I governi borghesi instauratisi sulle rovine che la perestrojka e il crollo del ex-campo socialista hanno prodotto, sembrano non avere alcuna intenzione di attenuare il violento anticomunismo che, a distanza di 30 anni dalla caduta dell’URSS, continua ad essere per loro un’arma ideologica imprescindibile. La demonizzazione del socialismo, della sua storia e dei traguardi raggiunti è funzionale alla borghesia per condurre la lotta di classe a proprio vantaggio con l’imposizione di misure economiche e giuridiche antioperaie nel tentativo di frustrare ogni paragone col passato sovietico che le masse popolari conservano positivamente nella propria memoria. Questa aggressiva operazione di riscrittura della storia (ad esempio qui e qui) in chiave anticomunista da parte della borghesia non si limita “semplicemente” ad infangare e distorcere quelli che furono i tentativi storici da parte della classe operaia di realizzare il socialismo prendendo in mano i propri destini, ma ha necessariamente come corollario la rivalutazione e financo l’esaltazione ideologica di tutti quei movimenti borghesi e sciovinisti che al bolscevismo e al socialismo si opposero strenuamente. Similmente a quanto accade nei paesi baltici dove i collaborazionisti nazisti vengono celebrati come eroi o in Ucraina dove oltre alla sistematica sostituzione – dall’onomastica stradale ai libri di testo – di personaggi ed eroi sovietici con fascisti e collaborazionisti, vi è stata anche una chiara integrazione di forze neonaziste nel governo e nelle forze armate impegnate nella repressione nel Donbass, anche in Kazakistan i governi non sfuggono a questa prassi. Nel grande paese turcofono dell’Asia Centrale negli ultimi anni la borghesia al potere tenta di riscrevere la storia attraverso la rimozione e la demonizzazione del passato sovietico come dimostrato dall’abbattimento delle statute dei rivoluzionari e patrioti kazaki degli anni ‘20 e ‘30 e la rivalutazione di personaggi legati al nazionalismo panturanico e collaborazionisti della Germania nazista durante l’aggressione all’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale (come denunciato dal Movimento Socialista del Kazakistan qui e qui). Proprio negli ultimi mesi il Parlamento kazako (Majilis) ha definito le ultime questioni giuridico-formali per la riabilitazione completa, con tanto di pene per chi ne “oltraggia” la memoria, della Legione SS Türkestan, formazione collaborazionista inquadrata nella Wehrmacht composta principalmente da elementi turchi d’Asia e musulmani, reclutati fra i prigionieri di guerra sovietici.
Per la storia del nostro paese le vicende legate alla Legione SS Türkestan hanno una rilevanza particolare. I battaglioni della legione, infatti, inseriti nella 162esima divisione dell’esercito nazista, operarono soprattutto nell’Italia centro-settentrionale dove si distinsero per feroce brutalità compiendo crimini indiscriminati contro i civili, quando, al seguito dei repubblichini e delle truppe tedesche, vennero impiegati massicciamente nella lotta anti partigiana, similmente a quanto avevano già sperimentato in Francia. Prima di addentrarci sulle azioni della Legione SS Türkestan in Italia, è bene parlare brevemente della formazione di questa forza collaborazionista.
Le origini della Legione SS Türkestan
Al momento dell’invasione nazista dell’URSS tutti gli elementi reazionari e borghesi che covavano odio e risentimento verso il governo sovietico colsero l’occasione per mettersi al servizio dell’occupante per soggiogare lo Stato socialista con la speranza, coltivata da alcuni di loro, che la sottomissione alle armate hitleriane gli avrebbe potuto concedere dei margini per l’installazione di governi fantoccio finalmente “liberati” dall’amministrazione sovietica. Intere divisioni di baltici, ucraini, russi (in proporzione molto minore rispetto al grosso dei combattenti che non tradirono l’URSS) decisero di disertare dall’Armata Rossa e unirsi all’esercito invasore costituendo battaglioni che in totale riuscivano a contare diverse centinaia di migliaia di uomini. Fra i prigionieri sovietici che i tedeschi catturarono nelle prime battute della loro avanzata vi finì anche una cospicua fetta di soldati appartenenti alle decine di etnie che componevano i popoli dell’URSS, fra i quali anche diversi caucasici e turkenstani (con questo termine si vuole intendere il complesso di popoli di origini turca che abitavano in URSS: kazaki, uzbeki, turkmeni, kirghizi etc.) provenienti dai paesi sovietici dell’Asia Centrale. Diversi di questi prigionieri, spesso di estrazione contadina e piccolo-borghese, decisero di arruolarsi come volontari nelle truppe di collaborazionisti che inquadrati in battaglioni “etnici” vennero accorpati alle divisioni della Wehrmacht. Nel febbraio del ’42, pertanto, lo Stato Maggiore delle Legioni Orientali (Ostlegionen) costituì sei legioni, composte di interi battaglioni, fra le quali spiccava la Turkenstanische Legion che, oltre ai turkenstani, includeva volontari di diverse altre etnie e i cui ufficiali erano però quasi esclusivamente tedeschi. Durante tutto il corso della guerra quasi 70,000 mila turkenstani servirono le armate naziste, benché inizialmente vi fosse un solo battaglione verso la fine essi salirono a circa una trentina.
Figura di spicco dei comandi tedeschi, poi generale della 162esima divisione che operò in Italia, fu Oskar von Niedermayer. Egli era un accademico esperto e cultore di storia e lingue turche, ed era stato più volte in missione speciale per conto del Kaiser, durante la prima guerra mondiale, nel tentativo di sobillare i diversi popoli dell’Asia centrale unendoli ideologicamente sotto il panislamismo contro gli avamposti britannici nella zona e metterne a repentaglio i possedimenti coloniali in India. Tuttavia questa tattica non riscosse i successi sperati pertanto, decenni dopo, i comandi tedeschi in vista dell’avanzata nel territorio dell’URSS decisero di puntare sul nazionalismo turkenstano per compattare ideologicamente questo fronte e cercare di unire il maggior numero di volontari alla crociata antibolscevica. Per tale ragione si servirono di diversi intellettuali e personaggi politici locali di lungo corso come per esempio lo storico e filologo nazionalista Baymirza Hayit, e soprattutto cercarono di integrare, riuscendovi, la figura più importante del nazionalismo panturanista dei popoli turchi dell’Asia centrale: il kazako Mustafa Shokay. Quest’ultimo a suo tempo era stato leader del movimento nazionale turkenstano, collaboratore di Kerenskij e del governo provvisorio borghese, e a capo di una delle tante realtà statali nazionali provvisorie che nacquero dopo la rivoluzione russa (“L’Autonomia di Kokand”) che al disegno di un’integrazione democratica rispettosa del principio delle nazionalità portata avanti dai bolscevichi dopo l’Ottobre, opponeva un nazionalismo borghese fortemente anticomunista.
I turkestani e la campagna d’Italia
Dopo aver partecipato alla lotta anti-partigiana in supporto all’occupante tedesco in Francia, così come anche in Slovenia, la legione turkestana venne dislocata, all’indomani dell’8 settembre del ’43, sul territorio italiano. Dapprima a Genova e in Liguria, fino all’estate del ’44, e successivamente sulla cosiddetta “Linea Gotica” che tagliava in due l’Italia all’altezza dell’appenino tosco-emiliano e aveva come due estremi costieri Massa Carrara a ovest e Pesaro a Est. Dei quasi 250 mila uomini dispiegati dai tedeschi lungo quel settore, la divisione del Turkestan, inquadrata nella 162esima divisione di fanteria, era la più cospicua in termini numerici, circa 14-16mila unità. I comandi tedeschi decisero di dislocare inizialmente la divisione turkestana nei pressi di Rimini per cercare di rinforzare le difese costiere su quel versante e rintuzzare gli attacchi alleati che cercavano di sfondare grazie all’avanzata delle truppe britanniche. Al termine di durissimi scontri, gli alleati sfondavano le linea di difese nazifasciste e già dal settembre del ’44 iniziava per i turkestani la ritirata alla volta della Liguria, nel frattempo, però, i comandi tedeschi avevano affidato loro su tutto il percorso dell’appennino e della pianura emiliana il compito di reprimere la resistenza partigiana al fine anche di impedire lo sfondamento della linea Firenze-Bologna-Ferrara che avrebbe tagliato in due le linee tedesche nell’Italia nord-orientale. Fu proprio nelle valli fra il modenese, il piacentino e il basso pavese che si concentrarono le azioni di rastrellamento e repressione della divisione Turkenstan e fu proprio lì che vennero in diretto contatto con le truppe partigiane che, condividendo le memorie della popolazione civile a cui erano strettamente legati, ne conservarono il ricordo foschissimo di una vera e propria orda. Le operazioni partigiane nella zona erano caratterizzate da azioni di guerriglia, basata sul mordi e fuggi, attaccando in momenti ben precisi di disarticolazione delle truppe nemiche per infliggere il maggior danno possibile, e fino ad allora questa tattica riscosse un certo successo, specialmente contro le brigate nere, la X Mas e altri reparti repubblichini e tedeschi, ma contro la divisione turkestana le cose andarono diversamente. Essi erano una massa soverchiante di numero e dotati di un efficace fuoco di artiglieria, così li ricorda lo storico da poco scomparso Angelo Del Boca che operava con le brigate partigiane di Giustizia e Libertà nelle campagne del pavese, a ovest di Piacenza:
«Facemmo un giro tra le nostre postazioni. Eravamo preoccupati, avevamo già respinto altri attacchi ma su scala più piccola, magari cento uomini della Decima Mas o cinquanta di una Brigata nera, cose che non ci preoccupavano più di tanto. Qui invece avevamo davanti 10-15 mila uomini con i cannoni, una cosa completamente diversa. Venimmo così a sapere che la divisione era composta per tre quarti da “mongoli”, questo fu il nome che da subito venne dato loro».
E con “mongoli” vennero identificati anche da altre formazioni e dalla popolazione civile che ebbe modo di sperimentare la loro crudeltà, pur essendo la loro divisione formata non soltanto da turkenstani ma anche da altri prigionieri sovietici del caucauso, giorgiani, azeri e perfino elementi russi e ucraini. Ad ogni modo, i tratti esotici dei turchi d’Asia furono quelli che più impressionarono. La 31esima Brigata Garibaldi “Forni” e la 32esima “Copelli”, operanti entrambe nella Valle del Ceno, nel parmense, resistettero con tenacia agli assalti nazisti ma alla fine dovettero cedere all’enorme superiorità numerica di questi “fantasmi” che sbucavano dalla nebbia e si lanciavano all’arma bianca sprezzanti sotto i colpi delle mitragliatrici.
Alla momentanea ritirata dei partigiani subentrarono, dunque, gli occupanti della divisione Turkenstan che si abbatterono con estrema ferocia sulla popolazione civile. Imperversarono nei paesi del parmense, nel reggiano, nel piacentino e nel pavese come Bettola, Bobbio, Peli, Cornaro, Pescina, Fossoli, Costiere, Averaldi, sulle colline di Val Tidone, Val Trebbia e Val Nure, etc., rendendosi protagonisti di atti di una brutalità estrema. Oltre ai rastrellamenti, alle fucilazioni di uomini, alle distruzioni e saccheggi di intere comunità si abbandonarono ad una pratica che li rese tristemente noti fra la popolazione: gli stupri di massa contro donne di ogni età. Come ricorda il partigiano della 2° Brigata Garibaldi “Paolo”, Luigi Campanini, che nelle sue memorie testimoniò di come, dopo l’ultima sconfitta subita per mano dei turkestani, le donne di tre paesi vennero fatte sfilare per poter essere scelte e date alla mercé degli occupanti. Diverse migliaia di donne, molte delle quali tuttavia non denunciarono per la vergogna della violenza subita, divennero preda di queste spedizioni infami avallate dai comandi tedeschi e partecipate dai fascisti locali e dalle loro formazioni le quali non si limitavano soltanto a fare da guida nei luoghi dei rastrellamenti e delle repressioni ma si resero protagonisti degli stupri e degli abusi più atroci.
Le enormi sofferenze patite dei civili, però, stavano per giungere al termine, infatti già dai primi di febbraio del ’45 iniziava la controffensiva partigiana nelle colline e nelle valli che costrinse le truppe nazifasciste alla progressiva ritirata. Dapprima ricollocata nuovamente in Liguria nei pressi di La Spezia, quello che rimaneva della 162esima divisione Turkestan venne successivamente riassegnato ad altre unità in rotta verso le Alpi. Era la fine d’aprile del ’45. I turchi dell’Asia centrale, prigionieri e disertori dell’Armata Rossa, collaborazionisti dell’esercito hitleriano conclusero così la loro vicenda in Italia. Riconsegnati, secondo gli accordi di Jalta, all’URSS pagarono il prezzo dei loro crimini con pene fino ai vent’anni, condividendo le sorti di altri loro corrispettivi, come i fascisti baltici, ucraini, russi etc. Oggi però, costoro, grazie al pervicace anticomunismo delle borghesie dei loro paesi vengono riabilitati, onorati e anzichè ricevere una giusta condanna storica da criminali vengono trasformati in martiri ed eroi.
di Fabrizio Fornaro