I PORTUALI DI GIOIA TAURO TRA AUMENTO DELLA PRODUTTIVITÀ, CONTRATTI SCADUTI E REPRESSIONE ISTITUZIONALIZZATA
La logistica è emersa, negli ultimi anni e, soprattutto, negli ultimi mesi come uno dei settori conflittuali per eccellenza in Italia, una tendenza che ha valorizzato il peso sociale di un ambito i cui lavoratori detengono potenzialmente un enorme potere negoziale verso aziende e istituzioni, anche per la posizione che occupano all’interno della catena globale del valore. In autunno abbiamo assistito a delle mobilitazioni operaie all’interno dei maggiori porti italiani, mobilitazioni che, sebbene i media le abbiano diffuse soprattutto come proteste contro l’ipocrisia delle restrizioni Covid del governo verso i lavoratori, hanno mostrato anche delle rivendicazioni contrattuali importanti. In questo articolo ci concentreremo sulle condizioni dei lavoratori del porto le cui prospettive sono, forse, le meno valorizzate a livello infrastrutturale, quello di Gioia Tauro, e lo facciamo con Mimmo Macrì, segretario regionale Orsa Porti e operaio portuale all’interno del terminal.
Ciao Mimmo, negli ultimi mesi anche gli operai del terminal di Gioia Tauro hanno partecipato alle ondate di protesta che hanno avuto luogo sulla scia dello sblocco dei licenziamenti. Com’è la situazione in cui vi trovate a lavorare oggi?
Le contraddizioni interne all’area portuale sono molte e anche per questo abbiamo aderito, noi lavoratori dell’Orsa, allo sciopero nazionale del sindacalismo di base dell’11 ottobre. Diciamo che abbiamo contestualizzato la protesta contro il via libera ai licenziamenti facili nelle problematiche del porto di Gioia Tauro, e queste sono rilevanti e si collegano al tema più generale della “democraticità” dei luoghi di produzione. Una è, ad esempio, la mancanza delle RSU, che persiste da 18 anni, con i sindacati confederali che non danno la possibilità ai loro lavoratori di votare dei rappresentanti, i quali vengono di fatto scelti e nominati dalle segreterie attraverso le RSA. Una grave criticità (o meglio abuso) che viviamo è, poi, il contratto integrativo aziendale scaduto 15 anni fa e ancora non rinnovato, con tutte le perdite che ci sono di fatto state durante gli anni, anche tenendo conto della cassa integrazione che si è subita per 7 anni. È un paradosso, infine, che nel corso di quest’anno ci siano stati dei record di movimentazione, anche giornaliera (ricordiamo i 8.514 container imbarcati e sbarcati nell’arco di 24 ore solo su una nave) e noi non abbiamo percepito neanche un premio di produzione.
Questo è l’ennesimo esempio che smentisce la retorica dei padroni sul merito e sul salario “proporzionato alla produttività”.
Per essere più precisi, qualche mese fa l’azienda si vantava sui media di avere un +21% di produttività, però noi come operai del terminal non abbiamo usufruito di nessuna maggiorazione. Un altro problema importante è l’organizzazione del lavoro: la distribuzione dei turni sia per quanto riguarda il lavoro notturno sia per quanto riguarda la conduzione dei mezzi. Ci sono portuali che da 27 anni salgono sulle gru, salgono sui carrelli, però questo alternarsi non è distribuito in maniera equa, il che comporta un eccessivo affaticamento psicofisico che non viene superato per via della turnazione che abbiamo. Abbiamo fatto più volte richieste all’azienda e al medico competente, nonché all’Autorità di Sistema Portuale, la quale non ha mai risposto, nonostante sia un garante del porto e non un manager dell’azienda. Per tutti questi motivi ad ottobre abbiamo aderito allo sciopero, anche se in maniera abbastanza “travagliata”.
Perché l’adesione è stata travagliata?
Beh, dopo poco tempo dal lancio dello sciopero c’è stata una lettera da parte dell’azienda, dai toni non esattamente pacifici, la quale comunicava ai lavoratori che chiunque avesse aderito allo sciopero, ritenuto “illegittimo”, sarebbe stato sanzionato a livello contrattuale, appellandosi all’articolo 49 del nostro CCNL, che prevederebbe una particolare procedura di raffreddamento. Noi abbiamo scritto alla Commissione di Garanzia sugli scioperi, la quale ha risposto prontamente riconoscendo la legittimità dello sciopero, anche perché come organizzazione sindacale avevamo rispettato in abbondanza i dieci giorni di preavviso. E tuttavia nella lettera, ormai pubblica, la minaccia dell’azienda non era neanche tanto velata. La cosa più scandalosa, inoltre, è che a ridosso della giornata di sciopero è stata la stessa Autorità Portuale, organismo neutro e, in teoria, solo di garanzia e sorveglianza, a rincarare la dose, sostenendo la tesi dell’azienda! Tutto questo si situa in un contesto in cui noi non abbiamo neppure ritenuto di mettere su picchetti per ostacolare l’entrata a lavoro di chi aveva scelto di non aderire allo sciopero. Sono stati attacchi, in definitiva, evidentemente aggressivi ed arbitrari.
Che idea vi siete fatti di questo intervento “anomalo” dell’Autorità Portuale?
La dichiarazione dell’Autorità Portuale è qualcosa che chiamare “inopportuno” è dir poco. Da un lato perché si è pronunciata a poche ore dallo sciopero nonostante avesse avuto giorni e giorni di tempo per uscire pubblicamente, dall’altro perché lo ha fatto dopo che si era pronunciata la Commissione di Garanzia, organo preposto alla supervisione della “correttezza” degli scioperi. È evidente che si sia trattato di un atteggiamento repressivo, politico, finalizzato a scoraggiare ed intimorire i lavoratori, da parte di un ente che, ricordiamolo ancora, ha una funzione di amministrazione e coordinamento che non si identifica con gli interessi dell’azienda che gestisce il terminal (o con quelli dei lavoratori) e che, quindi, non ha il compito di prendere una posizione all’interno del conflitto.
La repressione padronale si è espressa attraverso le istituzioni ma si esprime costantemente, dicevamo, con l’assenza di democrazia reale nei luoghi di lavoro. Non solo la produzione, nel nostro sistema capitalista, è per definizione alla mercè delle decisioni unilaterali di chi possiede mezzi e capitali, ma persino una reale rappresentanza dei lavoratori è disinnescata, nell’epoca dei sindacati filo-padronali. Come funziona il meccanismo della rappresentatività e perché vi penalizza?
Sono stati fatti accordi interconfederali a livello nazionale dove si perimetra la titolarità della rappresentatività ai firmatari di questi determinati accordi. Parliamo del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10.01.2014, scritto a seguito della sottoscrizione di precedenti accordi, e a cui l’Orsa non ha ritenuto di aderire, per diversi motivi di merito. Per accedere alle trattative sui contratti, tuttavia, i sindacati vengono di fatto obbligati ad aderire al Testo Unico citato, perché è una delle condizioni per prendere parte alla costituzione di RSU e il voto nelle elezioni delle RSU entra nel computo del calcolo della rappresentanza. Per effetto di quelle stesse norme, si impedisce ai sindacati di presentare una propria piattaforma rivendicativa e di scioperare sia durante la contrattazione che dopo l’eventuale firma degli accordi che abbiano ottenuto l’assenso del 50% + 1 delle RSU. Da noi il problema viene “risolto” alla radice perché le elezioni per le RSU non avvengono proprio, il che ci penalizza perché esse sarebbero comunque rappresentanze votate da tutti i lavoratori di un’azienda, che si occuperebbero di portare avanti eventuali vertenze e di contrattare gli accordi aziendali e risponderebbero a tutti i lavoratori che le hanno elette, sebbene possano farlo in pratica solo su iniziativa dei sindacati confederali. Tra l’altro, i contratti nazionali e gli accordi che ho citato sostengono l’impegno, da parte delle sigle sottoscriventi, di indire le nuove elezioni delle RSU in caso questi siano assenti, cosa che non avviene.
Per concludere, vorrei chiederti un’opinione più generale sullo stato del Porto.
Oggi assistiamo al fatto che i grandi gruppi armatoriali (come nel caso della MCT al Porto di Gioia Tauro) stanno monopolizzando i porti sia per quanto riguarda le linee di navigazione che per quanto riguarda i terminal, il trasporto ferroviario, il trasporto su gomma. Essi, in poche parole, si stanno sostituendo allo Stato, il quale si limita a rendere più efficienti le infrastrutture con la manutenzione. Tutto ciò, com’è ovvio, si riflette sul potere negoziale che queste grandi imprese hanno sulla forza lavoro. Oggi, a tre mesi dallo sciopero di ottobre, i carichi notturni e la distribuzione delle mansioni sono problemi rimasti intatti (anzi, con l’aumento dei contagi e la diminuzione del personale lo stress lavorativo si è forse incrementato) e del contratto integrativo ancora non se ne parla. La rabbia, crescente, fra gli operai, fa fatica a tradursi in un movimento di contestazione unitario all’interno dell’azienda, al contrario di altre realtà come, ad esempio, Genova, dove gli operai portuali hanno infatti ottenuto un contratto integrativo che è coinciso con un aumento di 880 lordi. Infine, le tanto decantate infrastrutture sulle quali da mesi Stato e regione dicono di voler investire per rilanciare il porto di Gioia in ottica internazionale (oggi, notoriamente, ci occupiamo solo di transhipment) ancora latitano: l’unico lavoro degno di nota che è cominciato è la costruzione della banchina di ponente, dove dovrebbe essere allocato il bacino galleggiante.