La tragica situazione che sta vivendo l’India, investita in pieno dalla nuova ondata di epidemia di Covid-19, si sta rivelando in tutta la sua drammaticità: nelle ultime due settimane i tamponi effettuati hanno rilevato il superamento costante dei 300.000 contagi giornalieri facendo balzare il totale provvisorio a più di 20 milioni di contagi. Nonostante rappresenti una delle nuove potenze imperialiste emergenti nell’ambito dei paesi BRICS, contando più 1,3 miliardi di persone, la risposta del governo centrale del nazionalista Narendra Modi sta mostrando tutti i limiti delle politiche sanitarie e sociali di stampo capitalista attuate negli ultimi anni; la curva dei contagi ha ripreso a salire regolarmente dai primi di marzo, quando si registravano tra i 15 e i 20 mila casi giornalieri, fino ad arrivare ai 400 mila contagi del 1 maggio; in parallelo anche la conta dei morti si è aggiornata, fino ad arrivare agli inizi di maggio a più di 220.000 decessi.
I soli numeri non bastano a descrivere la tragedia indiana che sta mostrando in tutto il mondo la superficialità e il disinteresse del governo centrale per la sorte della propria popolazione, soprattutto degli strati più poveri che si trovano di fronte al bivio di scegliere tra morire di fame o di virus. La diffusione della nuova ondata è partita, come successe lo scorso anno, dai grandi centri urbani: il sovraffollamento, l’altissima densità abitativa, le infrastrutture carenti e malmesse, il disagio dei larghi strati sociali più poveri delle città che hanno spesso accesso ad abitazioni senza i servizi minimi quali acqua, luce, gas, hanno riacceso la miccia dell’epidemia di Coronavirus, contribuendo a far emergere la nuova variante “indiana”, ancora in fase di studio ma che si è diffusa a macchia d’olio in tutto il paese, valicando anche i confini nazionali con le sue ripercussioni su scala mondiale. In aggiunta, le condizioni precarie e di insicurezza diffusa sui luoghi di lavoro, dove la gran parte dei lavoratori non ha né tutele né diritti hanno contribuito a veicolare il virus su larga scala.
Alcuni governi regionali (come quello di Delhi) si sono quindi visti costretti a dichiarare lo stato di lockdown per cercare di limitare la diffusione del contagio. Tuttavia questo provvedimento, con la conseguente chiusura di tutti i luoghi di lavoro non indispensabili, ha portato ad una fuga di massa dalle città con i lavoratori diretti verso le proprie zone di origine: una fuga inevitabile per la maggior parte di questi, costretti, senza più stipendio e mezzi per sussistere, a cercare di ricongiungersi con le proprie famiglie. Di conseguenza anche il virus si è mosso verso le campagne e le aree periferiche, portando la situazione già grave dei pochi ospedali locali vicina al collasso1. Infatti, nelle ultime settimane, la mancanza di posti letto, di operatori sanitari, di respiratori, di ossigeno negli ospedali in tutto il Paese si è fatta sempre più pressante, raggiungendo con il crescere del numero dei casi un livello insostenibile per la popolazione.
In questo quadro i partiti della sinistra indiana, tra cui il Communist Party of India (Marxist), nella Giornata Internazionale dei Lavoratori, hanno rilanciato le accuse fatte al Primo Ministro Modi di non aver agito tempestivamente nel bloccare i focolai e nel non aver preso contromisure per evitare il collasso del sistema sanitario, chiedendo l’avvio immediato di una campagna di Vaccinazione Universale Gratuita in tutto il Paese, reclamando il brevetto pubblico sui vaccini e lo stanziamento di fondi per la sanità e il sostegno alle famiglie ed ai lavoratori colpiti2.
Le problematiche che oggi mostrano l’India in totale difficoltà hanno radici più profonde dell’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 nell’ultimo anno: gli investimenti nella sanità indiana alla vigilia dell’epidemia del 2020 rappresentavano circa l’1% del PIL. Anche la riforma sanitaria del 2018, sempre targata Narendra Modi, che nella propaganda governativa mirava a migliorare le condizioni di vita della popolazione indiana, non ha fatto altro che destinare soltanto lo 0,2% del PIL3 per garantire, in piccola parte, l’accesso alle cure per le famiglie più povere ma in strutture sanitarie private, dove queste sono sì migliori, ma rendendo ciò un costo enorme per la collettività, un profitto per pochi e soprattutto nessun investimento nella malridotta sanità pubblica. La stessa sanità pubblica che ad oggi non ha a disposizione l’ossigeno per ventilare i pazienti nelle terapie intensive e sub-intensive del Paese e che a causa delle infrastrutture viarie precarie e malmesse non riesce a distribuire con efficienza e rapidità questo bene. Ne è un esempio tragico la notizia rilanciata dal Times of India, il 3 maggio, di 24 pazienti deceduti a seguito dell’esaurimento delle scorte di ossigeno in un ospedale nello stato del Karnataka4. Allo stesso modo i circa 15 mila ospedali pubblici indiani sono evidentemente insufficienti a garantire un servizio minimo anche in tempi normali con un rapporto di uno ogni 85 mila cittadini circa. Oggi purtroppo, in tempo di Covid-19, poco possono di fronte allo “tsunami” che li ha investiti.
Il fallimento della sanità pubblica, nonostante l’impegno ed il sacrificio degli operatori sanitari costretti ad operare in situazioni sempre più critiche, è interamente dovuto ad una classe dirigente borghese, quella indiana, che al benessere della popolazione ha preferito mettere davanti la ricerca del profitto in ogni settore, incluso quello sanitario, favorendo l’arricchimento delle multinazionali del settore.
A testimonianza di ciò vi è la decisione del governo indiano, il 19 aprile scorso, di lasciare nelle mani dei singoli stati il rifornimento, l’acquisto dei lotti vaccinali e l’organizzazione della campagna vaccinale; queste però, in molti casi, non hanno un budget tale da sostenere la spesa né una logistica in grado di coordinare efficacemente le procedure, causando ulteriori ritardi e blocchi. Tale strategia, come hanno immediatamente accusato i comunisti indiani, ha il fine di sollevare da ogni responsabilità il governo centrale che fino ad oggi è stato incapace di organizzare la vaccinazione di massa nel Paese.
Al 3 maggio le somministrazioni del vaccino contavano meno del 2% della popolazione, un numero totalmente insignificante di fronte ai numeri necessari per ottenere non solo l’effetto gregge, ma anche un parziale allentamento della pressione sui presidi sanitari. I produttori farmaceutici hanno inoltre approfittato subito del via libera del governo, come testimonia la rimodulazione dei prezzi attuata dal colosso indiano nel settore delle biotecnologie, il Serum Institute, che produce nei suoi stabilimenti più di 1,5 miliardi di dosi annuali. Infatti, nell’ambito della lotta al Coronavirus, il Serum Institute ha prodotto quasi il 40% delle dosi del vaccino di AstraZeneca garantendo all’Europa un rifornimento costante negli ultimi mesi, quando i siti produttivi europei della società inglese hanno avuto rallentamenti o problemi di varia natura5. Nell’accordo della multinazionale indiana con il governo ogni dose veniva venduta a New Delhi per 150 rupie, garantendo comunque alla Serum un profitto, come da lei stessa ammesso6.
Oggi però, per i governi regionali il prezzo è salito a 400 rupie, un prezzo a cui l’azienda indiana ha voluto applicare un taglio “filantropico” del 25% a favore dei cittadini indiani, per un costo finale di “sole” 300 rupie. Allo stesso modo, l’altra multinazionale indiana del farmaco, la Bharat Biotech, produttrice del vaccino Covaxin, ha accettato di ridurre il costo del vaccino a 400 rupie in favore degli acquisti regionali, dopo che all’annuncio del governo indiano lo aveva fissato a 600 rupie.7 L’aumento dei prezzi dei vaccini ha infine causato nel paese la nascita di mercati neri anche per questo prodotto, che ha ormai raggiunto prezzi inaccessibili per la maggioranza della popolazione, contribuendo a sottrarre alle già limitate scorte delle dosi indispensabili per il Paese.In aggiunta, sia il Covishield (vaccino AstraZeneca) che il Covaxin non sono ancora stati approvati definitivamente in India, il primo per un “uso ristretto in situazione emergenziale”, mentre il secondo per un “uso ristretto nei trial clinici”8.
Un’altra grave accusa mossa al governo Modi è stata quella di permettere alle multinazionali indiane di vendere le dosi prodotte nel Paese all’estero garantendo a queste enormi profitti e lasciando la popolazione senza scorte vaccinali; solo a metà aprile il Serum Institute ha annunciato un canale preferenziale per l’India in seguito alla liberalizzazione. Inoltre, il paradosso della carenza di dosi si è manifestato pienamente con l’arrivo nel Paese delle prime 150 mila dosi del vaccino Sputnik (al prezzo di 750 rupie per dose9) e in questi giorni le trattative del governo con la Pfizer per il suo preparato porteranno ad un accordo per la commercializzazione del Comirnaty nel paese.
Così se da un lato si sono favoriti i grandi gruppi farmaceutici, liberi di imporre il proprio prezzo alle singole comunità regionali devastate dall’epidemia, dall’altro si è cercato di spostare le proprie colpe e mancanze sui governi regionali, cercando di ripulire l’immagine dell’amministrazione centrale. In aggiunta, il paradosso dell’importazione di vaccini dall’estero quando l’India si posiziona al terzo posto come principale produttore a livello mondiale è emblematico delle nefaste conseguenze della competizione imperialista, dei brevetti e del profitto dei monopoli servito dalla politica borghese10.
La situazione dell’India sembra ormai fuori controllo dal punto di vista sanitario e sociale con i numeri dell’epidemia destinati a crescere ancora ed a portare ulteriore miseria e morte in tutto il Paese. La crisi sanitaria indiana è solo l’ultima di quelle che hanno sconvolto il mondo nell’ultimo anno: dall’Unione Europea al Brasile, dagli Stati Uniti all’India il fallimento della gestione capitalistica della pandemia nel contenimento della diffusione del Covid-19, nell’ottenere l’indispensabile immunizzazione rapida, efficace e di massa in tutto il mondo, nella ricerca di cure, nella protezione e nel sostegno alle fasce più deboli e vulnerabili della popolazione ha dimostrato ancora una volta l’incompatibilità dello sviluppo capitalistico con la vita umana. Ancor più, l’asservimento degli stati e governi borghesi al capitale non ha permesso un’azione risoluta nel difendere le classi più povere dal virus ma anzi ha accentuato, con la crisi sanitaria, sociale ed economica che si è creata, la distinzione di classe tra ricchi e poveri, tra borghesia e proletariato, tra chi ha il privilegio di essere curato e chi lotta ogni giorno per sopravvivere.
A fare da contraltare alla gestione pandemica antipopolare del governo federale di Modi, c’è l’alternativa sviluppatesi nello stato del Kerala – che registra la più alta aspettativa di vita e la più bassa mortalità infantile dell’India – dove il governo locale della coalizione del Fronte Democratico di Sinistra (LDF), guidata dal CPI(m), ha intrapreso un differente approccio distinguendosi dal resto dell’India per la capacità di contenimento dei contagi nella prima ondata della pandemia. Nonostante oggi il dilagare della diffusione del virus nel resto dell’India abbia investito anche il Kerala, secondo il bollettino ufficiale del 5 maggio sull’andamento della pandemia, il rapporto tra deceduti e numero di casi è dello 0,3%, il più basso dell’intera nazione.
Questo è probabilmente uno dei motivi per cui alle recenti elezioni locali dell’Unione Indiana il partito di governo del Bharatiya Janata Party (BJP) è uscito sonoramente sconfitto in 4 stati sui 5 in cui si è votato, mentre il LDF ha ottenuto la riconferma alla guida dello stato del Kerala con un risultato schiacciante dei comunisti che hanno ottenuto 79 seggi (62 il CPI(m) e 17 il CPI) sui 140 totali.
A luglio dello scorso anno fu la stessa OMS a redigere un breve rapporto11 sulle “lezioni” da trarre dal Kerala nella gestione della pandemia, in cui individuava i seguenti punti di forza: preparazione tempestiva, già alle prime notizie dei contagi in Cina; investimenti strutturali nelle infrastrutture sanitarie; massiccia attività di screening nei porti e aeroporti; grande attività di contact tracing e isolamento dei casi, con assistenza psicologica per le persone in quarantena; un’efficace campagna di informazione, con diffusi strumenti di igienizzazione per modificare i comportamenti della popolazione, aiutata dall’alto tasso di istruzione.
L’istituto di ricerca Tricontinental, guidato da Vijay Prashad, storico e membro del CPI(m), studiando l’esperienza del Kerala12 nella risposta al Covid-19 mette in evidenza, innanzitutto, il livello di mobilitazione popolare: “la strategia del governo è stata quella di mobilitare il suo intero apparato statale, compreso il settore pubblico e le Istituzioni Locali di Auto-Governo (LSGI), insieme alle energie collettive delle potenti organizzazioni di massa e di classe dello stato, dei collettivi e delle cooperative, e lo zelo dei cittadini del Kerala. Questa è una strategia di mobilitazione totale che integra il lavoro dell’apparato statale con il lavoro dei cittadini, con un ruolo chiave giocato da quelli mobilitati dalle organizzazioni di massa e di classe. Tutto questo è stato reso possibile grazie all’azione pubblica nello Stato. Fin dall’elezione del primo ministero comunista nel 1957, il Kerala ha investito nell’istruzione pubblica e nella sanità pubblica”. Un esempio è la produzione iniziale di mascherine e igienizzanti: “Kudumbashree, una cooperativa di gruppi di quartiere di 4,5 milioni di donne (circa un quarto della popolazione femminile dello stato) sostenuta dal governo, ha iniziato a fare mascherine. Gli attivisti della Democratic Youth Federation of India (DYFI) di sinistra e del Kerala Sastra Sahitya Parishad (‘Il Forum del Kerala per la letteratura scientifica’ o KSSP, il più grande movimento scientifico popolare del Kerala) hanno contribuito a produrre disinfettanti per le mani”.
A questo va aggiunta la crescita d’investimenti nel sistema sanitario con la salita al governo del Fronte Democratico di Sinistra nel 2016 e il lancio nel 2017 della missione “Aardram” per aggiornare le strutture sanitarie pubbliche dello stato che ha ampliato l’eredità del “miglior sistema di assistenza sanitaria primaria del paese, incentrato sui centri sanitari primari (PHC)”. A questo si aggiungono programmi di assistenza sociale per far arrivare cibo a chi non poteva cucinarlo da solo, campi per accomodare i lavoratori migranti di modo che potessero rispettare il distanziamento, varie misure di sostegno al reddito. Per questi risultati il Guardian definì “Coronavirus slayer” la ministra della Sanità del Kerala, K. K. Shailaja, membro del comitato centrale del CPI(m).
Tuttavia, come detto, oggi anche nel Kerala la diffusione dei contagi è elevata come nel resto dell’India, ma il numero di morti per milioni di abitanti è più basso della media nazionale, mentre il rapporto tra morti e casi positivi è il più basso in assoluto secondo i bollettini quotidiani di questi giorni e tra i più bassi sommando tutti i casi dall’inizio della pandemia. Inoltre, il Kerala si sta distinguendo per la migliore gestione della campagna vaccinale nella nazione. Lontano dai trionfalismi e visioni irrazionali, questa esperienza ci mostra però la potenzialità di un approccio diverso che, se completamente dispiegato in un sistema socialista, poteva portare il mondo alla sconfitta della pandemia in un tempo molto più breve e salvando molte più vite umane.
Giovanni Sestu
1 https://www.lordinenuovo.it/2020/04/23/il-dramma-dei-lavoratori-indiani-ai-tempi-del-corona-virus/
2 https://www.resistenze.org/sito/te/po/ia/poiald26-023917.htm
https://www.resistenze.org/sito/te/po/ia/poiale04-023947.htm
4 https://timesofindia.indiatimes.com/city/bengaluru/karnataka-24-covid-patients-die-at-government-hospital-due-to-oxygen-shortage/articleshow/82366032.cms
6 https://www.nationalheraldindia.com/opinion/vaccines-why-are-government-serum-institute-and-bharat-biotech-quiet-on-the-questions-being-raised
8 https://www.nationalheraldindia.com/opinion/vaccines-why-are-government-serum-institute-and-bharat-biotech-quiet-on-the-questions-being-raised