La partecipazione dei comunisti ai governi borghesi e il caso ceco
L’ultimo turno elettorale nella Repubblica Ceca, svoltosi all’inizio di ottobre, ha riservato un’amara sorpresa per il Partito Comunista di Boemia e Moravia, che, con il 3,60% dei suffragi ottenuti, non è riuscito a superare la soglia necessaria, di quasi un punto e mezzo superiore, ad inviare una delegazione nella camera bassa (la rappresentanza nell’altro ramo del parlamento era stata già persa cinque anni fa). Il voto è stato rovinoso per l’altro partito minore della coalizione governativa uscente, quello socialdemocratico, che non riesce ad accedere ad alcun seggio, ma per i comunisti, una forza che non è mai stata assente dal contesto parlamentare da un secolo a questa parte, se non durante l’occupazione tedesca, lo smacco è, per quanto prevedibile, assolutamente senza appello. Anche dopo la fine dell’esperienza socialista, infatti, quando il partito riceveva i suffragi di ben oltre un decimo dell’elettorato, i risultati elettorali hanno continuato per molto a riservare delle soddisfazioni e comunque fino alla metà del decennio scorso, quando ha iniziato ad accumularsi una serie di sconfitte (dalla perdita della rappresentanza in quasi tutti i distretti amministrativi alla riduzione ad un solo eletto del contingente uscito dall’ultimo voto europeo del 2019). Questo tracollo, che registra più che il dimezzamento dei comunisti rispetto alla tornata precedente, dal punto di vista della distribuzione sul territorio, evidenzia che i voti mancanti provengono soprattutto dai quartieri operai e latamente cittadini (a Praga la flessione assume proporzioni molto significative), mentre una maggiore tenuta si registra nei piccoli e medi centri abitati. Il voto ha premiato quattro compagini, Pirati e Sindaci (ecologisti e centristi), Insieme (centristi), Azione dei Cittadini Insoddisfatti (i liberali alla guida del precedente esecutivo) e Libertà e Democrazia Diretta (nazionalisti), e ha portato ad un accordo per la formazione del prossimo governo tra il primo e il secondo gruppo.
Un abbraccio mortale
L’impegno dei comunisti cechi dopo la restaurazione del capitalismo si è distinto dall’inizio per una sempre più netta presa di distanza rispetto all’esperienza socialista. L’avvicinamento alle posizioni eurocomuniste si è viepiù approfondito fino a veder loro riconosciuto il ruolo di osservatori del Partito della Sinistra Europea, con cui la collaborazione e la condivisione sono tuttora intense. Una vera e propria svolta è maturata nella legislatura testé conclusa, durante la quale, a partire da tre anni fa, il partito ha deciso di assicurare il proprio appoggio esterno all’esecutivo formato dai liberali e dai socialdemocratici, che non disponeva della maggioranza parlamentare necessaria. Tale indirizzo fu all’epoca giustificato con l’intento di portare le istanze della classe operaia nella stanza dei bottoni onde aumentarne garanzie e tutele. Puntualmente, però, l’approvazione di bilanci non soltanto ossequiosi dei vincoli finanziari europei ma finanche più draconiani degli stessi, dal punto di vista del rigore, ha costretto la delegazione comunista a turarsi il naso e, talvolta, finanche a prendere le parti, come attestano alcune dichiarazioni ufficiali, delle politiche vessatorie contro i ceti popolari. Non maggiore successo ha sortito il tentativo di sottrarre i cechi al giogo dell’imperialismo nordatlantico, visto l’aumento non soltanto degli organici impiegati in vari contesti internazionali ma anche delle spese militari. Anche la vicenda che ha condotto alla fine dell’appoggio al governo, lo scorso aprile, ossia l’istituzione di una banca pubblica, ha lasciato insoddisfatto il partito non tanto per la sua finalità creditizia nei confronti dell’imprenditoria quanto per l’incertezza sui tempi di attuazione. In tal modo, senza portare a casa alcun risultato apprezzabile, i comunisti sono rimasti impigliati nelle gesta malavitose del capo dell’esecutivo, il quinto uomo più ricco del paese nonché proprietario del colosso Agrofert (fruizione di sussidi comunitari irregolari per circa due milioni di euro e acquisto mediante una società di copertura delle Isole Vergini di una villa in Costa Azzurra del valore di ventidue milioni di dollari).
Il monito della gioventù tradita
A poco più di due settimane dal voto, è intervenuta con un documento sulla vicenda l’Unione della Gioventù Comunista, un’organizzazione un tempo collegata al partito e poi, dopo la sua temporanea messa al bando da parte delle autorità, rivendicante la propria autonomia da esso. La quadruplice critica che è stata mossa alle scelte tattiche e strategiche operate esce da una lettura semplicemente contingente dei fatti per inquadrare il disastro elettorale in una linea sostanzialmente revisionista e opportunista di lungo corso. In primo luogo, l’indice è stato puntato sullo scollamento dalla base e la trasformazione del partito in un apparato istituzionale semovente, autoreferenziale e sempre più impermeabile alle istanze e ai bisogni delle masse. Ciò sarebbe stato reso possibile da un approccio all’attività politica non più fondato su un’analisi onesta e schietta delle condizioni produttive della società ma sul perseguimento del successo a tutti i costi, inseguendo il consenso mediante lo sbandieramento di concetti e soluzioni afferenti alla piattaforma ideologica borghese piuttosto che portando avanti un’agenda coerente con una rigorosa disamina del livello della lotta di classe. Avventurismo e avventatezza sarebbero così i veri fondamenti di un procedere senza spessore strategico, legato a suggestioni e ad intuizioni, al perenne inseguimento del colpaccio e svincolato da qualsivoglia capacità e finanche volontà di interpretare il presente in una prospettiva ermeneutica più ampia. Infine, questo bagaglio si sarebbe tradotto inevitabilmente nell’abbandono dell’impostazione marxista-leninista a favore di una lettura della realtà del tutto subalterna e funzionale alle logiche di dominio del capitale.
L’inferno delle buone intenzioni
Negli anni recenti si è assistito spesso alla collaborazione più o meno strutturale di partiti comunisti con altre forze al governo, non soltanto in Europa. Una costante di queste esperienze è il carattere effimero e risibile dei risultati conseguiti a fronte di esperienze che hanno portato al forte ridimensionamento delle delegazioni parlamentari di questi movimenti, con esiti a volte addirittura apocalittici. Ci sono da registrare, ad esempio, il caso, concluso in questi giorni dopo sei anni, dell’appoggio esterno del Partito Comunista Portoghese al governo socialista e quello, tuttora in corso, della partecipazione del Partito Comunista Spagnolo al gabinetto dello stato iberico ma anche, per citarne due in Asia, la collaborazione elettorale con le compagini politiche al potere nello Sri Lanka e nel Bangladesh. Dei sentieri intrapresi per uscire dall’isolamento ed attestare il proprio impegno per un cambio radicale dei rapporti di forza si rivelano in tal modo veri e propri buchi neri che estenuano e fagocitano le energie profuse. In Italia la storia recente non ha mancato di offrire esempi di tal fatta, a dimostrazione delle nocive conseguenze della partecipazione delle formazioni comuniste ai governi borghesi, dinamica che ha puntualmente colluso con le politiche antipopolari dei vari gabinetti il patrimonio di lotte che avrebbe dovuto combatterli. Esemplari in tal senso risultano le vicende del Partito della Rifondazione Comunista e del Partito dei Comunisti Italiani, accomunati da una parabola discendente vertiginosa e senza appello. L’esperienza ceca è l’ennesima conferma del fallimento della partecipazione dei comunisti ai governi borghesi che, oltre a non comportare alcun avanzamento reale della lotta di classe dei lavoratori, contribuisce a snaturare e integrare le forze rivoluzionarie nella gestione capitalistica, alimentandone lo scollamento dalla propria classe. Se questo appare come una realtà evidente, sarebbe però riduttivo ricondurre la crisi del movimento comunista internazionale esclusivamente alla questione della partecipazione ai governi borghesi o delle tattiche elettorali legate al coinvolgimento o meno nelle coalizioni più variegate. Ciò che si deve porre all’ordine del giorno di un dibattito franco e aperto è complessivamente la strategia rivoluzionaria corrispondente all’ultimo stadio dello sviluppo capitalistico e al carattere distintivo dell’assetto produttivo della nostra epoca. Questa è la questione cruciale per iniziare ad affrontare e superare la crisi del movimento comunista.
Sostanza e accidenti
Il sempre più frequente ricorrere tra le righe di una cronaca anonima e tuttavia dolorosa di vicende come quelle sopra richiamate non deve indurre quindi ad un fatalismo senza uscita ma, al contrario, spronare i comunisti ad una considerazione semplice come la verità. O il partito è l’avanguardia del proletariato o non è. Ciò significa che il suo compito non è soltanto quello di farsi carico della prospettiva rivoluzionaria (l’unica agibile, nell’ottica della lotta di classe) ma anche di adottare le scelte suscettibili di condurre all’emancipazione delle attuali forze produttive dal livello presente dei rapporti di produzione. Il proletariato costituisce l’alfa e l’omega di un partito comunista, ne racchiude l’eziologia e la teleologia in modo esclusivo, inderogabile e completo. Il documento dei giovani comunisti cechi argomenta tutto ciò in relazione al dato elettorale del loro paese ma la validità di questo monito travalica il qui e l’ora di ogni contesto produttivo: quando Lenin reiterava l’invito ai compagni a studiare, intendeva proprio sottolineare il carattere scientifico e non improvvisato dell’azione, il suo rispondere ad un solido inveramento del materialismo dialettico nella natura e nella storia ed al collimante rigetto di quell’eclettismo metodologico che è l’anticamera dell’opportunismo. Il quesito morettiano della Palombella rossa di trentadue anni fa, in merito al senso di essere comunisti oggi, pretende una risposta ogni volta che si profila una comoda scorciatoia per raggiungere ciò che esige solo lavoro, serietà, pazienza, analisi ed elaborazione strategica, ogni volta che l’illusione di aver trovato vie di fuga o, di converso, il tentativo di mascherare la propria inazione dietro enunciazioni parolaie che non rispondono ad una pratica conseguente prendono il posto della critica e dell’autocritica. Se qualcosa hanno costruito e lasciato i comunisti, esso è il frutto del coraggio con cui hanno tenuto presente da dove venissero e dove fossero diretti, della sagacia con cui hanno preferito lanciare sull’uomo uno sguardo senza pregiudizi piuttosto che cedere alle lusinghe dell’oblio. Le esperienze del movimento operaio di tutto il mondo devono parlare, ovviamente, anche a quanti nel nostro paese perseguono l’obiettivo della ricostruzione comunista, volta a conquistare ai proletari e alla loro organizzazione peso nella società e utilità nel contesto della lotta per l’emancipazione della classe lavoratrice. La strada che si spalanca loro innanzi è unicamente quella che porta ad un effettivo radicamento del partito tra i bisogni e le rivendicazioni degli sfruttati, al provenire dalla lotta di classe, al consistere in essa ed al superarla nel segno della promozione di rapporti produttivi più avanzati: è la capacità di trasformare le singole vertenze in un’unica piattaforma rivendicativa a fare di un mero movimento d’opinione un partito, ad elevare i tanti dispersi lacerti dell’alienazione borghese al rango di fronte unico rivoluzionario. In fondo, il compito che si offre ai comunisti è solo quello di vedere oltre che di guardare il mondo intorno a loro, di spogliarsi di ogni remora e andare incontro alla realtà.
Luigi Cerchi