Secondo quanto riferito dal ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, in un’audizione congiunta alle commissioni di Difesa di Camera e Senato, lo scorso 10 marzo è partita alla volta del Sahel la prima “aliquota” di militari che parteciperanno alla Task Force europea Takuba. Guerini ha confermato che la missione – approvata dal parlamento italiano lo scorso giugno – si articolerà su assetti elicotteristici per il trasporto e l’evacuazione medica e unità di addestratori in accompagnamento alle forze locali che opereranno di concerto con i contingenti degli altri partner internazionali e della Forza congiunta dei G5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso).1 A inizio febbraio, un piccolo contingente aveva effettuato una ricognizione dando il via libera alla missione che si concretizza in questi giorni con l’approdo – secondo fonti dell’Agenzia Nova – nell’area di Menaka (in Mali vicino al confine con il Niger) di una prima parte dei 200 soldati italiani che si uniranno alle truppe di altri paesi europei sotto il comando francese (almeno inizialmente).
La missione è stata concepita, infatti, nel vertice G5 Sahel di Pau del gennaio 2020 dalla Francia che è già fortemente presente in questa strategica e ricca regione dell’Africa, in particolare con la missione Barkhane, avviata 8 anni fa e composta da 5mila soldati francesi, a cui si affiancherà la Task Force europea Takuba che vede la partecipazione di Svezia, Repubblica Ceca, Estonia, Italia, Danimarca, Portogallo, Belgio e Paesi Bassi e il “supporto politico” di Germania, Norvegia e Gran Bretagna. La missione è operativa dallo scorso 15 luglio con un primo schieramento franco-estone, composto da 50 soldati (28 francesi e 22 estoni), mentre un secondo gruppo franco-ceco ha completato il suo dispiegamento a gennaio. Anche il contingente svedese di 150 militari con 3 elicotteri ha avviato il suo dispiegamento nel mese di gennaio e stanno seguendo quelli di Danimarca, Portogallo, Ucraina, Grecia, Ungheria, oltre che appunto l’Italia che ha avviato il suo dispiegamento in questi giorni mentre un secondo gruppo dovrebbe arrivare a fine marzo con l’obiettivo di raggiungere la Full Operation Definition (l’effettiva operatività della missione) a fine anno.
La missione Takuba già da ottobre è impegnata nelle operazioni dirette da Barkhane2 e come confermato dal ministro della Difesa francese, Florence Parly, non sarà solo di addestramento ma prevede anche l’affiancamento agli eserciti locali all’esterno delle basi militari. Lo scorso 20 gennaio, parlando in una audizione davanti alle commissioni Esteri, Difesa e Forze Armate del Senato francese, la Parly ha affermato che «il battesimo del fuoco della TF Takuba è avvenuto pochi giorni fa nella regione di Ansongo vicino al confine con Mali e Niger».3 Questo vuol dire che anche le forze militari italiane potrebbero esser coinvolte direttamente nei combattimenti che nella regione di Liptako (teatro della missione), nota come l’area dei “tre confini” (tra Burkina Faso, Niger e Mali), sono all’ordine del giorno.4
Il contingente militare italiano oltre alle 200 unità di personale militare, è dotato di 20 mezzi e materiali terrestri e 8 mezzi aerei, con costo iniziale di 15.627.178 €. La presenza militare italiana nel Sahel non rappresenta una novità assoluta, essendo l’Italia già operativa in Mali con una trentina di unità militari e in Niger con la missione bilaterale Misin, approvata nel 2018 e di stanza nella base di Niamey con l’impiego di 295 unità, ma segna sicuramente un significativo rafforzamento a dimostrazione del crescente interesse strategico di quest’area che si collega inoltre con l’altra missione recentemente istituita nel golfo di Guinea5, per la protezione delle installazioni dell’ENI e il controllo delle acque prospicenti due paesi fra i maggiori produttori di petrolio africani, Nigeria e Angola, paesi nei quali ENI è presente, come anche in Ghana, Costa d’Avorio e Congo.
Il Sahel è una delle regioni che sta assumendo maggiore rilevanza geostrategica, sia per la ricchezza di materie prime (oro, uranio, cobalto, petrolio, bauxite, rame, zinco, carbone, salgemma, legname…) sia per la sua collocazione e le importanti vie di trasporto, in quanto rappresenta un passaggio cruciale dei “flussi migratori” verso l’Europa di migliaia e migliaia di persone impoverite e sradicate dalla loro terra saccheggiata e insanguinata. Al di là del mantello con cui si coprono e giustificano le numerose missioni e gli interventi militari che insistono in questa regione, così come in altre parti del mondo, la loro natura è chiaramente imperialista. Le diverse potenze e i centri imperialisti mentre parlano di “stabilità e sicurezza” e di lotta “per la pace e contro il terrorismo” dando una pennellata umanitaria, mirano in realtà a conquistare e difendere le posizioni, gli interessi e i profitti dei rispettivi monopoli capitalistici nella contesa imperialista sulla pelle dei popoli, una contesa per la spartizione delle zone d’influenza, per esportare capitali, accaparrarsi materie prime, terre, quote di mercato, manodopera a basso costo, controllo di vie di trasporto e cruciali punti geostrategici ecc. Questo avviene nelle diverse forme a livello politico, diplomatico (spesso dietro la retorica umanitaria), economico e, per l’appunto, militare, cercando di aumentare la propria influenza, ottenere la compiacenza e l’allineamento delle classi dirigenti locali, fomentando gruppi armati di varia estrazione e conflitti etnici e religiosi che vengono abilmente sfruttati per i propri interessi e piani dai centri imperialisti.
Pur essendo prevalentemente desertico, il territorio del Sahel, come detto, è estremamente ricco di risorse naturali ed energetiche ma al contempo rappresenta una delle aree più povere del mondo. Attraversando il continente africano dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, rappresenta una cerniera tra il Mediterraneo e il golfo di Guinea e una porta per l’Africa sub-sahariana. Comprende stati quali Mauritania, Nigeria, Sudan, Eritrea, Etiopia, Niger, Mali, Burkina Faso, Ciad e Senegal, accumunati da povertà, carestie, siccità, diseguaglianza economica e sociale, corruzione delle classi dirigenti, insicurezza alimentare e malnutrizione infantile6, frequenti pandemie, esaurimento delle risorse idriche a causa delle attività estrattive (ad es. uranio) da parte delle multinazionali. A ciò si aggiungono conflitti militari col sorgere di numerosi gruppi armati di varia estrazione (in gran parte di matrice islamista)7 che si inseriscono in questo scenario di estrema povertà e malcontento popolare, di caos politico e sociale e rivalità interetniche per legittimarsi, controllare vaste aree per una serie di attività redditizie come traffico di schiavi, di droga e armi e il commercio parallelo nel mercato nero delle risorse di cui si contendono spesso il controllo con i governi centrali. Questa situazione è alimentata dai centri imperialisti che al contempo trovano la giustificazione per intervenire in un susseguirsi di violenze e sfruttamento della popolazione locali di cui sono tutti responsabili.
In questo complesso e contradditorio quadro, le masse proletarie e popolari dell’area del Sahel sono spesso protagoniste di sollevazioni contro la diffusa povertà, le pessime condizioni di vita, la disoccupazione, la mancanza di servizi fondamentali, la repressione, la corruzione e le politiche antipopolari dei governi, regimi antidemocratici, lo sfruttamento capitalistico e il saccheggio imperialista.
Ultime in ordine di tempo sono le proteste di massa in Niger8, Ciad9 e Senegal10 che, proprio in queste settimane, nell’indifferenza generale vengono soffocate nel sangue così come avvenuto anche in Mali la scorsa estate e in Nigeria ad ottobre.
Altro elemento comune è, naturalmente, il passato coloniale nella seconda metà del XIX secolo: gran parte del Sahel centro-occidentale faceva parte dell’impero coloniale francese, il Sudan e la Nigeria di quello britannico, mentre l’Eritrea e l’Etiopia furono occupate dall’Italia. Dominio che durò fino a metà del XX secolo quando i rapporti di forza a livello internazionale, garantiti dal blocco socialista e dal movimento comunista, rafforzarono le lotte popolari di liberazione anticoloniale, avviando quello che è noto come processo di decolonizzazione, portando all’ottenimento delle indipendenze, pur con esiti contradditori, per i popoli.
Dal passato coloniale, è sicuramente la Francia a ricoprire tutt’oggi il ruolo di potenza con la maggiore influenza nel Sahel mantenendo fortissimi legami a livello politico ed economico-monetario con le sue ex colonie. La forte presenza di monopoli francesi in molti Stati della regione ne è testimonianza diretta, basti pensare alla petrolifera Total, ai gruppi Bolloré, Alstom e l’Oréal, così come al monopolio energetico Orano (ex-Areva) che estrae dalle miniere del Niger circa un terzo dell’uranio necessario al funzionamento delle sue centrali nucleari. Ma, negli ultimi anni, l’egemonia francese è stata erosa da diverse potenze come Cina, Turchia, Russia, Giappone, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Israele, Germania e Italia che cercano di penetrare ed espandere i loro interessi anche in questa regione, senza dimenticare ovviamente gli USA e la Gran Bretagna.
In un groviglio di conflitti d’interessi e competizioni inter-imperialiste, l’imperialismo francese ha rivisto la sua politica: non riuscendo a sostenere uno sforzo militare adeguato al sempre più complesso controllo diretto di quest’ampia regione, dove tra l’altro continua a subire perdite a seguito di scontri a fuoco con i vari gruppi armati attivi nell’area (sono 50 i militari francesi uccisi dall’inizio della missione Barkhane), sta cercando di garantire i propri interessi da un lato rafforzando e addestrando gli eserciti “regolari” locali sotto governi su cui riesce ad esercitare la sua influenza, dall’altro aprendo a forme di cooperazione militare con “alleati” europei purché sotto la sua direzione (provando ad ostacolare invece quelle iniziative nelle quali non ha un ruolo di comando) con l’obiettivo di conservare così il suo vantaggio strategico. In questa direzione va letta la volontà espressa da Macron in occasione dell’ultimo vertice G5 Sahel svolto a N’Djamena il 15 e 16 febbraio scorsi, di «ampliare la dimensione collettiva per avere una coalizione internazionale» sottolineando come in relazione alla forza militare Takuba «mai così tanti» rappresentanti hanno partecipato al vertice: ha precisato che oltre a Francia, Svezia, Estonia, Paesi Bassi, Danimarca e Italia anche Serbia, Grecia e Marocco si sono «proposte volontariamente» di unirsi alla missione, sottolineando anche l’attenzione dimostrata dal segretario di Stato Usa, Antony Blinken.11 L’obiettivo francese è quello di rafforzare l’operazione Takuba, fino ad arrivare a 2 mila militari con un «pilastro francese di circa 500 uomini», una cooperazione con gli eserciti della regione e una redistribuzione dei costi, in quella che ha definito come «internazionalizzazione della lotta anti-terrorismo» nel Sahel.
Non è un caso tutto questo interesse suscitato nei paesi europei da questa missione dato che offre opportunità nell’ottica del considerevole aumento degli scambi commerciali che potrebbe svilupparsi nei prossimi decenni tra Europa e Africa, in particolare quella sub-sahariana, per cui il controllo del Sahel diventa vitale. I recenti dati sul commercio internazionale delle armi, resi noti dall’Istituto per lo Sviluppo e la Promozione delle Relazioni Internazionali (ISPRI), confermano ciò collocando l’area del Sahel tra quelle che registrano una maggiore crescita nelle importazioni grazie soprattutto ai trasferimenti finanziati dall’UE in Burkina Faso (+83%) e Mali (+669%) e altri paesi della regione. Ma altrettanto significativo è il dato che vede Russia (30% del totale) e Cina (20% del totale) come i due principali paesi esportatori di armi nella regione dell’Africa Subsahariana, con la Francia che segue al terzo posto (9,5% del totale). 12
Seppur concepita su iniziativa dell’imperialismo francese13, e quindi influenzata dai suoi interessi, sarebbe sbagliato considerare la partecipazione italiana alla Takuba come una sorta di “tributo alla Francia” nella errata e opportunistica visione politica che vede lo Stato italiano come “supino agli interessi di potenze straniere”. Al contrario, l’imperialismo italiano mira a sfruttare queste condizioni per inserirsi in quest’area con l’obiettivo di guadagnare posizioni, reprimere e gestire i “flussi migratori” e rafforzare i propri interessi economici e geostrategici nella competizione internazionale, sia rispondendo presente all’appello francese rivolto agli “alleati europei” per la cooperazione militare nel Sahel e sia con altre missioni bilaterali o in ambito UE, NATO o ONU.
Conservare la propria influenza nella sponda sud del Mediterraneo, soprattutto in Libia (intaccata non solo dalla Francia), e aprirsi un collegamento con l’area del Sahel offrirebbe all’imperialismo italiano rilevanti opportunità economiche e commerciali, sfruttando inoltre la sua posizione geografica per avere un ruolo da piattaforma logistica. In questo va naturalmente tenuto in considerazione come la vocazione esportatrice dell’economia capitalista italiana e la storica carenza di materie prime e risorse energetiche rendono necessario il recupero di un adeguato grado d’influenza soprattutto in questa regione al fine di mantenere da parte dell’Italia la propria posizione nella piramide imperialista. L’Italia è infatti, con la Francia, tra i primi paesi UE per Investimenti Diretti Esteri nel continente africano e l’ENI è il principale protagonista nella fascia mediterranea e sub-sahariana: prendendo come dati indicativi quelli del 2019, su una produzione giornaliera di idrocarburi di 1.8 milioni di boe (barili di petrolio equivalenti) prodotti dall’ENI, l’Africa sub-sahariana contribuisce per 398mila boe, seguita dall’Africa settentrionale con 386mila e l’Egitto con 344mila boe.
Nella sua relazione all’audizione alle commissioni difesa di Camera e Senato dello scorso 9 marzo14, il confermato ministro della Difesa, Guerini, ha dichiarato l’intenzione di «rafforzare la nostra presenza in Mali e Niger, aumentando così l’apporto europeo alla Coalizione per il Sahel, a vantaggio della stabilità di un’area adiacente alla Libia, e contribuendo al contrasto al terrorismo», individuando come priorità strategica la Libia, nel più ampio quadro che va dal Libano al Golfo persico, dall’EastMed al Sahel, insomma il rafforzamento del cosiddetto “Mediterraneo allargato”, un’area geopolitica considerata strategica per le ambizioni dell’imperialismo italiano, che va dal bacino del Mediterraneo, a quello del Mar Rosso e del Golfo di Aden, nonché larghe porzioni del Medio-Oriente, dei Balcani e del Nord-Africa. Guerini ha infatti sottolineato l’impegno in ambito NATO a continuare ad «esercitare la nostra azione verso i Paesi alleati, per far comprendere l’importanza di un adattamento sostanziale dell’Alleanza verso sud» e ha annunciato una “nuova Strategia della Difesa per il Mediterraneo” basata su «l’uso complementare dei mezzi a disposizione del Paese per la stabilità di un’area a cui sono connessi gli obiettivi di sviluppo del Paese. Tra nuove potenze, vecchie frizioni e crisi ai confini, il Mediterraneo di oggi non è più lo stesso», spiegando che si punta a mostrare «una presenza rafforzata, visibile e che sia percepita come fattore di stabilità», così da «promuovere e tutelare gli interessi nazionali». Ha annunciato anche la candidatura dell’Italia ad assumere il comando della missione NATO in Iraq, la possibilità di una partecipazione anche militare alla European-led Maritime Awareness Strait Of Hormuz-Emasoh (iniziativa multinazionale di sicurezza marittima) nel Golfo Persico (a cui l’Italia aderisce al momento solo a livello politico) e l’intenzione di rafforzare la sua presenza nell’area del Mediterraneo orientale partecipando anche alla forza marittima di Unifil, la missione Onu a comando italiano in Libano.
Infine, non poteva di certo mancare la rassicurazione di Guerini sull’impegno economico per garantire stabilità al budget per la Difesa al servizio della modernizzazione delle forze armate e la «valorizzazione e sviluppo delle capacità tecnologiche e industriali nazionali, nonché di supporto all’export, in un trend di crescita graduale e strutturale degli investimenti». Significativo il passaggio riservato al complesso industriale-militare, in cui si afferma come «le risorse destinate alla Difesa rappresentano, oltre ad un indispensabile investimento per garantire la nostra sicurezza, una leva strategica per l’economia nazionale». Da qui «la necessità di impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia, in grado di armonizzare al meglio le esigenze delle Forze armate con le capacità e gli obiettivi di sviluppo strategico del comparto industriale, e dando priorità ai programmi di investimento con maggiori effetti positivi sulla nostra sovranità tecnologica e sulla nostra economia».
Non sorprende quindi che Leonardo sia tra le imprese italiane che hanno registrato i risultati migliori nel 2020 segnato dalla crisi economica approfondita dalla pandemia: «Il business militare e governativo si è dimostrato resiliente e ci ha permesso di ottenere i risultati attesi nonostante gli effetti del Covid sul business civile» ha dichiarato l’amministratore delegato Profumo commentando il bilancio 2020.15 A conferma di come la produzione e la vendita di armi, che vede il nostro paese tra i primi 10 al mondo, sia un settore centrale e altamente profittevole per il capitalismo italiano oltre a rappresentare una leva per accrescere la propria influenza e la penetrazione economica dei propri monopoli in aree strategiche dell’Africa e Asia dove si concentra il 50% delle vendite.
La partenza del contingente italiano per la missione Takuba, programmata dal governo Conte, segna dal punto di vista temporale il debutto militare del governo Draghi in una linea di continuità dimostrata tra l’altro dalla riconferma del ministro Guerini alla Difesa. Coincidenza vuole che essa avvenga negli stessi giorni in cui lo stato e i padroni abbattono la loro furia repressiva contro gli operai in lotta alla TNT-FedEx di Piacenza16 e alla Texprint di Prato17 contro i licenziamenti e lo sfruttamento capitalistico e si introduce la “militarizzazione della gestione pandemica”. Ma si tratta di una coincidenza casuale solo a livello temporale, rappresentando in realtà la natura dello stato imperialista italiano nella sua continuità d’azione dentro e fuori i propri confini a beneficio degli interessi e profitti padronali.
2 Nella stessa area è presente anche una missione ONU, denominata operazione MINUSMA, con circa 13mila caschi blu.
3 https://www.analisidifesa.it/2021/01/il-ministro-francese-florence-parly-fa-il-punto-sulla-task-force-takuba/
4 Nel solo 2020 si stima che nella regione i conflitti a fuoco hanno causato 6.256 vittime tra soldati, civili e jihadisti. Il 5 gennaio scorso un bombardamento francese su un matrimonio ha ucciso 22 civili nel villaggio di Bounti in Mali.
5 Qui nel dettaglio tutte le missioni all’estero: https://www.lordinenuovo.it/2020/07/13/due-nuove-missioni-militari-dellimperialismo-italiano-in-africa/
6 Si stima che nell’area del Sahel, ogni anno, a causa della malnutrizione muoiano mezzo milione di bambini sotto i 5 anni. Nella stessa, circa 20 milioni di persone si trovano in una situazione di insicurezza alimentare, di cui il 70% in Niger, Ciad, Mali e Nigeria.
7 Boko Haram tra Nigeria, Ciad e Niger, Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (GSIM) che comprende Al Qaeda del Maghreb Islamico, al-Mourabitoun e il Fronte di Liberazione del Macina, lo Stato Islamico del Gran Sahara (ISGS) e la Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO).
8 A seguito delle elezioni presidenziali dello scorso 21 febbraio, il Niger ha visto rinfuocare le tensioni sociali con forti proteste contro il governo di Bazoun, che si pone in continuità con il precedente governo di Issoufou nel suo allineamento a centri imperialisti come la Francia, accusato di brogli. Le proteste sono state represse dalle autorità causando morti, feriti e arresti. Da sottolineare come tra i compiti del contingente militare italiano in Niger c’è anche quello dell’addestramento antisommossa delle forze di polizia nigerine.
9 Forti proteste popolari sono scoppiate da febbraio in Ciad, all’annuncio della candidatura alle elezioni di aprile di Idriss Deby per un sesto mandato. Al potere dal 1990, Iddris Deby, che nel mese di agosto ha assunto il titolo di feldmaresciallo, è un grande alleato della Francia nel Sahel. Nella capitale del Ciad, N’Djamena, ha sede il quartier generale della missione Barkanabe.
10 Da settimane il Senegal è scosso da forti proteste di massa soffocate nel sangue dal regime di Macky Sall, espressione degli interessi della borghesia locale e dell’imperialismo francese. Sarebbero almeno 11 le persone uccise e 590 ferite a causa della repressione delle manifestazioni di protesta. I leader delle principali organizzazioni politiche e sociali progressiste e antimperialiste sono stati arbitrariamente arrestati.
13 Da tenere in considerazione come questa missione si svolga fuori dal quadro UE e della European Intervention Initiative, a dimostrazione della tendenza francese ad esser paese guida in materia di difesa europea e fautore di una sempre maggior grado di indipendenza del blocco imperialista dell’UE dalla NATO e dagli USA. Visione che non trova attualmente un’unanimità all’interno dell’UE; ad esempio, l’Italia parla di “autonomia strategica dell’UE in un quadro di cooperazione con la NATO”.
15 https://www.difesaonline.it/industria/leonardo-2020-conferma-performance-solida-e-resiliente-ordini-%E2%82%AC-138-mld