Alphabet Workers Union: da “Don’t Be Evil” a “Reclaim your Power!”
A poco più di due anni dai Google Walkouts, la forma di protesta organizzata da 20.000 dipendenti Google in risposta alla buonuscita da 90 milioni di dollari riconosciuta ad Andy Rubin (il “padre” di Android), nonostante la lista di precedenti per molestia sessuale in ambito lavorativo a suo carico, il malcontento all’interno delle strutture del colosso di Mountain View non sembra essersi placato.
Nel periodo trascorso, i vertici dell’azienda non hanno comunque fatto mancare ai propri dipendenti tutte le pressioni necessarie ad evitare l’insorgenza di una qualsiasi forma di sindacalizzazione: si sono infatti verificati episodi di mobbing esplicito, come nel caso degli organizzatori dei Google Walkouts, in seguito ai quali quattro dei sette organizzatori hanno abbandonato l’azienda; non sono mancati licenziamenti mirati nei casi di ricerche troppo scomode, come nel caso di Timnit Gebru, licenziata in circostanze controverse, in seguito all’intimazione di ritirare un paper sull’inaffidabilità dei sistemi IA di riconoscimento facciale delle donne di colore – inaffidabilità che può tradursi in uno scambio di persona in situazioni delicate, come ad esempio le scene del crimine.
Per finire, Google si è impegnata in vere e proprie attività di union busting, ovvero azioni mirate a scoraggiare, impedire o reprimere gli episodi di organizzazione sindacale all’interno di un’azienda: è il caso dei Quattro del Ringraziamento e di Kathryn Spiers, ingegneri i primi (alcuni con esperienza decennale nell’azienda), licenziati senza preavviso per violazione dei protocolli di sicurezza, e per l’utilizzo non autorizzato degli strumenti di lavoro aziendali la seconda; guarda caso, però, tutti e cinque hanno poi dichiarato al Consiglio Nazionale delle relazioni Sindacali di aver utilizzato nient’altro che le proprie prerogative sul luogo di lavoro per sensibilizzare i propri colleghi sulla legittimità di chiedere e ottenere protezione sindacale, soprattutto in vista del moltiplicarsi delle consulenze richieste da Google a IRI Consultants, agenzia di counseling specializzata proprio nelle pratiche di union busting.
D’altronde, tra i principi fondanti dell’etica della Google degli esordi, spiccavano proprio quelli dello “speak up”, ovvero della facoltà di poter parlare chiaramente delle difficoltà incontrate in azienda, e del “don’t be evil”, il “non essere cattivo” che i lavoratori sanno di rispettare proteggendo e indirizzando i propri colleghi a tutelarsi sul posto di lavoro, e che i vertici dell’azienda stanno calpestando ripetutamente, sbandierando la trasparenza della propria policy.
Nonostante ciò, le adesioni alla struttura sindacale in via di organizzazione non si sono fermate, ma anzi si sono moltiplicate fino a raggiungere le circa ottocento unità, l’attuale forza dell’Alphabet Workers Union. Pur essendo ancora decisamente minoritari nella struttura di Google, che conta circa 160000 lavoratori a tempo indeterminato e altrettanti contractors precari, il fatto di voler uscire allo scoperto e di voler rappresentare un primo interlocutore per i propri colleghi all’interno dell’azienda, soprattutto nelle condizioni di altissima attenzione da parte delle strutture di sorveglianza interne che abbiamo descritto poc’anzi (e che la nascita di AWU ha ulteriormente intensificato, al punto di portare al controllo diretto della mail dello staff) e nonostante i numeri non permettano di porsi come un soggetto in grado di instaurare una contrattazione con i vertici, non è assolutamente cosa da poco: d’altronde, i vertici di AWU, nonostante si siano affiliati al Communications Workers of America per garantire solidità al proprio supporto sindacale, hanno confermato di voler andare “oltre le rivendicazioni per il salario”, cercando di andare a incidere nella politica aziendale anche mediante l’implementazione di azioni collettive di protesta, soprattutto per quanto riguarda l’etica aziendale, pesantemente criticata per la collaborazione con il Pentagono e per gli episodi di sessismo e discriminazione razziale.
Questa impostazione ha già attirato diverse critiche da parte del sindacalismo conflittuale tradizionale, per così dire: in questo articolo, un tech worker iscritto all’IWW consiglia caldamente di non impostare la campagna di lancio di AWU come una struttura “top-first”, ovvero con un’organizzazione centrale già definita nella sua politica sindacale e nella sua comunicazione, tralasciando la crescita per cellule nei luoghi di lavoro; si tratta di una strategia che permette sicuramente azioni eclatanti da un punto di vista mediatico, data l’alta specializzazione dei membri e la loro posizione in un’azienda molto in vista, ma lascia gran parte dei lavoratori dell’azienda come spettatori anziché compartecipi, e non permette di ottenere le vittorie di ritorno immediato che portano credibilità concreta all’organizzazione, e che sono garantite solo da una presenza capillare all’interno dell’azienda e dei suoi fornitori, dal negozio fisico in su.
Alphabet Workers Union, dal canto suo, sembra aver raccolto il suggerimento, non escludendo affatto l’azione sindacale tout-court: appena tre giorni fa, AWU ha aperto la prima vertenza presso il National Labor Relations Board (Consiglio nazionale delle relazioni sindacali) contro Adecco, fornitore di Google inc., per aver silenziato le proteste di un gruppo di lavoratori circa la propria paga (inferiore ai corrispettivi colleghi in Google, a parità di mansione) e per aver sospeso via web-call “come minaccia alla sicurezza” il tecnico Shannon Wait, per aver lamentato esplicitamente sui social il trattamento impari riservato ai lavoratori in subappalto, nonostante si facciano carico del pesante lavoro di mantenimento online dei servizi Google in tempo di pandemia.
Google Inc. e Adecco non hanno ancora commentato la vicenda.