LA MOBILITÀ NEL MERIDIONE E LA RISTRUTTURAZIONE AZIENDALE DELLE LINEE SU GOMMA SULLA PELLE DEI LAVORATORI
In Italia e, soprattutto, al Sud, esiste da sempre un problema di connettività locale e interregionale legato, da un lato, alla iniqua distribuzione delle linee ferroviarie e, dall’altro, all’aziendalismo che caratterizza la gestione sia del trasporto su rotaie che di quello su gomma (che va a sostituire il primo in molte zone del Paese). Questo aziendalismo di un servizio che dovrebbe rappresentare un servizio pubblico è particolarmente evidente proprio nella gestione delle linee di autobus regionali e di lunga percorrenza con ricadute che, come vedremo, vanno ad impattare sui lavoratori oltre che sugli utenti.
Per fare un quadro generale dell’importanza che ha assunto oggi il trasporto su gomma, occorre ricordare che uno dei problemi del trasporto ferroviario in Italia è che fuori dalle direttrici principali dell’alta velocità, e dalle Regioni che in questi anni hanno investito, la situazione del servizio durante l’epoca dell’austerity è peggiorata, con meno treni in circolazione, e di conseguenza è sceso il numero di persone che prende il treno – un favore indiretto alle compagnie di trasporto privato e della produzione di idrocarburi. Solo negli ultimi anni c’è stato un recupero dell’offerta di servizio Intercity – treni fondamentali nelle direttrici fuori dall’alta velocità, in particolare al sud e nei collegamenti con i centri capoluogo di provincia – ma dal 2010 al 2017 la riduzione delle risorse, con proroghe del contratto tra il ministero delle Infrastrutture e Trenitalia, ha portato ad una riduzione drastica dei collegamenti che emerge con chiarezza dal bilancio consolidato di Trenitalia. Per i convogli a lunga percorrenza finanziati con il contributo pubblico, principalmente gli Intercity, l’offerta in termini di treni/km è scesa infatti dal 2010 al 2018 del 16,7% e parallelamente sono calati i passeggeri del 45,9%. Per il 2019 i dati sono stati in leggera ripresa per quanto riguarda il numero di passeggeri, ma per questa tipologia di treni siamo lontani dai dati del 2010 sia per l’offerta sia per la frequentazione.[1]
La logica che privilegia le linee più profittevoli si evince dal fatto che in questi anni in alcune parti del Paese la situazione è migliorata rispetto al passato mentre in altre è peggiorata, e si è ampliata la differenza nelle condizioni di servizio tra gli stessi pendolari. Nel complesso, la quantità di treni regionali in servizio, considerati tutti i gestori, è infine tornata ai livelli del 2010, ma dopo anni di riduzione e con notevoli differenze tra le regioni.
Anche per sopperire a tali mancanze, in Calabria le compagnie private operanti su gomma che sono convenzionate con il trasporto pubblico regionale sono rappresentate da sei società consortili, che racchiudono 28 aziende di trasporto pubblico locale. Esse ricevono lo stesso trattamento della linea ferroviaria regionale, Ferrovie della Calabria, in quanto a contributi pubblici. Per produrre un utile, perciò, scaricano i costi sul trattamento economico dei propri dipendenti, che non godono dello stesso inquadramento contrattuale dei loro colleghi di Trenitalia. I rapporti di forza, in questo caso, sono decisamente a sfavore dei lavoratori, anche perché il fatto di non essere assunti tramite concorso pubblico ma attraverso preferenze personali, spesso connesse a indicazioni provenienti da ambienti di politica locale, pone il lavoratore sotto il giogo dell’affiliazione clientelare e indebolisce le prospettive concrete di rivendicazione e lotta sul posto di lavoro. Durante il periodo dei lockdown, inoltre, queste linee hanno continuato a recepire i fondi regionali nonostante non avessero coperto tutti i tratti previsti e hanno, in più, provveduto a mettere in cassa integrazione i loro dipendenti. Alcune di esse, addirittura, stanno avviando procedure di licenziamento collettivo.
Sintetizzata brevemente questa cornice generale circa la situazione dei trasporti nella regione, andremo più nel particolare e ci focalizzeremo sulle linee che, pur non avendo formalmente convenzioni con il trasporto pubblico, ne fanno di fatto le veci. La tendenza aziendalistica delle compagnie responsabili è, in questo caso, ovviamente ancora più prevedibile e ha raggiunto il suo apice in quella lotta di classe che i padroni di queste ultime stanno sferrando nei confronti dei lavoratori che, in questi anni, hanno creato la ricchezza di tali ditte.
La prassi delle ristrutturazioni aziendali sulla pelle dei lavoratori non ha lasciato infatti immune, in un momento storico in cui i pretesti per l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo non mancano, neppure il settore degli autotrasporti. È così che la storica azienda di Rossano Simet Spa, leader nelle tratte a media e lunga percorrenza, che non fa parte delle linee convenzionate sopra citate, ha avviato il licenziamento collettivo di 70 dipendenti, lasciando trasparire che, nel caso in cui venissero meno gli aiuti previsti per il settore dopo la pandemia, alla azienda non resterà altro che far partire le lettere. Ma la vicenda della Simet sembra avere radici più lontane di ciò che appare. Ne parliamo con Francesco (nome di fantasia), autista Simet residente in Calabria, in prima linea nella lotta dei dipendenti in queste settimane.
Ciao Francesco, com’era la situazione lavorativa in Simet prima della procedura di licenziamento?
Io sono arrivato alla Simet diversi anni fa, trovando inizialmente un’azienda molto accogliente. La Simet è un’azienda privata che si occupa di trasporto pubblico interregionale: io, ad esempio, parto da Crotone e arrivo a Milano, a Verona o in Germania. Qualche anno fa l’azienda ha fatto un accordo con Busitalia [società interamente controllata da Ferrovie dello Stato Italiane, concessionaria, anche attraverso sue società controllate, della gestione del servizio di trasporto pubblico locale in diverse città italiane in Campania, Umbria e Veneto], per cui il 51% della Simet fu rilevato da quest’ultima. Questo accordo dopo neanche due anni è caduto: non abbiamo mai capito se sia stata la Simet che ne è uscita o Busitalia che lo ha voluto concludere prima. L’unica cosa certa è che già da questo accordo per noi lavoratori è iniziato una specie di calvario: tantissimo lavoro con stipendi che non sono comunque idilliaci.
Qual è stato il ruolo della politica aziendale negli ultimi anni?
Io sono un lavoratore molto attivo a livello sindacale, nel mio contesto mi scontro quotidianamente con una mentalità per cui i lavoratori sono considerati degli schiavi a fronte del padrone proprietario dell’azienda. Dall’alto di questa esperienza posso supporre che la Simet stia abbastanza “giocando” con questa situazione. Infatti, dal 2018 ha cominciato ad appaltare alcune linee ad aziende esterne, esternalizzando il servizio. In questo momento da Roma il trasporto viene fatto da altre aziende che hanno la livrea sempre Simet, gli autisti con la nostra divisa addosso, ma non sono Simet, bensì dipendenti di aziende di noleggio autobus.
Sembra il classico meccanismo della ristrutturazione d’impresa mediante sostituzione dei lavoratori più tutelati.
Secondo noi l’obiettivo dell’azienda è diventare un business modalità Flixbus, togliendosi il personale di dosso, delegando il servizio vero e proprio ad aziende che riescono a risparmiare di più sui dipendenti attraverso un minor costo del lavoro e, magari, dei contratti con minori tutele, assumendo personale giovane con i nuovi contratti atipici e senza il vecchio articolo 18, ma mantenendo il brand e l’organizzazione del lavoro in generale. Noi eravamo più di 130 e negli ultimi due anni hanno lavorato molto sul piano psicologico per fare in modo che molte persone andassero via da sole. Di fatto, il licenziamento collettivo è partito già due anni fa, attraverso una pressione informale dei dirigenti e dell’azienda che ci prospettava di continuo una imminente chiusura o riduzione del lavoro. Se stanno cercando di liberarsi dei lavoratori più anziani e tutelati, lo stanno facendo attraverso metodi disparati. Ora che siamo rimasti in 97 stanno evidentemente utilizzano il metodo più esplicito, e di questi ne vogliono licenziare 70. Ora hanno aggiunto, dopo l’ultimo incontro con Confindustria, il ricatto degli stipendi. Di dicembre ci hanno dato un acconto, poi a febbraio un altro acconto del mese di dicembre. Dicono che al massimo ci daranno un quarto dello stipendio: è nient’altro che un pressing psicologico per spingerci ad andarcene. Fino ad oggi ho fatto un turno a lunga percorrenza e il bus era, come sempre, pieno. La crisi dell’azienda è solo presunta.
Come state agendo sul piano sindacale?
L’azienda sostiene di non avere soldi, ma noi non ci crediamo. Chi lavora in un’azienda lo capisce se è credibile dire che il fatturato si sia abbassato. Noi con la Faisal abbiamo chiesto supporto a tutti i livelli istituzionali, a cominciare da quelli comunali fino al governo. Dopo le nostre richieste il presidente della regione ha già inviato una nota al ministro Orlando. Anche se sono consapevole che la svolta nella vicenda può essere data soltanto dal protagonismo dei lavoratori stessi, i quali non basta che incarichino il sindacato e la politica. L’unica arma che abbiamo sono gli scioperi unitari, visto che il problema è legato ad una ristrutturazione aziendale che vuole scaricare sulla forza lavoro il rischio della competizione.
Cosa ti auguri per il futuro del trasporto interregionale in generale?
Quello che ci chiediamo è, soprattutto, il senso di mantenere questi monopoli privati nei servizi essenziali, monopoli entro i quali noi siamo sempre ricattabili, quando il settore pubblico potrebbe rilevare e internalizzare il servizio stesso, risparmiando magari in commesse senza far fare profitto al privato e stabilizzando tutti i dipendenti senza fare differenze. Il settore dei trasporti, come quello della sanità e di tutti i servizi essenziali, dovrebbe in generale essere il primo a essere reso immune da queste speculazioni private. Ci sono compagnie di trasporto su gomma privato che hanno messo su linee interregionali – a sostituzione, peraltro, del servizio pubblico – utilizzando i soldi pubblici, facendo impresa con i soldi della collettività e utilizzando questo privilegio per offrire lavoro precario e farsi una becera concorrenza con servizi che, peraltro, sarebbero molto più efficienti e di qualità se non schiavi di questa rincorsa al profitto.
Cosa speri nell’imminenza?
In una presa di coraggio di tutti i miei colleghi, che dovrebbero uscire dalla logica della delega e prendere in mano il loro destino. E in una solidarietà generale dagli altri settori che stanno vivendo situazioni simili alla nostra.
A margine di questa intervista è utile sottolineare quanto i problemi messi in luce da essa circa il trasporto locale e nazionale non saranno in alcun modo risolti, come vorrebbe fare credere la stampa e la retorica del governo, dagli investimenti che saranno apportato dal PNRR. L’ottavo rapporto sulla coesione regionale in Europa ha riportato questo grafico che mostra le linee ferroviarie per velocità tra i centri urbani in Europa. Inutile dire che lo sviluppo diseguale delle linee – soprattutto veloci -, si veda la maggiore rarefazione in Spagna e del Portogallo, Irlanda e Grecia (ma anche alcune zone della Francia), risponde alla realizzazione delle infrastrutture secondo una logica di sostegno alle possibilità del profitto dei capitalisti e non alle necessità della stragrande maggioranza della popolazione.
A questo effetto del già citato aziendalismo statale, con Stati che investono poco in infrastrutture pubbliche e solo nelle zone immediatamente a più alto ritorno economico si dice, appunto, che si andrà a sopperire, sull’onda della crisi pandemica, con il Recovery Fund e il noto PNRR.
Il problema è che nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e del Piano Nazionale Complementare (PNC) gli investimenti di competenza del ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili sono pari a 61,4 miliardi di euro, di cui 40,4 miliardi di euro a valere sulle risorse Next Generation EU e 21 miliardi di euro a valere su risorse nazionali. Sembrano tanti, ma poiché parliamo di un piano spalmato su 5 anni è bene capire che questo coincide con un investimento di 12 miliardi in media all’anno in infrastrutture pubbliche.
Non è nulla di diverso rispetto a quanto fatto negli anni precedenti; anni, ricordiamo, di “vacche magre” per la mobilità italiana.
L’Agenzia per la Coesione territoriale nel 2019 parlava infatti di emergenza nazionale e in valore assoluto mostrava quanto la spesa per investimenti pubblici in infrastrutture fosse diminuita «dai 47 miliardi del 2007 ai 36 miliardi nel 2016, per poi scendere ancora a 34 miliardi nel 2017 e a 33 miliardi nel 2018». Per chi sostiene che i fondi del PNRR saranno aggiuntivi rispetto a quelli già stanziati ordinariamente, c’è da ricordare che i fondi del Recovery sono non certo nuova emissione monetaria o redistribuzione delle risorse, ma in gran parte debito diretto o indiretto (quelli a fondo perduto, presi a prestito dalla Commissione Europea, dovranno comunque essere ripagati dagli stati membri). E siccome già dal 2023 e 2024, secondo la legge di bilancio, si tornerà praticamente al pareggio di bilancio primario, non si vede come si realizzerebbe questo margine di spesa aggiuntivo rispetto ai vincoli da rispettare. I fondi aggiuntivi reali saranno, molto probabilmente, ciò che è sufficiente per rappezzare il sistema dopo il dissesto della crisi Covid.
/*-Prima nei numeri delle leggi di bilancio, a dirlo sono i progetti concreti presentati per il meridione d’Italia nel PNRR stesso.
A fronte della situazione descritta gli investimenti previsti esplicitamente per il Sud nel piano sono i seguenti:[2]
- Collegamenti ferroviari ad Alta Velocità per passeggeri e merci:
- Napoli-Bari;
- Palermo-Catania;
- Salerno-Reggio Calabria. Alla realizzazione di questa linea, oltre agli 1,8 miliardi di euro inseriti nel PNRR, sono stati dedicati 9,4 miliardi di euro del PNC;
- la connessione diagonale Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia;
- rinnovo delle flotte bus in senso ecologico per l’ambito urbano; sviluppo della mobilità ciclistica; miglioramento delle stazioni ferroviarie al Sud (piccolo investimento di 700 milioni, tra l’altro);
- rinnovo degli autobus del trasporto pubblico locale per l’ambito extraurbano (300 milioni); rinnovo delle flotte dei treni a servizio del trasporto regionale e intercity (300 milioni anche qua);
- rinnovo delle infrastrutture per il trasporto ferroviario delle merci, (12 milioni di euro); potenziamento e upgrading delle linee ferroviarie.
Il piano presenta, in buona sostanza, tre nuove linee “ambiziose” e qualche rattoppo dell’esistente, in delle zone in cui occorrono10 ore di treno regionale per percorrere 120 km.
Non sembra essere in vista, dunque, nessuna rivoluzione nella mobilità nelle regioni del meridione italiano, nessuna intenzione di affrontare l’arroganza dei padroni delle linee private su gomma e le esigenze dei loro lavoratori, nessun aumento delle tratte né su treno né su gomma, nessuna volontà di internalizzare le linee nel pubblico (come dovrebbe essere per garantire la dignità lavorativa dei dipendenti e l’ottimizzazione del servizio per le aree più periferiche). Come evidenziato da Francesco, il presupposto per un reale cambiamento è il protagonismo dei lavoratori e la capacità di estendere le rivendicazioni e il conflitto dalla singola situazione vertenziale ad una più generale combattività di lavoratori e ceti popolari legata agli interessi di questi ultimi nell’ottica di riuscire ad esprimere ed imporre all’ordine del giorno la propria agenda politica.
Intervista a cura di Domenico Cortese
Note:
[1] https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2020/02/Rapporto-Pendolaria-2019.pdf, p. 6.
[2] https://www.mit.gov.it/nfsmitgov/files/media/notizia/2022-01/Investimenti%20Sud%20Mims%20PNRR-PNC%202022_finale.pdf