Il 25 giugno ricorre l’anniversario di uno dei conflitti più sanguinosi del Novecento: la Guerra di Corea. Il racconto unilaterale che oggigiorno ci proviene dalla penisola coreana è filtrato da una cortina di approssimazioni, falsi miti e menzogne vere e proprie che rendono spesso difficile al lettore farsi un’idea più corretta e oggettiva possibile di ciò che accade in quella lontana parte del mondo. A questa prospettiva distorta degli avvenimenti contemporanei non sfugge neanche ciò che riguarda la storia del passato recente del paese e in particolare la storiografia – su una guerra nota in Occidente in modo piuttosto semplificatorio come “Guerra di Corea” o, nella Corea settentrionale, più propriamente, come “Guerra di liberazione della patria” – che si occupa di narrare i fatti di un conflitto militare che ha coinvolto decine di milioni di persone, decine di paesi (se si considera l’intera coalizione a guida statunitense in supporto della Corea del Sud e dall’altro l’URSS e soprattutto la Cina in aiuto al Nord) e provocato oltre tre milioni di morti. Meno ricordata, oggi, di altri interventi armati dell’imperialismo statunitense nel mondo, come la guerra del Vietnam o le recenti guerre in medio-oriente, la guerra nella penisola coreana del 1950 ha avuto un doppio significato. Se da un lato ha segnato la tragedia di un popolo calpestato, diviso e occupato dall’imperialismo dall’altro ha certificato la rottura violenta della fragile tregua tra URSS e potenze capitaliste a seguito della sconfitta del nazifascismo, dimostrando al mondo intero l’aggressività delle potenze imperialiste, USA in testa, intenzionate a tutti i costi a stroncare l’avanzata delle idee di emancipazione sociale e indipendenza che si propagavano ovunque grazie all’enorme prestigio ottenuto dall’Unione Sovietica uscita vincitrice dalla lotta mortale contro il nazismo.
Proprio in Corea i reazionari americani ebbero il loro grande banco di prova – dopo aver perso la Cina, dove nel frattempo nel 1949 era stata proclamata la Repubblica Popolare, e soffocato la rivoluzione in Grecia – nel tentativo di reprimere con un intervento di grandi proporzioni le istanze rivoluzionarie e di cambiamento epocale che avevano conquistato la maggioranza del popolo coreano. La storia della guerra in Corea, le sue cause e i suoi avvenimenti cruciali vengono riportati nella maggior parte della storiografia occidentale (con delle eccezioni) come la volontà di unificazione violenta intrapresa dalla Repubblica democratica nei confronti del sud, come il tentativo unilaterale dei comunisti di “impadronirsi” di tutto un territorio che i risvolti successivi alla sconfitta dell’impero nipponico nella seconda guerra mondiale avevano cristallizzato nella spartizione fra due sfere di influenza, sovietica e americana, al 38° parallelo. La realtà dei fatti, tuttavia, è ben più complessa e diversa delle banali ricostruzioni storiche intese principalmente a giustificare l’intervento statunitense e l’occupazione, perdurante ancora oggi, della regione. Per provare ad andare oltre la cortina di menzogne e distorsioni che circondano le ragioni e le responsabilità politiche e militari della guerra è bene fare un breve quadro della situazione sociale della Corea all’indomani dell’occupazione giapponese.
L’occupazione imperialista giapponese della Corea
L’espansione dell’imperialismo giapponese nell’estremo oriente aveva portato la penisola coreana a perdere la propria indipendenza – dopo decenni di contese fra le potenze imperialiste con Russia e Giappone in primis ma anche Stati Uniti, Inghilterra e Francia che di volta in volta tentavano di imporre i cosiddetti “trattati iniqui” sul modello della penetrazione imperialista che analogamente toccava la Cina. Dopo la guerra Russo-giapponese del 1905, e formalmente nel 1910, infine, la Corea divenne di fatto un protettorato nipponico subendo 35 anni di duro sfruttamento coloniale. All’epoca la Corea era un paese semi-feudale, con la grandissima parte della propria economia basata sull’agricoltura. Al pugno di proprietari terrieri locali si aggiunsero ben presto, con l’occupazione, anche i giapponesi che arrivarono a possedere, insieme ai padroni coreani, oltre il 50% di tutte le terre coltivabili, relegando la restante parte di terre a più di 2 milioni e mezzo di piccole e piccolissime aziende contadine, le quali si indebitavano in misura crescente pagando canoni di affitto salatissimi ai proprietari terrieri incrementando, così, la proletarizzazione dei contadini. L’occupazione inferse, inoltre, un duro colpo alla nascente borghesia nazionale e alla piccola borghesia commerciale coreana, uno schiaffo sancito da una legislazione volta a togliere a questi soggetti ogni margine di manovra. L’imperialismo giapponese aveva in mano tutto, dalle banche, alle industrie, al monopolio del commercio estero e lasciava ai coreani solo le briciole: i capitalisti locali possedevano l’8% dei capitali investiti nelle imprese industriali. Il proletariato industriale ai tempi era costituito soltanto da qualche decina di migliaia di operai che, nonostante l’esiguità numerica, avevano già intrapreso le prime forme di lotta di classe, soprattutto contro la giornata lavorativa di 17-18 ore. Al principio degli anni ‘10 si registravano già i primi scioperi. Nel complesso le condizioni dell’occupazione erano dure per tutta la società coreana: pene corporali, tentativi di cancellazione culturale, imposizione della lingua giapponese, trattamenti discriminatori verso i lavoratori locali (i coreani venivano pagati, a parità di mansione, la metà dei lavoratori giapponesi), avevano risvegliato il sentimento nazionale in ampi strati della società coreana, dalla piccola borghesia agli intellettuali, fra gli studenti e il proletariato.
La grande guerra imperialista del 1914 e soprattutto la Rivoluzione d’Ottobre fecero una grande impressione sul popolo coreano. Al confine settentrionale con la Russia, infatti, affluirono un gran numero di patrioti e di contadini che diedero il loro contributo sia contro le armate giapponesi sia contro le armate bianche, riuscendo ad accumulare preziosa esperienza per il movimento di liberazione nazionale dei decenni successivi. La resistenza all’occupazione giapponese non si manifestò soltanto nei territori di confine, nella Manciura e in Russia, ma anche all’interno della Corea stessa, dove imponenti dimostrazioni popolari minavano la tenuta dell’imperialismo giapponese che infatti negli anni ‘20 e ‘30 alternò fasi di puro terrore e repressione a tentativi di aperture nei confronti della grande borghesia coreana nel tentativo di integrarla, talvolta con successo, nello sfruttamento della nazione. La partecipazione alla lotta della classe operaia e dei contadini poveri, che man mano aumentavano numericamente, conobbe un salto di qualità portando alla nascita di diverse organizzazioni operaie e contadine, che tuttavia risultavano ancora immature e talvolta facile preda di tendenze talora riformiste e/o eccessivamente nazionaliste. Ciononostante, a Irktusk in Russia, nel 1920, venne fondato il primo Partito Comunista Coreano che, dopo alcune traversie, prese compiutamente forma nel 1925 e fu protagonista della lotta contro le autorità giapponesi, sia in patria con manifestazioni di massa e scioperi generali, sia attraverso la lotta armata con attacchi alle retrovie giapponesi in territorio coreano mentre questi erano occupati in Manciuria nella guerra contro la Cina iniziata nel ‘31. Per frenare l’ondata di rivolta i giapponesi misero mano a tutto l’armamentario terroristico di cui disponevano, aumentando esponenzialmente lo sfruttamento sui lavoratori coreani e blandendo la grande borghesia locale, il che non fece altro che scavare un solco fra quest’ultima e gli altri strati della società che invece si univano in misura maggiore nell’ostilità verso gli occupanti. Questi, dal canto loro, avevano fatto della Corea la perla del loro impero coloniale: il saccheggio delle risorse minerarie per alimentare l’industria civile e militare giapponese aveva portato ad un aumento delle estrazioni minerarie di 3 volte, le aziende operanti sul territorio che sfruttavano la manodopera a basso costo si moltiplicarono (arrivando ad essere quasi 15mila alla fine dell’occupazione nel ‘45, portando fra le file della classe operaia industriale circa 750 mila persone). Uno sfruttamento ancora più intenso interessò le campagne. I giapponesi trasformarono la Corea in un granaio, trasferendo sempre più ingenti quote di derrate agricole verso la madrepatria, il che per i contadini e il popolo coreano si tradusse in un vero e proprio disastro. Da un lato la produzione agricola aumentava lentamente per via dei rapporti vessatori dei proprietari giapponesi verso i contadini (che dovevano provvedere da sé per sementi e strumenti e al contempo fornire ampie quote del raccolto ai latifondisti) dall’altro i contadini, gettati sul lastrico, non riuscivano a produrre quote sufficienti per il mercato interno. Questo comportò una crisi alimentare di considerevoli proporzioni che si acuì, poi, durante le fasi più sanguinose della guerra mondiale (cioè dopo il ‘41 e l’inizio della guerra imperialista per il controllo del Pacifico con gli USA). All’indomani della fine dell’occupazione giapponese, pertanto, l’economia coreana si trovò in forte stato di prostrazione.
Il dopoguerra in Corea e la divisione
Sul versante politico intanto si approfondiva un’altra spaccatura in seno alla società, che rifletteva il conflitto di classe interno e anche quello su scala internazionale. Durante gli anni dell’occupazione giapponese e della guerra, nei circoli dell’emigrazione si erano sviluppate forme di governo in esilio. Il più rilevante di questi era una sorta di governo provvisorio, di stanza a Shanghai, che andava a raccogliere diverse frange dei partiti borghesi ed era guidato inizialmente, dal 1919, da Syngman Rhee (Yi Sung-man), un ultraconservatore legato a doppio filo con gli USA, nei quali viveva e si era formato politicamente e, successivamente, durante gli anni della guerra, da altre figure legate al nazionalismo coreano come Kim Ku e Kim Kyu-sik. Questo “Governo Provvisorio”, dotato di organi deliberativi e perfino di un’armata di liberazione nazionale, era fortemente sostenuto dai nazionalisti cinesi del Koumintang e inizialmente anche dagli USA che tuttavia già a Yalta ne disconobbero formalmente l’autorità. Se da un lato fra gli alleati si era addivenuti ad un accordo che per la Corea prevedeva, una volta liberata, un mandato fiduciario (assegnato a URSS e USA) per la transizione verso l’indipendenza, senza però la presenza di eserciti, con l’andare avanti della guerra e la morte di Roosevelt gli Stati Uniti cambiarono posizione. Al principio dell’agosto del ‘45 l’Unione Sovietica, rispettando gli accordi, si apprestava a dare un decisivo contributo alla sconfitta del Giappone annientando intere divisioni nipponiche in Manciuria, liberando non solo quest’ultima ma spingendosi anche a liberare la parte settentrionale della penisola coreana, già a settembre dello stesso anno, insieme alle truppe di partigiani comunisti coreani. Le bombe atomiche sul Giappone erano state sganciate, il primo atto della “Guerra Fredda”, la dimostrazione di potenza da parte degli USA contro l’URSS era cominciata. In questo quadro e in ottica di un futuro confronto, l’imperialismo americano si affrettò a sbarcare nella Corea meridionale, occupandola, sancendo così, con le armi, la divisione della Corea al 38° parallelo.
Screditata e invisa alle masse popolari per il ruolo di connivenza tenuto durante l’occupazione giapponese, la grande borghesia coreana si trovava in estrema difficoltà. Nel nord del paese, le forze che avevano guidato la guerra partigiana e la liberazione nazionale, in primo luogo i comunisti, diedero spinta alla creazione di diversi movimenti di massa riuscendo a collegare differenti strati della società. Si formarono organizzazioni sindacali, studentesche e femminili, federazioni di braccianti e della piccola borghesia urbana, la quale si riuniva in movimenti progressisti come il Nuovo Partito Popolare di Corea, che si unì poi ai comunisti, il Partito democratico e il Partito dei giovani amici della via Celeste, che riuniva le frange più avanzate, benché eterogenee, di un movimento di stampo religioso precedentemente operante in Corea. Ma gli afflati di democrazia e riscatto sociale non erano diffusi solo al nord, anche al sud le masse guardavano con estremo favore al movimento rivoluzionario. Pochi giorni dopo l’arrivo degli americani nel sud, le forze che spingevano per l’indipendenza e la democrazia della Corea, proclamarono la Repubblica Popolare di Corea. È vero che si trattava di un movimento eterogeneo al quale partecipavano, pur con riluttanza, anche forze di destra, tuttavia era un segnale importante del fatto che la volontà di unità, indipendenza e progresso sociale era un sentimento largamente condiviso dalle masse coreane, così al sud come al nord del 38° parallelo. Tutto ciò allarmò gli imperialisti americani che cercarono in tutti i modi di allontanare qualsiasi tipo di manifestazione democratica dei comitati popolari meridionali (si pensava a delle elezioni comuni alle due Coree che avrebbero portato ad un governo di unità nazionale e soprattutto al ritiro delle truppe di occupazione) alimentando l’isteria anticomunista delle frange più conservatrici della destra coreana. Se nel nord, sotto la salda organizzazione del Partito Comunista guidato dal leader della lotta partigiana di liberazione Kim Il-sung, le forze democratiche e i comitati popolari liquidavano tutte le istituzioni coloniali giapponesi nazionalizzando le banche, le grandi industrie, le vie di comunicazione e redistribuendo ai contadini la terra espropriata ai grandi proprietari giapponesi e coreani collaborazionisti, nel sud gli USA mantennero ancora le vecchie istituzioni coloniali, servendosi addirittura in taluni casi delle ormai sconfitte truppe giapponesi che ancora si trovavano sul territorio. Tutto ciò portò ad una stagione di imponenti scioperi e proteste nel sud, la frustrazione fra il popolo era talmente alta da sfociare apertamente nella resistenza armata contro l’occupante e i suoi burattini.
L’uomo che Washington pose a garante dei propri interessi nella Corea occupata fu il vecchio conservatore Syngman Rhee che, col supporto degli statunitensi, ingaggiò una vera e propria caccia al comunista (e contro chiunque venisse sospettato di simpatie socialiste) che provocò stragi enormi e la reazione violenta della popolazione, anche fra coloro che appartenevano alla piccola borghesia urbana e gli intellettuali. Nell’isola di Cheju si creò un vero e proprio movimento armato di resistenza mentre sul continente Rhee scatenava un terrore che nel giro di un paio d’anni provocò decine di migliaia di morti, centinaia di migliaia di deportazioni e distruzioni materiali. Nella sola isola di Cheju la repressione del movimento guerrigliero provocò oltre 60.000 morti. Nel 1948, constatato il fallimento di ogni tentativo di costituire commissioni miste fra nord e sud (supervisionati da URSS e USA) per arrivare a delle elezioni plenarie, gli USA tentarono di imporsi in maniera unilaterale. Al rifiuto del nord di piegarsi ai diktat degli USA questi, come similmente avevano fatto in Germania occidentale, indissero sbrigativamente delle elezioni nella Corea meridionale, sottoposta ad un pesante terrorismo, che videro Rhee trionfare in una campagna elettorale costellata di brogli e omicidi – l’affluenza secondo i vincitori fu assoluta, fonti nordcoreane invece attestano che non fu superiore al 30%. Ad ogni modo, consultazioni o meno, la decisione era stata già presa a Washington: il 15 agosto con presidente Syngman Rhee venne proclamata la Repubblica di Corea (ROK) subito riconosciuta dagli USA e mesi dopo anche dalle Nazioni Unite. In risposta a ciò, frustrate le possibilità di un’unificazione democratica e indipendente, a Pyongyang venne convocata una conferenza di tutti i partiti, sia del nord che del sud, per la creazione di uno Stato che fosse realmente libero e indipendente. Vennero indette delle elezioni sia al nord che nel sud del paese (nonostante le difficoltà) e da esse si formò la Repubblica Democratica Popolare di Corea (DPRK) che vide nella propria Assemblea Generale Suprema (il Parlamento) la presenza di 360 deputati del sud che si unirono ai loro colleghi del nord. Alla guida del nuovo Stato il ruolo di Primo Ministro venne ricoperto da Kim Il-sung. Una volta che i coreani ebbero deciso del loro destino, le truppe sovietiche, come da accordi, si ritirarono completamente dal territorio riconoscendo il nuovo governo. Era il settembre del 1948.
Verso la guerra: le responsabilità del conflitto
All’alba del 25 giugno del 1950 le truppe comuniste della corea del Nord, su spinta dell’URSS, hanno lanciato un attacco premeditato contro il Sud contando su una soverchiante superiorità di uomini e mezzi. Questa è, in sintesi, la dichiarazione che le autorità sudcoreane espressero in sede diplomatica alle Nazioni Unite e a tutta la stampa estera, supportate dal rapporto dell’ambasciatore americano a Seoul, John Muccio. Dichiarazione, questa – che gli stessi americani, pur supportando pienamente, descrissero come “da appurare”, del resto l’opinione tendenziale sulla credibilità delle autorità sudcoreane era per gli USA “questionabile” – che è rimasta la base della storiografia ufficiale fino ad oggi, pur avendo diverse incongruenze fattuali e pressoché nessuna consinstenza politica. Prima degli atti unilaterali da parte degli Stati Uniti e del regime di Rhee, il problema dell’unificazione era formalmente all’ordine del giorno, sia dei rappresentanti delle due entità coreane, sia dagli stessi Stati Uniti e Unione Sovietica che all’uopo crearono delle commissioni miste per cercare di trovare una strada che portasse ad una risoluzione formale della questione. Come detto, le azioni americane provocarono la rottura di ogni trattativa andando a minare la debole azione della commissione congiunta che invero si era dimostrata del tutto inefficace. Il sentimento nazionale durante il trentennio abbondante di occupazione giapponese si era rafforzato molto fra il popolo coreano. L’unificazione era una delle questioni capitali e tuttavia i mezzi per raggiungerla non erano per tutti uguali: c’era chi preferiva la via pacifica e democratica, ma al contempo era conscio del pericolo che una nuova occupazione straniera (quella americana) rappresentava e quindi era anche pronto a combattere, e chi invece, come la dirigenza reazionaria della Corea meridionale, cercava ogni pretesto per imporre un’unificazione violenta, unilaterale e servendosi proprio dell’occupante straniero. Syngman Rhee si trovava in una situazione politica precaria: da un lato doveva lottare contro la guerriglia popolare che si opponeva al suo regime, dall’altro sentiva l’esigenza di sbarazzarsi di coloro, fra i rappresentanti della borghesia coreana moderata, che avrebbero potuto detronizzarlo qualora egli avesse perso la tenuta del paese.
Rhee era un reazionario anticomunista, aveva l’appoggio di Washington ma questo appoggio non era del tutto condiviso fra gli apparati americani, e quando egli andò perorando la causa dell’intervento armato contro il nord per unificare la Corea riscosse viva simpatia per lo più fra le frange più guerrafondaie e anticomuniste dell’amministrazione Truman, come John F. Dulles, inviato speciale del presidente USA in Corea. Secondo l’opinione di diversi storici, come l’accademico esperto di storia coreana Maurizio Riotto, senza un intervento eccezionale il dittatore sudcoreano non avrebbe potuto conservare il potere, e del resto la politica dei falchi americani si confaceva sempre più con quella del Segretario di Stato Acheson, anch’egli intenzionato ad intervenire nella crociata anticomunista qualora le condizioni lo avessero consentito. Alle ragioni politiche di tenuta del regime e il supporto politico di importanti membri dell’amministrazione americana si deve aggiungere un altro elemento non secondario che rende storicamente e politicamente debole le asserzioni americane e sudcoreane su chi realmente ricada la responsabilità del conflitto: delle 13 divisioni disponibili sulla carta da parte della DPRK soltanto 5 erano immediatamente operative allo scoppio delle ostilità, Pyongyang avrebbe necessitato di tempo per ricompattare i ranghi e prepararsi al meglio alla guerra e questo fatto era certamente noto all’intelligence sudcoreana e americana. La tesi che vorrebbe attribuire l’inizio delle ostilità alla Corea del Nord risulta, dunque, quantomeno inconsistente da un punto di vista politico e storiografico, anche in considerazione del fatto che mentre al Nord si procedeva in modo relativamente pacifico verso le riforme di stampo socialista, grazie ad una buona stabilità organizzativa e sociale garantita dalla guida del Partito Comunista (rinominato Partito del Lavoro di Corea nel 1949), il Sud era attraversato da forti turbolenze interne che muovevano verso la disgregazione del regime autoritario di Rhee.
Gli incidenti di confine, lo scambio di colpi di artiglieria e financo gli sconfinamenti si manifestavano con ricorrenza a cavallo del 38° parallelo, tuttavia non trascendevano mai oltre una certa soglia calcolata di pericolo. La notte del 24 giugno, però, stando a quanto denunciano i nordcoreani, le forze armate del sud operarono un lunghissimo bombardamento degli avamposti del nord e, secondo quanto affermato dalle autorità nordcoreane, l’esercito sudcoreano avanzò secondo tre direttrici entro il territorio della DPRK, provocando così la risposta dell’Armata del popolo coreano (l’esercito della Corea del Nord), e di conseguenza l’intervento armato dell’imperialismo statunitense che avrebbe pilotato le azioni del suo fantoccio sudcoreano. Ad ogni modo, sia che la provocazione sia stata attuata dal regime sudcoreano per i motivi politici sopra esposti all’insaputa dell’amministrazione americana per metterla poi davanti al fatto compiuto, sia che l’attacco sudcoreano volto a provocare la reazione del nord sia stato spinto direttamente da Washington è possibile ritenere con sufficiente certezza che quella Nordcoreana non sia stata un’offensiva bensì una contro-offensiva. Del medesimo avviso è l’ex-ambasciatore sudcoreano all’ONU Channing Liem, un intellettuale formatosi negli USA, diplomatico per il Sud negli anni ‘60 e successivamente diventato attivista per una riunificazione pacifica e democratica della Corea, che in un suo phamplet nel quale riflette sulle cause della guerra affermava:
In base alle ricerche che ho potuto personalmente condurre e sulla mia conoscenza personale di Rhee, delle sue attività e del suo entourage, credo che le affermazioni della DPRK che la ROK abbia scatenato una guerra come un “fantoccio” degli USA sia semplificatoria. Anzi, più precisamente ritengo che fu proprio Rhee con la regia di John Foster Dulles che scatenò la guerra.
Il 25 giugno del 1950, dunque, iniziava la contro-offensiva della DPRK nel territorio meridionale. Pur superiori di numero e di mezzi i sudcoreani sperimentarono una serie di sconfitte impressionanti e il 28 giugno le armate popolari liberavano Seoul. Una cifra importante, anche per comprendere l’iniziale efficacia dell’avanzata delle truppe del nord, è data dall’altissimo numero di persone, ex-guerriglieri e simpatizzanti per la causa dell’indipendenza, che si unirono in massa alle forze della DPRK. Inoltre, quando queste entrarono a Seoul soltanto il 7% della popolazione si rifugiò entro le linee sudcoreane, mentre la restante parte accoglieva i nordcoreani come liberatori. La frustrazione di americani e sudcoreani allora si riversò violentemente sulla popolazione civile, tantissimi furono i massacri a cui gli imperialisti e il regime del sud si abbandonarono. Interi villaggi vennero rasi al suolo, anche per evitare che divenissero basi per l’esercito del Nord e per la guerriglia interna che aveva ripreso vigore. La vittoria per la DPRK sembrava certa, le truppe della coalizione imperialista nel settembre del ‘50 erano confinate ormai in una piccola porzione del territorio di Pusan, nell’estremo meridione. A quel punto gli americani decisero di impegnarsi a tutto campo nella guerra, e facendo valere la propria schiacciante superiorità aerea rasero al suolo diverse città del nord e iniziarono a respingere l’esercito dei liberatori. In breve riuscirono a sfondare le linee della DPRK e occuparono Pyongyang: le sorti della guerra sembravano totalmente rovesciate. A questo punto in soccorso della DPRK si intensificarono gli interventi da parte della Cina. Ora è bene precisare che le parti in lotta non si trovavano a combattere isolate: se l’imperialismo americano poté mettere in campo una scenografica coalizione di diciassette paesi (fra cui anche il Giappone, che in segreto fornì diverse truppe navali; l’Italia si limitò ad inviare personale medico militare), i nordcoreani poterono contare su aiuti e istruttori militari messi a disposizione dagli stati socialisti fratelli, in primo luogo URSS ma soprattutto la Repubblica Popolare Cinese. La Cina, infatti, ripagò con profonda amicizia l’importante aiuto internazionalista che ai tempi della guerra in Manciuria contro i giapponesi i partigiani comunisti coreani avevano fornito all’Esercito Popolare di Liberazione. Mao inviò oltre 200.000 uomini in supporto ai coreani, un aiuto fondamentale che servì a rovesciare nuovamente le sorti della guerra. L’isteria dei comandi americani, con MacArthur (il celebre vincitore della guerra col Giappone) in testa, stava per risolversi per l’uso dell’arma atomica anche contro la Cina, ma la prudenza prevalse, anche perché la guerra aveva raggiunto una fase di stallo e la prospettiva di allargare il conflitto trascinando direttamente in campo l’Unione Sovietica avrebbe significato una nuova guerra mondiale, inoltre gli imperialisti americani dovevano preoccuparsi del proprio fronte interno.
Migliaia di giovani mandati in una terra lontana a combattere una guerra che a molti sembrava non dovesse riguardarli erano guardati con sentimento di forte insofferenza dall’opinione pubblica americana, soprattutto a pochi anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale. Per di più lo scoramento fra le truppe statunitensi cominciava a serpeggiare in misura crescente. Alcune strofe di una ballata scritta da militari americani al fronte in Corea ci restituiscono la cifra di alcuni degli stati d’animo dei soldati al fronte:
Proprio in mezzo al nulla,
E a migliaia di chilometri da te.
Sudiamo, congeliamo e tremiamo.
È più di quanto un uomo possa sopportare.
Non siamo un gruppo di detenuti
stiamo solo facendo la nostra parte.
Siamo soldati nell’esercito,
guadagnandoci la nostra misera paga,
per far da guardia a tutti i milionari
per quattro schifosi scellini al giorno.
Considerato tutto ciò, la necessità di trattative per un armistizio iniziò a imporsi ad entrambe le parti. Il risultato fu una tregua firmata il 27 luglio del 1953 a Panmunjon, località poco a più a sud di Kaesong, fra americani e nordcoreani. Alle trattative mancava il regime di Rhee, il quale il giorno dopo la controffensiva del 25 giugno del ‘50 era fuggito dal paese portandosi dietro le riserve auree: ritornò soltanto alla fine della Guerra. L’armistizio venne raggiunto, ed è ancora tale, infatti non è stata siglata nessuna pace formale fra americani e DPRK, e alla conferenza di Ginevra 1954 si parlò del riassetto post-bellico della Corea. I nordcoreani proposero lo sgombero di tutte le truppe straniere dalla penisola e nuove elezioni democratiche in tutta la Corea per la creazione di un governo nazionale. Ma naturalmente né gli americani né il regime del reinstallato Rhee avevano intenzione di terminare l’occupazione. Del resto, non certo per nulla avevano massacrato 3 milioni di coreani, devastato intere città e villaggi, sganciato più bombe che contro il Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, testato armi batteriologiche, e utilizzato massicciamente armi come le bombe al napalm.
Conclusioni
Per gli imperialisti americani la guerra di Corea doveva rappresentare un monito per il mondo intero, un primo vero esempio della strategia imperialista che i consessi statunitensi chiamano “rollback”, ovvero l’intervento armato per rovesciare un governo – strategia che si rivelò fallimentare in Corea ma che tuttavia fu riproposta di lì a breve in Vietnam e che si distingueva parzialmente dalla strategia più attendista del “contenimento” (cioè l’isolamento, l’embargo, e gli atti di terrorismo individuale, come per esempio accadeva nell’Europa dell’Est o a Cuba dopo il fallito sbarco alla Baia dei porci). Per giustificare il loro interventismo globale gli USA necessitavano di una scusa per inserirsi nella contesa e per potersi presentare agli occhi del mondo, distorcendo pesantemente la realtà dei fatti, come i difensori contro l’aggressione comunista.
Le responsabilità della guerra sembrano oggi quasi essere materia di disputa da accademia, irrilevante, per alcuni, ai fini dell’analisi di un conflitto così sanguinoso. In realtà l’importanza di ristabilire la verità dei fatti è fondamentale per contrastare le letture unilaterali che sono assurte a storia ufficiale, specialmente dal crollo dell’URSS in avanti, quando la distorsione storica della propaganda americana poté imporsi senza contraddittorio. È una questione importante anche in relazione alla situazione contemporanea della penisola coreana. Infatti le responsabilità del conflitto, conclusosi con un armistizio che sostanzialmente ratificava lo status quo ante bellico, pesano come un macigno ed ostacolano fortemente ogni relazione fra le due Coree pregiudicando il processo di pace, frustrando gli afflati di unificazione del popolo coreano e soprattutto giustificano la massiccia occupazione militare americana che ha in Corea del Sud la sua roccaforte principale nel continente asiatico. Una minaccia costante che non si rivolge soltanto al popolo coreano ma ad un’intera area sempre più centrale nelle strategie globali dell’imperialismo statunitense.
Fabrizio Fornaro
Bibliografia
Storia della Corea contemporanea in Storia Universale dell’Accademia delle scienze dell’URSS, Teti Editore
Maurizio Riotto, Storia della Corea, Bompiani, Milano, 2018
The Korean War: an unanswered question di Channing Liem (ex-ambasciatore della ROK presso l’ONU), Pyongyang, 1993