CONTINUA LA REPRESSIONE ANTIPOPOLARE DELLA GIUNTA MILITARE IN SUDAN
Nuove manifestazioni di massa sotto la parola d’ordine “Nessuna negoziazione, nessun compromesso” si sono svolte lo scorso 2 gennaio in Sudan. Le dimostrazioni sono state represse ancora una volta nel sangue come già avvenuto in quelle del 19, 25 e 30 dicembre, in particolare nella capitale Khartoum. Secondo quanto riferito dal Partito Comunista Sudanese, tra i principali animatori della resistenza contro il golpe militare dello scorso 25 ottobre, 4 manifestanti sono stati uccisi e oltre 200 feriti nelle manifestazioni del 30 dicembre con «le forze di sicurezza, la polizia e le forze di supporto rapido che hanno sparato proiettili e gas lacrimogeni contro i manifestanti pacifici». «Molti leader dei Comitati di Resistenza – riferisce il comunicato del PCS – sono stati arrestati come parte di questa ondata di brutale repressione, nel disperato tentativo di schiacciare il crescente movimento di protesta di massa dopo il golpe militare del 25 ottobre».
Almeno 235 manifestanti erano rimasti feriti nelle mobilitazioni del 25 dicembre, in occasione dei due mesi da quando i vertici dell’esercito hanno consolidato il loro ruolo al potere attraverso il colpo di stato. Almeno 2 morti e 300 feriti sono state registrati nelle mobilitazioni del 19 dicembre. I manifestanti nella città di Khartoum cercano di raggiungere il palazzo presidenziale, con la polizia, le forze di sicurezza e le milizie delle famigerate Forze di supporto rapido (Rsf – che agisce agli ordini del vicepresidente della giunta militare, il generale Mohamed Dagalo “Hemeti”) che non esitano ad aprire il fuoco sulla folla, usando anche gas lacrimogeni, granate stordenti e attaccandoli con i manganelli. Le strade principali della capitale e delle città limitrofe sono blindate per impedire lo svolgersi dei cortei e soprattutto che possano raggiungere il palazzo presidenziale.
Secondo i rapporti del Comitato centrale dei medici sudanesi (CCSD), sarebbero almeno 57 i manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza e circa 1.500 feriti nelle dodici giornate di mobilitazione che si sono susseguite dal golpe del 25 ottobre. Molti dei feriti riportano gravi lesioni causate da spari da armi da fuoco, ma anche dai candelotti di gas lacrimogeni che vengono sparati direttamente sui manifestanti. Diversi feriti anche per soffocamento indotto dall’inalazione dei gas lacrimogeni e dai colpi di manganello.
Fonti mediche denunciano inoltre come gli attacchi degli agenti del regime golpista avvengano anche negli ospedali dove sono soliti fare incursioni per arrestare e picchiare i manifestanti feriti ma anche il personale sanitario. Vengono riferiti anche ostacoli ai mezzi di soccorso e chiusure di ospedali e centri medici.
Anche l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha segnalato casi di molestie sessuali e stupri di cui sarebbero vittime decine di donne ad opera delle forze di sicurezza. Ma, nonostante ciò, l’ONU e l’Unione Africana – come riflesso degli interessi e compromessi delle forze borghesi e potenze imperialiste coinvolte negli sviluppi in Sudan – ha legittimato ad inizio dicembre il golpe e la giunta militare guidata dal generale Abdel Fattah Al Burhan (già capo del Consiglio Sovrano),1 sostenendo i processi in sviluppo della condivisione del potere con il primo ministro Abdalla Hamdok – dapprima rimosso con il golpe e poi, sotto la pressione internazionale di USA e UE, ristabilito il 21 novembre scorso a condizione che i militari partecipassero al governo tecnocratico che, sotto la supervisione di potenze imperialiste, dovrebbe guidare il paese alle elezioni previste nel 2023. Si tratta di un progetto di cosiddetto “Soft Landing”, caldeggiato dall’imperialismo statunitense. Una prospettiva alquanto precaria, reggendosi su un fragile compromesso tra fazioni della classe dominante, nelle loro espressioni militari e civili, e che ha portato nella giornata del 2 gennaio, in concomitanza con il nuovo bagno di sangue, alle dimissioni di Hamdok.
Le proteste popolari e la repressione statale non si sono mai fermate anche prima del colpo di stato. Il Partito Comunista Sudanese, i Comitati di Resistenza e il raggruppamento sindacale dei lavoratori dell’Associazione Professionale Sudanese, non accettano alcuna formula che includa i militari al governo e rifiutano i compromessi tra le fazioni militari e civili, chiamando a proseguire con la lotta di resistenza multiforme e di massa per rovesciare il regime golpista militare e riprendere il processo di radicale trasformazione avviato con la rivolta popolare del dicembre 2018 che portò nell’aprile del 2019 alla caduta del trentennale regime islamista di Al Bashir. Da allora, si sono susseguite dispute tra le fazioni della borghesia locale per prendere il controllo del cosiddetto “processo di transizione democratica” con l’obiettivo di salvaguardare i loro interessi in combinazione con le potenze imperialiste concorrenti e impedire ogni possibile avanzamento delle aspirazioni delle masse lavoratrici e popolari sudanesi.
Con il primo ministro “civile” Hamdok, in carica dal 21 agosto 2019, il Sudan ha avviato la “normalizzazione” delle relazioni con Israele ed è stato rimosso dalla “lista nera” degli USA dei paesi “sponsor del terrorismo” portando a termine un processo avviato già dal 2014 e che ha visto sotto l’amministrazione Trump, nell’ottobre del 2017, l’eliminazione dell’embargo imposto nel 1997. È stato anche il garante dell’accordo finanziario siglato con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che prevede un prestito di 2,5 miliardi di dollari e una cancellazione del debito di 56 milioni di dollari, con il suo carico di riforme antipopolari. Allo stesso tempo, è stato rimesso in discussione anche l’accordo per la costruzione nel paese, a Port Sudan, della prima base militare nel continente africano della Federazione Russa, annunciato a fine 2020 e che era stato definito sotto Al Bashir. Gli USA stanno cercando così di recuperare terreno in un paese in cui la Russia e la Cina erano riuscite a ottenere una grossa influenza economica e quindi politica. Non a caso, la portavoce del ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa, Maria Zacharova, al momento del golpe del 25 ottobre, rilasciò una dichiarazione che puntava il dito contro «le autorità di transizione, i loro mecenati e i loro sostenitori stranieri» per la crisi che viveva il paese per cui il golpe era «il risultato naturale di una politica fallimentare perseguita negli ultimi due anni». Significativo è, infatti, come nelle ultime settimane si siano intensificati i contatti tra la diplomazia russa e la giunta militare golpista, anche con una telefonata tra Lavrov e Al Burhan, per rafforzare le relazioni bilaterali e il coordinamento della politica estera, rilanciare il progetto di costruzione della base militare russa e gli investimenti russi nel settore minerario, energetico e agricolo. Mentre, il Segretario di Stato degli USA, A. Blinken, a seguito delle dimissioni di Hamdok, ha “avvertito” che gli USA «sono pronti a rispondere a tutti coloro che cercano di impedire ai sudanesi di continuare la loro ricerca di un governo civile e democratico».
Il Sudan è uno dei primi paesi africani per importazione di armi russe e ricopre un interesse strategico per la crescente influenza della borghesia monopolistica russa in Africa, in particolar modo nel Sahel e Corno d’Africa. Ancora maggiore è la penetrazione del capitale cinese nel paese e nella regione. Da decenni i monopoli energetici cinesi operano in una posizione dominante soprattutto in Sud Sudan (indipendente dal 2011, possiede il 75% delle risorse petrolifere) e lo stesso Sudan è integrato nella “Nuova Via della Seta” con diversi progetti infrastrutturali, dalle ferrovie ai porti strategici per le rotte commerciali per l’Africa e verso l’Europa.
Intanto anche nella regione del Darfur si sono riaccese le mai sopite tensioni e conflitti etnici e tribali con centinaia di morti e almeno 83.000 nuovi sfollati da ottobre, secondo l’ultimo rapporto sulla situazione pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) il 16 dicembre. Si tratta di una regione ricca di rame, oro, pietre preziose e uranio, con centinaia di migliaia di persone che vengono cacciate dalle loro terre per far posto agli interessi delle oltre 600 società minerarie che possiedono le concessioni esplorative da parte dello Stato sudanese che, di fatto, sostiene le Rsf (che formalmente operano al di fuori delle Forze armate sudanese – SAF) permettendogli di agire impunemente agli ordini di Hemeti, prendendo parte alle violenze e attacchi a villaggi e campi nel quadro del conflitto con gruppi ribelli armati in prevalenza di etnie non arabe.2
In questa relazione tra rivoluzione popolare “abortita” (ma le cui ceneri ardono ancora), disputa intraborghese, conflitti etnici e tribali e la contesa interimperialista, la crisi economica, politica e sociale attanaglia le masse povere e proletarie sudanesi che continuano a subirne gli effetti con la carenza di servizi pubblici essenziali, quali acqua, sanità, istruzione e infrastrutture, milioni di sfollati, con un tasso di disoccupazione intorno al 20%, un’alta diseguaglianza sociale e squilibrio territoriale, la malnutrizione che colpisce il 40% dei bambini al di sotto dei 5 anni, un tasso di povertà intorno al 50% e dure condizioni di vita e di lavoro. Almeno 38 “minatori artigianali” sono morti il 26 dicembre nel crollo di una miniera d’oro nei pressi della città di Nuhud, situata a circa 500 chilometri a ovest di Khartoum, nello stato di occidentale del Kordofan. Già nel gennaio 2021, altri 4 minatori erano morti in circostanze simili nella stessa miniera.
Il Sudan è il terzo produttore d’oro in Africa, ma allo stesso tempo è uno dei paesi più poveri del mondo. Ogni anno vengono estratte circa 80 tonnellate di oro, di cui circa l’80% viene ricavato dagli scavi artigianali. A causa della povertà dilagante e della disoccupazione, molte persone non hanno altra scelta che emigrare o lavorare in condizioni disumane come nelle miniere in assenza di sicurezza, ipersfruttamento, abusi e violenze: si stima che in Sudan siano fino a due milioni i “cercatori” d’oro, di cui molti minorenni, che con metodi artigianali raccolgono l’oro che arriva poi ripulito nei mercati internazionali. Ma questo di certo non li rende ricchi, perché sono le multinazionali, insieme agli intermediari, signori della guerra, militari e milizie armate (tra cui Hemeti), che si appropriano dei profitti dell’oro, così come di altre risorse minerarie, metalli rari e degli idrocarburi, in cambio di paghe da fame.
Per la sua posizione strategica nel Corno d’Africa, affacciandosi sul Mar Rosso di fronte alla penisola arabica, in un tratto in cui ogni anno transita circa un terzo del commercio marittimo mondiale, e per la ricchezza di risorse minerarie e di idrocarburi che possiede il suo sottosuolo, il Sudan si trova quindi al centro degli appetiti, dei piani e degli interessi confliggenti di diverse potenze imperialiste e forti stati capitalistici (USA, GB, potenze dell’UE, Russia, Cina, Turchia, Israele, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto ecc.) che cercano così di guadagnare posizioni migliori per plasmare gli eventi al fine di avvantaggiarsi sui concorrenti nella disputa per la spartizione di zone d’influenza, risorse naturali, terre e cruciali crocevia per il passaggio delle merci, nella più ampia regione del Sahel e del Corno d’Africa. Un altro pezzo del puzzle della competizione imperialista, dove si scontrano gli interessi dei monopoli euro-atlantici e di quelli cinesi e russi, riflettendosi sugli eventi e le dispute tra le fazioni che si sviluppano a discapito del popolo sudanese e degli altri popoli della regione.
Il Partito Comunista Sudanese ha rinnovato l’appello per «un’urgente solidarietà internazionale per chiedere la fine della sanguinosa repressione in Sudan e l’immediato rilascio di tutti i detenuti politici, in particolare dei leader dei Comitati di Resistenza». In un precedente comunicato aveva già lamentato la mancanza di solidarietà e sostegno da parte di alcuni partiti comunisti che verrebbero così meno ai principi internazionalisti del movimento comunista. Probabilmente più preoccupati nel dare priorità ai calcoli di convenienza della politica estera di qualche presunto sfruttatore “buono”.
Una dichiarazione congiunta internazionale dei partiti comunisti e operai del mondo aveva già condannato il golpe esprimendo solidarietà ai comunisti e al popolo sudanesi e aveva salutato la loro «tenace lotta per la libertà e il progresso sociale, contro i suoi sfruttatori e l’interferenza degli imperialisti che cercano di sfruttare le risorse naturali del Sudan e di usarlo nel quadro della loro strategia per dominare la regione.»
Gli sviluppi in Sudan ci rimandano così ancora una volta alla cruda realtà della brutalità del sistema di sfruttamento capitalistico e della competizione imperialista, di fronte alla quale per il proletariato sudanese, per non rimanere schiacciato alla coda degli eventi, non c’è altra strada che continuare ad opporre la sua lotta per i suoi diritti democratici, politici, civili, economici e sociali aprendosi la strada per la liberazione dalle catene che lo opprimono senza alcuna illusione verso i contendenti imperialisti e la borghesia locale. E per il movimento comunista non ci può essere spazio per nient’altro che il sincero e attivo internazionalismo proletario senza alcuna subalternità ad alcun centro capitalista.
1. A seguito della rimozione di Al Bashir, con la Dichiarazione Costituzionale dell’agosto 2019 è stato istituito un Consiglio Sovrano, facente funzione del Capo di Stato, composto da 5 membri militari e 5 membri civili, appartenenti rispettivamente al Consiglio di Transizione Militare (TMC) e alle Forze dell’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento (FFC). L’accordo prevedeva che per i primi 21 mesi la carica fosse affidata ad un militare, il generale Al Burhan con Hemedi nel ruolo di vice, mentre per i successivi 18 mesi ad un esponente civile, in vista delle elezioni previste nel 2023. Mentre il ruolo di primo ministro del governo di transizione spetta ad un civile, Hamdok (economista di lungo corso e già vicesegretario esecutivo della Commissione economica per l’Africa (Uneca), considerato vicino agli USA). Alla vigilia della successione alla guida del Consiglio Sovrano, con il passaggio di consegna dalla guida militare a quella civile previsto per il 17 novembre, Al Burhan ha compiuto il colpo di stato rimuovendo il primo ministro Hamdok e sciogliendo il Consiglio Sovrano. Dopo la minaccia di USA e UE di congelare i milionari finanziamenti promessi, un nuovo accordo di condivisione del potere è stato raggiunto il 21 novembre, ristabilendo Hamdok nel ruolo di primo ministro con la garanzia della partecipazione dei militari al “governo di transizione” formato da tecnici di espressione civile e militare.
2. Il 31 agosto 2020 è stato siglato un “accordo di pace” a Juba, capitale del Sud Sudan, tra le autorità di transizione del Sudan e il Fronte Rivoluzionario del Sudan, una coalizione di gruppi ribelli della regione occidentale del Darfur e degli Stati meridionali del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro. L’accordo, lungi dal garantire una reale e piena pace a beneficio del popolo nel Darfur, si basa sulla condivisione per quote del potere e non ha risolto le storiche questioni alla base del conflitto intertribale e etnico (che riguardano anche dispute sulla terra e sull’accesso all’acqua) che infatti sta proseguendo.