiba-di-basovizza-5/
20 Cernigoi, op.cit., pp. 67
21 Höbel, op. cit.
22 cfr. https://grandecomeunacitta.org/articoli/le-foibe-ovvero-della-shoah-italiana-un-caso-di-uso-pubblico-della-storia#_ftnref44
23 Ivi.