Un governo nato sotto la tediosa e sgradevole retorica della “competenza” non poteva non porre tra i primi punti all’ordine del giorno l’ennesimo appello per una Pubblica Amministrazione “riformata”, “rinnovata” e “produttiva”. «Ho invitato a cena i leader sindacali, è stata la base di un accordo di collaborazione», ha dichiarato il Ministro Renato Brunetta,1 facendo subito un quadro chiaro della prassi utilizzata per tali intese a porte chiuse e in ambienti in cui tutto entra meno che la pressione delle istanze dei lavoratori e delle loro piazze. La Pubblica Amministrazione (PA), ricordiamo, è l’insieme degli enti pubblici che concorrono all’esercizio e alle funzioni dell’amministrazione di uno Stato nelle materie di sua competenza. La maggior parte di queste materie interessa servizi di interesse generale, la cui utilità e qualità si può misurare soltanto in relazione alle necessità e al funzionamento del resto del sistema-paese e non a seconda delle “merci prodotte nell’unità di tempo” (si pensi all’ufficio anagrafe di un comune, alla formazione degli studenti in un liceo o al servizio 118 del sistema sanitario). Spesso, oltretutto, la PA è tenuta ad offrire, per assicurare il funzionamento omogeneo dei servizi pubblici ed (in teoria) il solidarismo sociale, dei servizi in territori le cui comunità non sarebbero economicamente capaci di “retribuire” il sistema amministrativo per i servizi che offre. E, tuttavia, la tendenza politica, negli ultimi anni, è stata quella di far somigliare sempre più la PA, nelle politiche finanziarie relative ad essa e nei suoi parametri di valutazione, ad una azienda privata. A cominciare proprio dalle riforme Brunetta implementate durante i primi anni del Berlusconi IV. Le parole d’ordine sono sempre più prevalentemente quella della “produttività”, della partnership col privato e della “razionalizzazione dei costi”.
Oggi questa è la strada che si intende ancora perseguire e, nonostante qualche cambiamento lessicale nei proclami, si preannunciano contratti peggiorativi per i dipendenti pubblici e una sempre maggiore delega al privato dei servizi essenziali, accompagnati da un falso impegno per l’efficienza del sistema.
Vediamo i principali punti che l’accordo tra il Ministro per la Pubblica Amministrazione del governo Draghi e i sindacati confederali prevede, analizzandoli passo per passo.
Il punto principale del patto per la PA tra governo e sindacati2, oltre all’aumento degli stipendi (107 euro medi mensili ai dipendenti pubblici e statali e 334 euro ai dirigenti pubblici), concerne i rinnovi contrattuali relativi al triennio 2019-2021, che interessano oltre 3 milioni di dipendenti pubblici, e annuncia il confluire dell’elemento perequativo delle retribuzioni all’interno della retribuzione fondamentale. L’elemento perequativo, si ricorda, è un’aggiunta in busta paga che serve per sostenere le retribuzioni dei lavoratori di aziende non interessate dalla contrattazione di secondo livello e che non godono di importi aggiuntivi rispetto alla paga base. I primi dettagli da notare, e che potrebbero non essere evidenti dalla descrizione dell’accordo, è che praticamente – annullando l’elemento perequativo – si depotenzia o si annulla la facoltà di usare uno strumento di equità tra i lavoratori, cosa che va a braccetto con la disparità che si crea fisiologicamente tra beneficiari o meno del welfare contrattuale che viene promosso dal patto, come vedremo nelle righe seguenti. Inoltre, i 107 euro mensili di aumento annunciati costituiscono una media tra i diversi settori, il che potrebbe celare anche qui un peggioramento effettivo dell’equità retributiva. Restano da attendere i rinnovi contrattuali per dare un giudizio completo.
Per comprendere il reale impatto e mettere in prospettiva il significato politico di questo punto occorre, innanzitutto, ricordare che in diversi anni di blocco del turnover (che esiste in vari gradi da inizio anni 20003) la Pubblica Amministrazione ha subito la perdita di oltre 300 mila posti di lavoro con sanità, ricerca ed enti locali che sono stati i settori più colpiti dai tetti di spesa e dalle regole dell’austerità, fattori che hanno portato a contenere la spesa per il personale. Come ha rimarcato lo stesso Brunetta4, solo tra il 2019 e il 2020 sono stati persi 190 mila dipendenti, mentre nei prossimi 3 o 4 anni sono previste 300 mila uscite. Tuttavia, non è previsto un esplicito aumento numerico di personale dai nuovi patti.
Un cambiamento radicale nella Pubblica Amministrazione necessiterebbe, allora, della rimozione di tutti i vincoli di investimento e di trattamento contrattuale, non ultimi quelli riguardanti la sostenibilità finanziaria negli enti locali e i tetti di spesa per il personale a tempo indeterminato. Quello che si evince, invece, è che si sta andando verso deroghe alla spesa per i tempi determinati e i contratti flessibili in una PA nella quale non è ancora in programma neanche una vera stabilizzazione dei precari.
Anche per quanto riguarda gli aumenti delle retribuzioni occorre mettere le cose in prospettiva: il blocco del rinnovo dei contratti partito nel 2010 è costato il mancato incremento in busta paga di almeno 212 euro lordi al mese.5 La cifra, inoltre, è stata indicata nel 2016 all’Agi proprio da Michele Gentile, coordinatore del dipartimento del pubblico impiego della CGIL. I confederali farebbero bene, dunque, a dosare il loro trionfalismo. Per quanto riguarda il rinnovo dei contratti, un ultimo punto degno di nota e a sfavore del pari trattamento dei lavoratori pubblici è che il Governo, secondo il patto, si ripromette di individuare le misure legislative utili a promuovere la contrattazione decentrata. Si andrebbe ulteriormente a perdere, dunque, l’universalità delle tutele e dei livelli retributivi a favore, magari, di una nuova stagione di “gabbie salariali”, tanto invocate da settori della destra italiana nei mesi scorsi.
Un passaggio centrale del patto, come accennato, si focalizza sull’efficienza, la modernizzazione e sulla necessità di fondare la PA sulla produttività. Si parla, soprattutto, di merito e orientamento ai risultati come criteri per le premialità retributive, nel solco del modello di gestione privatistica della stessa PA, per cui possiamo ipotizzare un potenziamento del sistema della performance che ha prodotto finora risultati paradossali e deludenti, alimentando soltanto disuguaglianze salariali e conflitti interni tra i lavoratori.
Il pericolo intrinseco in tutti i discorsi di tal sorta è, innanzitutto, che il premio produttività a chi “raggiunge gli obiettivi” nella Pubblica Amministrazione, con l’abbassamento relativo delle retribuzioni, sostituisca sempre più quello che un tempo era il normale stipendio. Si tratta, in generale, di una graduale e subdola legittimazione culturale del cottimo, un sistema pericolosissimo e che per fortuna – dopo essere praticato a misura piena in fabbriche come il Lingotto durante il fascismo – era stato gradualmente superato (seppur ancora de facto vigente nei settori dove i lavoratori sono più sfruttati come quelli dei riders, delle false partite Iva, del lavoro nero).
Per smascherare la retorica della produttività nella Pubblica Amministrazione bisogna, innanzitutto, comprendere che se la PA oggi si può definire “inefficiente” (ovvero incapace di offrire i servizi di cui la popolazione necessita) ciò avviene per almeno tre motivi, che hanno a che fare ben poco con la presunta “pigrizia” dei dipendenti pubblici e molto col fatto che gli enti statali sono gestiti come un’azienda il cui unico scopo è “razionalizzare”, si legga “tagliare indiscriminatamente”, la spesa. Questo, soprattutto negli ultimi anni, si è tradotto in:
- Poco personale negli uffici (l’Italia è il paese avanzato con il rapporto più basso tra dipendenti pubblici e popolazione, senza contare che essi sono il 14% degli occupati,6 la metà che nei paesi del nord Europa)
- Personale pubblico più anziano con età media di 51 anni7 (anche qui vantiamo un bel record a livello europeo). Ciò a conseguenza del blocco del turnover e dell’innalzamento dell’età pensionabile.
- Pochi investimenti in tecnologia e innovazioni, derivanti dalle “esigenze” di risparmio a breve termine sopra descritte, le quali si trasformano in fattori di perdita qualitativa (e anche finanziaria) nel lungo periodo, cosa indifferente al dirigente o al politico di turno il quale ha il solo interesse di portare “a casa il risultato” della razionalizzazione delle spese durante il suo incarico.
Tutto ciò, come accennato, ha poco a che fare con la supposta inefficienza del dipendente pubblico, che anzi ha visto la sua retribuzione stagnare fin dal blocco degli aumenti del 2010. È urgente e necessario distinguere, allora, le finalità politiche di una campagna ideologica che mira soltanto a creare divisione tra i lavoratori e rendere il salariato pubblico capro espiatorio di problematiche la cui sorgente va ricercata proprio in quell’aziendalismo che tale campagna stessa mira a giustificare.
Quello che si propone da anni, e in maniera ancora più pressante con la retorica della produttività e degli “obiettivi” tra le righe del nuovo accordo, è di trasformare la PA in una azienda sempre più simile ad un privato, finalità che si vorrebbe far passare come tecnica ma che si fonda su una chiara visione politica di “superiorità del privato” che, quantomeno, le vicende sanitarie accadute da un anno a questa parte, con i lavoratori della sanità pubblica spesso obbligati ad andare ad aiutare le strutture sanitarie private, avrebbero dovuto rendere improponibile.
Sotto questa prospettiva, la proposta malcelata di una retribuzione a cottimo nel settore pubblico si rivela pericolosissima. Se, infatti, la retribuzione a tempo è stata quella maggiormente negoziata dalla contrattazione collettiva storica un motivo c’è, ed è l’imputare al datore di lavoro il rischio del rendimento e della produttività del lavoro. Questa forma di remunerazione è stata, nel passato, la preferita dalle organizzazioni sindacali perché garantisce tendenzialmente parità retributiva ai prestatori inquadrati al medesimo livello e perché sottrae il lavoratore a quel continuo “stress da esame” che altre forme quali, appunto, il cottimo o la retribuzione di produttività implicano. Quando si determina la maggior parte o la totalità del trattamento economico in base al tempo di lavoro si sottrae questa quota di retribuzione a qualsivoglia rischio, in considerazione del fatto che il lavoratore subordinato svolge la sua prestazione nell’ambito di un’organizzazione produttiva predisposta da altri e sotto le altrui direttive.
In altre parole, con il cottimo (o il “premio produttività”) il lavoratore o la lavoratrice sa quando inizia ma non quando finisce, tanto non è lui/lei a decidere cosa è fattibile e cosa no. E se non si adatta ai ritmi schiavisti è, eventualmente, licenziato/a. Questa è una prospettiva irricevibile quando non si controllano le decisioni e non si partecipa ai frutti dell’attività economica direttamente, ma solo come parte debole della contrattazione. Il cottimo diventa un modo per scaricare il “rischio d’impresa” dalla parte forte (chi detiene i mezzi di produzione) alla parte debole della contrattazione (chi non li detiene).
Un tale discorso è applicabile tanto alla negoziazione nel settore privato quanto in quella nel settore pubblico, soprattutto in un contesto in cui la grande dirigenza, l’esecutivo e l’ideologia politica dominante sono legati a doppio filo ai settori più egemoni del grande capitale industriale e finanziario. Un assetto dove si può “imporre” al dipendente un obiettivo a prescindere da una vera partecipazione dei lavoratori alla determinazione della fattibilità e della sensatezza dell’obiettivo stesso, tra l’altro, rende ancora meno attraente al “gestore” investire in innovazioni, poiché più conveniente per esso elaborare piani per estrarre sempre più produzione dal tempo di lavoro.
Per di più, è paradossale invocare la modernizzazione della PA senza investire nell’ammodernamento effettivo degli strumenti di lavoro: migliaia di uffici oggi sono ancora privi di collegamenti alle reti e la formazione al personale è inesistente, con tanti lavoratori costretti a colmare a proprie spese, e nel tempo libero, le lacune derivanti dalla paralisi della PA.
Detto questo, per fare una panoramica completa sulla tematica dell’“efficienza” e dell’equità della Pubblica Amministrazione, va fatto un passaggio d’obbligo per quanto riguarda il settore ministeriale, prendendo ad esempio uno tra i Ministeri più importanti, specie in questo periodo storico, ovvero quello dello Sviluppo Economico. Nello staff di questo Ministero l’età media sale a dismisura, arrivando a toccare la soglia dei 58 anni. Andrebbe, poi, fatta luce sulle continue e ormai frequentissime esternalizzazione dei servizi8, a partire dalle pulizie fino alle strapagate consulenze a collaboratori esterni che il Mise, per mancanza di personale adeguato, non può più fornire. Verrebbe da chiedersi quanto sia deliberata questa carenza di figure professionali, che in alcune direzioni dello stesso Ministero superano, addirittura, i dipendenti interni con conseguenti e “forzati” bandi a società esterne e terze. Brunetta in tal senso, citando i nuovi concorsi persevera nel parlare di contratti a termine, quindi la sostanza non sembra cambiare.
All’interno dei ministeri, questa situazione crea enormi disparità di guadagno e diritti, perché se da una parte sicuramente un “esterno” ha un ottimo stipendio, dall’altra un addetto all’assistenza informatica si trova a svolgere una mansione con un contratto offerto da una ditta appaltante, contratti legati ad una precarietà cronica. Un elemento che meriterebbe particolare attenzione, oggi, è la totale mancanza (nei ministeri ma, più o meno, in tutto il settore pubblico) di una intera generazione che va, approssimativamente, dai 30 ai 45 anni; generazione, al limite, presente in forme contrattuali decisamente differenti da quelle di un contratto pubblico tutelato. Oltre a ovvie sperequazioni tra il personale, questo conduce ancora più fortemente ad una difficoltà di funzionamento della PA. Il settore pubblico si trova, in altre parole, diviso tra una grossa fascia di lavoratori anziani e poco informatizzati e una piccola fascia di lavoratori giovanissimi, fisiologicamente con poca esperienza. La generazione che avrebbe dovuto oggi sopperire a questo squilibrio è proprio quella allontanata dal blocco del turnover. C’è, infine, un silenzio assordante, anche da parte delle organizzazioni sindacali che hanno firmato l’accordo, sulla chiusura di diverse graduatorie scadute il 31 dicembre, dalle quali sarebbe stato possibile accingere per poter rinfoltire le carenze, evitando magari dovute e volute esternalizzazioni.
Questo intero scenario porta a fare una profonda valutazione di merito sul ruolo del dipendente pubblico di oggi.
Spesso si chiede a personale con una anzianità lavorativa molto alta di provvedere a mansioni specifiche non più legate alla figura professionale con cui era entrato nella PA. Ciò non può considerarsi un pretesto per la mancanza di funzionalità, ma va detto che uno dei maggiori problemi nella gestione della PA è un vero metodo di aggiornamento dei dipendenti, proprio negli anni nei quali si è puntato molto a livello propagandistico sulla modernizzazione.
Come questa pandemia ha tristemente svelato, per anni non si è provveduto a formare il personale per essere al passo coi tempi, sia per mancanza di fondi che per volontà delle amministrazioni stesse, esponendo così il dipendente pubblico alla gogna mediatica, facendo pagare ad esso le ire dei cittadini. Fa sorridere, in effetti, la legge 15 del 2005 dove “si incentiva” la PA all’uso della “telematica”9 (e in linguaggio giuridico incentivare non è una proposta ma una sorta di imposizione), alla luce del fatto, ormai evidente, che hanno in realtà contribuito alla “modernizzazione delle abitudini” dei dipendenti più 15 giorni di lockdown che 15 anni di (mancata) applicazione di quella legge. I dipendenti pubblici, nell’era Covid, si sono letteralmente reinventati un lavoro in pochi giorni, con notevoli difficoltà dettate da un sistema ancora non pronto ad un totale passaggio all’uso della “telematica”.
Questa mancanza di investimenti reali nella modernizzazione delle mansioni (che, in mancanza di aumenti sostanziali degli stanziamenti per la PA, continuerà) è uno dei motivi per cui la questione delle “performance” dei dipendenti pubblici è esclusivamente utilizzata per mettere gli stessi in competizione per una fantomatica produttività che risulta discriminatoria nei confronti di alcune figure professionali. Per comprendere il motivo della poca sensatezza dei criteri di “produttività”, dettati dalle linee di massima generali e dalla contrattazione locale, basta fare alcuni esempi. Si sentono infatti folli richieste arrivare dai vari uffici per valutare le performance: dal contare le email giunte e mandate da un ufficio, al dire quante telefonate si effettuano ogni giorno o, nei casi di dipendenti coinvolti nella gestione di portali telematici di biblioteche ed enti simili, contare quanti like riceve un post o la pagina gestita, o quante volte gli utenti rispondono ad un post, o le persone che si recano allo sportello. Tutto ciò dovrebbe fare riflettere sul senso di un richiamo alla produttività in ambienti dove si “produce” ben poco ma si offre un servizio la cui risultanza e i cui connotati, come accennato all’inizio, dipendono dal contesto sociale e dagli investimenti nel lungo periodo nel sistema intero.
Un ultimo contesto nel quale sarebbe bene smascherare la fiducia nel valore assoluto del “merito” è quello dell’attuale forma nella quale si svolgono i concorsi pubblici. In sostanza, un cittadino che partecipa ad un concorso pubblico lo svolge per entrare nella PA “in generale”. Ad esempio, ad un concorso da bibliotecario viene chiesto codice della strada. Come già illustrato, inoltre, in poco tempo le mansioni possono cambiare e si possono trovare ex sanitari svolgere ruoli in uffici comunali. In un assetto del genere la professionalità e la meritocrazia hanno ben poco ruolo da svolgere, rendendo chiaro come sia completamente inutile scaricare il peso della “poca efficienza” della PA sul singolo lavoratore, quando i problemi sono nelle politiche organizzative e finanziarie a monte di esso.
La strada intrapresa è, perciò, sbagliata in primis dal punto di vista ideologico. Nonostante le vicende appena evidenziate, si continua su un percorso di “americanizzazione” e asfissiante competitività interna, senza alcuna base logica.
Uno dei passaggi più riprovevoli del nuovo patto per la Pubblica Amministrazione tra governo e sindacati è, infine, lo sdoganamento, anche fra gli statali, della possibilità del welfare contrattuale10, modo asettico per descrivere il welfare privato pagato con risorse pubbliche e con quelli che avrebbero dovuto essere aumenti salariali.
Nessuna grande sorpresa, visto che da tempo i maggiori sindacati hanno accettato l’offerta di convertire aumenti salariali in prestazioni di welfare contrattuale, senza considerare che i vantaggi più consistenti sono per i datori di lavoro che possono azzerare il cuneo fiscale sulle somme erogate ai lavoratori e dedurre le spese dal reddito d’impresa.
Per il lavoratore sia privato che pubblico, invece, l’agevolazione è solo apparente per almeno tre ragioni: innanzitutto con un aumento salariale, oltre a disporre di una maggiore liquidità, il lavoratore godrebbe di maggiori oneri riflessi tramite la liquidazione e la pensione contribuendo, parallelamente, ad un maggior gettito fiscale per la finanza pubblica; in secondo luogo, aderendo ad un fondo sanitario (al prezzo di un mancato aumento salariale) il lavoratore finisce per pagare due volte per le stesse prestazioni, perché continuerà a sostenere con la fiscalità generale il diritto a ricevere l’assistenza sanitaria pubblica (o più probabilmente si finirà per definanziare questa, dando sempre più potere a chi deve fare profitto); infine, della somma versata al fondo il 40-50% non può tradursi in servizi perché variamente assorbito da gestione amministrativa11, fondo di garanzia o oneri di ri-assicurazione e da eventuali utili della compagnia assicurativa.
Il Patto, in conclusione, è dunque funzionale ad un modello di Pubblica Amministrazione sempre più simile ad un privato, con la stessa dinamica di allargamento delle disuguaglianze tra lavoratori e tra fruibilità dei servizi nei diversi luoghi del Paese. Servizi sempre più paragonati ad una merce la cui produttività dipenderebbe da criteri quantitativi e astratti completamente inapplicabili ad un sistema di servizi di interesse pubblico.
Un aziendalismo diffuso e imperante, che sminuisce sempre più la qualità della vita dei dipendenti pubblici e, anche, la qualità dei servizi offerti alla popolazione, con gli unici soggetti avvantaggiati da questo assetto identificabili nei proprietari dei capitali privati da investire per compensare alle mancanze del sistema pubblico che dovrebbe essere omogeneo e universale.
Domenico Cortese e Luca Giovinazzo
1 https://www.orizzontescuola.it/pa-brunetta-ho-invitato-a-cena-i-leader-sindacali-il-dialogo-e-importante/
2 http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/11-03-2021/firmato-il-patto-governo-sindacati-linnovazione-del-lavoro-pubblico-e
3 https://pagellapolitica.it/blog/show/517/renzi-salvini-madia-e-tremonti-ma-chi-ha-bloccato-il-turnover
4 https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=93318#:~:text=Tra%20il%202019%20e%20il,)%20che%20dipendenti%20pubblici%20attivi%E2%80%9D
5 https://www.agi.it/economia/p_a_cgil_con_blocco_contratti_persi_212_euro_al_mese-1006432/news/2016-08-16/
7 https://www.lastampa.it/economia/2020/07/06/news/una-pubblica-amministrazione-di-anziani-l-eta-media-dei-pubblici-e-di-50-7-anni-1.39050742
8 http://qualitapa.gov.it/sitoarcheologico/relazioni-con-i-cittadini/utilizzare-gli-strumenti/outsourcing/index.html