È iniziato alle ore 7 di ieri lunedì 22 marzo ed è durato fino alle 7 di questa mattina il primo sciopero all’interno della filiera di Amazon Italia. Lo sciopero è stato indetto dalle organizzazioni sindacali confederali, CGIL-CISL-UIL, con l’adesione successiva di USB, a seguito dell’interruzione della trattativa per la contrattazione di secondo livello.
La crescita costante che ha investito la multinazionale in questi anni e, soprattutto, durante la pandemia è divenuta oramai quasi proverbiale. Ma è utile, anche per comprendere meglio l’importanza di una mobilitazione dei lavoratori di uno dei principali colossi dell’e-commerce italiano e mondiale, dare uno sguardo a qualche dato sull’azienda.
In Italia Amazon conta 9.500 dipendenti a tempo indeterminato, ma gli impiegati totali arrivano a circa quarantamila contando i lavoratori in somministrazione e la filiera. L’azienda fondata da Jeff Bezos conta in Italia su oltre 40 siti dislocati su tutto il territorio nazionale, tra uffici, centri di sviluppo, data center, servizio clienti, centri di distribuzione e depositi, il primo dei quali, costituito nel 2011 a Castel San Giovanni in provincia di Piacenza, città che per la sua posizione è da anni oramai uno degli snodi principali per la logistica e delle lotte del settore. Si aggiungono poi due centri di distribuzione e smistamento previsti in apertura nel corso del 2021, a Novara e a Spilamberto (MO), che seguono i due centri inaugurati nel corso dello scorso anno a Rovigo e Colleferro (RM).
L’impatto del colosso dell’e-commerce sull’economia è imponente: una nota aziendale fa sapere che nel 2021 Amazon ha sostenuto le piccole e medie imprese durante la pandemia, investendo a livello mondiale più di 16 miliardi di euro per aiutarle ad incrementare le loro vendite sulla piattaforma (per alcune considerazioni sul tema si veda qui). Restando in Italia, quasi 600 imprese hanno superato gli 850mila euro di vendite sulla piattaforma di Seattle con un fatturato verso l’estero che complessivamente oltrepassa i 500 milioni di euro.
Nel corso del 2020 Amazon ha tagliato il traguardo del milione di lavoratori diretti a livello mondiale, consolidando la propria posizione egemonica, in controtendenza con la notevole contrazione dell’economia globale (qui). Nel terzo trimestre del 2020 ha triplicato l’utile netto e aumentato i ricavi del 37% per la cifra record di 96 miliardi di dollari. Specialmente in Italia, paese in cui il commercio elettronico non era molto sviluppato, si sono visti gli effetti di questa espansione: durante la pandemia ha fatto acquisti online il 75% degli italiani, per un giro di affari di oltre 22 miliardi di euro per gli acquisti online in Italia, oltre il 25% in più del 2019 (qui).
La contropartita di questa crescita che ha riguardato i rami della multinazionale fondata nel 1992 operanti non solo in Italia ma in diversi paesi è un modello aziendale che implica ritmi forsennati e trattamenti disumani per i lavoratori. Sono balzati all’attenzione dei media casi di questo genere dalla Gran Bretagna alle sedi tedesche come anche nel nostro paese. Un modello che riversa duramente sui lavoratori il prezzo dei profitti dell’azienda e che con lo scoppiare della pandemia non ha certo cessato di essere applicato, portando così la stessa azienda a dichiarare, lo scorso primo ottobre, che poco meno di ventimila dipendenti avessero preso il COVID-19.
In concomitanza con questi fattori il modello di organizzazione aziendale praticato dal colosso di Seattle prevede un controllo ferreo dei lavoratori non solo in termini di monitoraggio delle prestazioni ma anche in termini di rigore nella gestione del personale, tanto che per alcune mansioni Amazon ha ritenuto conveniente prima negli USA e via via anche in Europa selezionare solo fra ex militari (si veda qui). Gli ostacoli alla sindacalizzazione e alla contrattazione hanno sempre contraddistinto la multinazionale, che negli anni con il Global Security Operations Centre, una divisione destinata formalmente al monitoraggio dei possibili rischi per la propria attività, ha condotto inchieste ammassando grandi quantità di dati su singoli lavoratori politicamente attivi e sulla portata delle attività sindacali per poter prevenire eventuali rischi che ne potessero derivare (si veda, ad esempio, qui e qui). La forte precarietà, il continuo turnover ed i problemi degli appalti e dei relativi cambi appalto hanno giocato e giocano, come si può intuire, a favore dell’azienda e a discapito dei lavoratori per i quali con queste modalità è stata fortemente ridimensionata anche solo la possibilità di organizzarsi e migliorare la propria condizione.
In virtù proprio della situazione sopra descritta, dunque, al centro delle rivendicazioni dei lavoratori in sciopero nelle scorse ore si trovano la ripresa della trattativa su basi diverse, la verifica dei carichi e dei ritmi di lavoro imposti, la verifica e la contrattazione dei turni di lavoro, la riduzione dell’orario di lavoro dei driver, gli aumenti retributivi, la clausola sociale e la continuità occupazionale per tutti in caso di cambio appalto, la stabilizzazione dei tempi determinati e dei lavoratori in somministrazione e il rispetto delle normative di sicurezza.
Le categorie confederali del settore trasporti hanno diramato una nota nella quale si afferma che la partecipazione è stata del 75% dei lavoratori impiegati, con punte in alcuni stabilimenti del 90% (qui).
Questi numeri però rischiano di far emergere un quadro diverso dalla situazione che realmente si è prodotta ieri. La mancanza di una reale preparazione dello sciopero nei luoghi di lavoro unita alla difficoltà obiettiva di radicamento nei magazzini Amazon, anche in relazione alle stringenti misure aziendali atte a limitarlo viste in precedenza, ha prodotto una forte diversificazione nel numero dei partecipanti fra i diversi luoghi di lavoro con presidi a macchia di leopardo che hanno visto presenti per lo più funzionari sindacali di CGIL-CISL-UIL. Questa modalità di costruzione dello sciopero e la conseguente difficoltà nell’attivazione di ampi settori dei dipendenti del ramo italiano della multinazionale e della relativa filiera sono state frutto della scelta fatta dal sindacalismo confederale oramai da anni: ci si muove più sul piano della ricerca di tavoli e di sinergie con le imprese e i governi, piuttosto che sul piano della costruzione della lotta e dell’organizzazione permanente della classe sul luogo di lavoro, contribuendo a costruire artificiali divisioni con quegli elementi della classe disposti a mobilitarsi ed organizzarsi più combattivamente. Questa impostazione da parte dei confederali in parte spiega ed in parte è causata dalla volontà, per accreditarsi come interlocutori “responsabili” presso l’azienda e il governo, di puntare più sull’aspetto mediatico e sull’appello ai consumatori a non comprare per un giorno sulla piattaforma che sul determinare un effettivo danno economico bloccando le merci e i magazzini. Un “senso di responsabilità” che, oltre ad essere la maschera con cui negli anni si sono giustificati rinnovi al ribasso dei Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro (CCNL), ha preso forma recentemente, ad esempio, nel rinnovo del CCNL dei metalmeccanici con cui non si sono realizzati miglioramenti sensibili nelle condizioni dei lavoratori né nella redistribuzione della ricchezza (ne avevamo parlato qui). Far seguire, quindi, a questo sciopero un rinnovo del CCNL della logistica (rinnovo che manca oramai da due anni) all’insegna della “responsabilità” sarebbe il miglior modo per mortificare il primo ma importante segnale dato da quei lavoratori Amazon e della filiera che nelle scorse ore hanno deciso di aderire e manifestare il proprio malessere nei confronti di una condizione lavorativa insostenibile.
Un segnale che i sindacati di base e conflittuali non hanno ignorato e che hanno tentato di valorizzare con la propria presenza in molti presidi attraverso la quale hanno portato avanti il proprio bagaglio di esperienze (si pensi alla resistenza portata avanti dal SI Cobas in opposizione ai piani di ristrutturazione della multinazionale TNT-Fedex) e invitato i lavoratori a proseguire nella lotta contro lo sfruttamento della multinazionale partecipando allo sciopero della logistica di venerdì 26 marzo, in maniera da aggiungere il loro contributo alle lotte delle migliaia di lavoratori che negli ultimi anni hanno visto migliorare le loro condizioni lavorative, nonostante le forti limitazioni della rappresentanza avallate dagli accordi siglati dai confederali e il governo oramai da anni, grazie agli scioperi e alla lotta costante. Un invito a riprendere la strada della giusta lotta contro lo sfruttamento padronale, partendo proprio da un settore così strategico nello sviluppo del capitalismo del ventunesimo secolo, quale è quello della vendita online e della logistica.