KAZAKISTAN: DALLE PROTESTE CONTRO L’AUMENTO DEL PREZZO DEL GAS E DEI BENI DI PRIMA NECESSITÀ ALLO SCIOGLIMENTO DEL GOVERNO IN CARICA
Nella regione kazaka di Mangystau, ricchissima di idrocarburi, nei giorni scorsi è scoppiata una forte protesta operaia e popolare contro il raddoppio del prezzo del gas. Per i lavoratori e i residenti locali è inconcepibile che un aumento del genere avvenga nella regione in cui viene prodotto ed esportato nel resto del paese e nel mondo. Numerose sono infatti le multinazionali del settore energetico che operano in questa regione, tra cui anche l’italiana ENI.
La prima azione di protesta si è svolta nella città operaia e petrolifera di Zhanaozen, il primo gennaio, subito dopo l’annuncio dell’aumento del prezzo del gas. Lavoratori del settore petrolifero e disoccupati organizzati hanno avviato la protesta chiedendo la riduzione del prezzo del gas naturale. Il giorno successivo le vie centrali della città sono state bloccate con molti residenti che sono scesi in strada in massa unendosi alla protesta. Da allora la protesta si è diffusa a macchia d’olio in tutti i centri della regione. Insieme alla protesta contro il rincaro del prezzo del gas, i lavoratori hanno iniziato a rivendicare un forte aumento salariale che possa coprire l’aumento inflazionistico che riguarda molti beni di prima necessità. Nonostante i tentativi delle autorità e della polizia di disperdere le manifestazioni di massa, queste resistono da quattro giorni consecutivi coinvolgendo anche il capoluogo Aktau, diffondendosi in tutta la regione e progressivamente in tutto il paese. L’aeroporto regionale è stato bloccato dai manifestanti alla notizia dell’arrivo di aerei da trasporto militare con a bordo le forze speciali.
Particolarmente attivi sono i lavoratori petroliferi, il cuore della classe operaia della regione. In realtà, l’aumento dei prezzi del gas è stato solo il fattore scatenante di una protesta così diffusa che riguarda il deprezzamento della valuta locale e dei salari e un’inflazione senza precedenti. Dal 1° gennaio i prezzi di molte tipologie di prodotti sono aumentati in tutto il paese e nell’oblast di Mangystau, come in altre regioni produttrici di petrolio, il problema principale per i lavoratori è il basso livello dei salari, nonché le insopportabili condizioni di lavoro.
Pertanto, l’aumento dei prezzi del gas è diventato il detonatore di una protesta contro l’intera politica socio-economica del governo a beneficio degli interessi dei monopoli minerari stranieri (in prevalenza cinesi e russi, ma anche europei, americani ecc.) e dell’oligarchia locale che continuano ad arricchirsi. I volumi di produzione del petrolio e di altri minerali sono aumentati nell’ultimo anno, venduti sui mercati mondiali in valuta estera, mentre il livello dei salari è rimasto sostanzialmente lo stesso e il potere d’acquisto è notevolmente diminuito.
I lavoratori e i residenti di Zhanaozen e dell’oblast di Mangystau denunciano gli enormi profitti guadagnati da multinazionali ed oligarchi mentre la maggior parte dei kazaki sta cadendo nella povertà. Parallelamente crescono le imposte dirette e indirette, l’aumento delle tariffe delle utenze e dei prezzi dei combustibili e del gas.
Le manifestazioni hanno presto assunto una dimensione di massa, estendendosi anche sotto la forma di scioperi nelle numerose imprese minerarie, nonché nelle regioni limitrofe del Kazakistan occidentale. Dal 3 gennaio le proteste hanno infatti coinvolto anche le città di Atyrau, Astana, Aqtöbe, Almaty, Uralsk e molte altre città. Il 4 gennaio anche i lavoratori del porto caspico di Kuryk (una delle basi operative mondiali della Saipem) si sono unite alla protesta e i lavoratori delle principali società di produzione e servizi della regione di Mangystau hanno annunciato la loro adesione a tempo indeterminato alle proteste.
Nel tentativo di impedire che le proteste si diffondessero in tutto il paese, le autorità hanno bloccato internet nella regione di Mangystau e interrotto le comunicazioni dei cellulari per impedire il coordinamento dei manifestanti. Infine è stato imposto lo stato d’emergenza fino al 19 gennaio, il coprifuoco notturno (dalle 23 alle 7) e restrizioni all’ingresso e uscita delle città. Forti scontri sono avvenuti in diverse città, con assalti anche a sedi istituzionali. In particolare nella capitale economica del paese, Almaty, si sono registrati gli scontri di maggiore intensità con gli apparati repressivi che hanno utilizzato gas lacrimogeni e granate stordenti per disperdere i manifestanti. Più di 200 persone sono state arrestate in tutto il paese e almeno 500 feriti.
Il Movimento socialista del Kazakistan e il sindacato dei lavoratori “Zhanartu” sostengono attivamente le proteste operaie e popolari e hanno chiamato da subito a creare propri comitati d’azione sia a livello territoriale che nei posti di lavoro, ampliando le richieste al fine di ottenere anche il diritto di creare propri sindacati indipendenti e di condurre scioperi, la legalizzazione delle organizzazioni comuniste, il reintegro al lavoro di tutti i militanti sindacali e politici licenziati e la liberazione dei prigionieri politici, nonché le dimissioni dei funzionari di Nazarbayev, compreso il presidente Tokayev.
La protesta si è rapidamente politicizzata indirizzandosi contro il governo e il regime di Nazarbayev, “padre della nazione” che guida “a vita” il Consiglio Supremo di Sicurezza dopo esser stato presidente per 30 anni dopo il rovesciamento controrivoluzionario dell’URSS. Nella serata del 4 gennaio il presidente Tokayev ha sciolto il governo in carica guidato da Askar Mamin ed ha avviato un conseguente rimpasto nelle cariche, annunciando in seguito anche l’assunzione da parte sua della carica del Consiglio Supremo al posto di Nazarbayev. Accusando che le proteste sarebbero state promosse e finanziate dall’estero per destabilizzare il paese ha annunciato anche di aver fatto appello alla Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) – a guida russa – per “assistere” il Kazakistan. Una mossa dettata dal disperato tentativo di placare le proteste facendo delle concessioni e promettendo una regolamentazione del prezzo del gas liquefatto, del carburante e di altri prodotti di base. Ma questo non è stato sufficiente a fermare per ora le proteste.
I collettivi operai delle compagnie minerarie sono andati ad unirsi uno ad uno alle proteste. Ai tentativi di repressioni di massa, dai campi della regione di Mangystau e di quelle limitrofe è stata risposta un’ondata di scioperi, uno sciopero generale di fatto. A preoccupare i lavoratori del settore petrolifero anche le notizie sui prossimi licenziamenti, dato che nella regione di Atyrau alla fine dello scorso anno sono stati già licenziati trentamila lavoratori. Tenendo conto che diversi giacimenti si stanno avvicinando al loro esaurimento entro il 2030 e dell’assenza di nuovi esplorati, era prevedibile un’esplosione sociale nel Kazakistan occidentale.
Adesso la preoccupazione è che il terrore statale possa soffocare nel sangue la protesta nel caso si prolungasse o che comunque si scatenerà la repressione, gli arresti e le torture nei confronti dei protagonisti. Decine di manifestanti sono stati uccisi dalla polizia in Kazakhstan durante la notte, mentre sono continuate le proteste violente in tutto il Paese. Lo annuncia la stessa polizia kazaka. Ancora fresco è il ricordo degli eventi di dieci anni fa, quando proprio la città di Zhanaozen fu teatro del massacro antioperaio del 16 dicembre 2011, quando le forze di polizia uccisero diverse decine di operai petroliferi durante un prolungato sciopero per i loro diritti economici e sindacali, rivendicando miglioramenti salariali, la nazionalizzazione sotto controllo operaio dei giacimenti e la costituzione di un proprio sindacato di classe indipendente. Fu chiamato anche un boicottaggio delle elezioni e uno sciopero politico nazionale contro il regime di Nazarbayev. Lo sciopero bloccò per 6 mesi diversi impianti petroliferi in mano a multinazionali cinesi, russe, europee, statunitensi ecc., tra cui anche l’ENI, fino a quando fu scatenato il terrore statale del regime di Nazarbayev al servizio della brama di profitti delle multinazionali nella competizione interimperialista e della borghesia locale. Nel paese è stato in seguito istituito anche un nuovo codice del lavoro che criminalizza la lotta della classe operaia, ne vieta l’organizzazione sindacale e politica indipendente e ha istituito reati che prevedono il carcere per “istigazione all’odio sociale” e “istigazione allo sciopero”. Diversi sono gli attivisti che vengono licenziati, arrestati e uccisi per la loro attività sindacale a difesa dei diritti dei lavoratori mentre il Movimento socialista del Kazakistan e il Partito Comunista del Kazakistan sono messi fuorilegge.
Il Movimento Socialista del Kazakistan ha fatto appello al sostegno del movimento comunista e operaio internazionale per diffondere il più possibile informazioni sui raduni e sulla lotta dei lavoratori kazaki e per non consentire al regime antipopolare di usare ancora una volta le armi. Per la classe operaia del paese, che con la presenza dei lavoratori petroliferi è diventata la locomotiva della protesta popolare, è fondamentale non lasciare spazio ai gruppi nazionalisti (con cui le autorità flirtano da anni in chiave anticomunista) e impedire che l’iniziativa finisca nelle mani di una o l’altra fazione borghese che si intreccia con gli interventi di uno o l’altro campo imperialista. Ricordiamo infatti che il Kazakistan per la ricchezza di risorse e la sua posizione è uno snodo strategico in cui si scontrano gli interessi confliggenti di potenze imperialiste.
L’aumento dei prezzi dell’energia, dei beni di prima necessità e delle tariffe, sta ormai coinvolgendo tutti i paesi aggravando ulteriormente il peso della crisi del capitalismo e della competizione imperialista che ricade sulle spalle dei lavoratori e delle classi popolari. Ma al contempo sta divenendo un detonatore delle proteste di massa in molti paesi.
Intanto La Russia e i paesi facenti parte della Csto (Organizzazione del trattato per la sicurezza collettiva, che raggruppa sei ex stati sovietici) hanno inviato una “forza di pace” in Kazakhstan. Lo ha annunciato su Facebook il presidente dell’alleanza, il premier armeno Nikol Pashinyan, spiegando che saranno inviate “forze di pace collettive” per un “tempo limitato per stabilizzare e normalizzare la situazione nel Paese” causata, a suo dire, da “interferenze esterne”.