Forniture militari italiane fra dubbi di legittimità e business delle armi
Il 28 febbraio il Consiglio dei Ministri ha adottato il decreto legge, già passato al vaglio delle Camere, che autorizza la cessione di mezzi militari offensivi a favore delle autorità governative ucraine. La decisione fa il paio con quella dell’Unione Europea, la quale ha stanziato con il Peace Stability Fund 450 milioni di euro in aiuti militari: «per la prima volta in assoluto l’UE finanzierà l’acquisto e la consegna di armi ed equipaggi per un Paese sotto attacco», ha annunciato la Presidente della Commissione Europea Ursula von Der Leyen.
La scelta politica dell’intervento, seppur per ora indiretto, nel conflitto tra Russia e Ucraina fa emergere una serie di questioni che non possono risolversi nella mera presa d’atto di una scelta di campo già palese e radicata (una doppia scelta, quella – innanzitutto – dell’imperialismo e, in secondo luogo, di uno degli specifici poli imperialisti in conflitto). Occorre anche puntare i riflettori sull’intera cornice che costituisce la rincorsa al conflitto stesso, al quale l’Italia ha pienamente partecipato in quanto membro della NATO, rivederne la coerenza legislativa e istituzionale e osservarne le radici materiali negli interessi industriali interni anche alla stessa Italia. Solo in questo modo sarà chiaro che la decisione del governo italiano è la degna prosecutrice del militarismo falsamente “difensivo” e ipocrita che da sempre costituisce la cifra fondante della politica delle alleanze del nostro Paese.
L’aumento delle spese militari
Per cominciare, conviene dare uno sguardo a quanto l’Alleanza Atlantica abbia contribuito alla corsa agli armamenti mondiale, soprattutto a partire dalla serie di rivolte del 2014 in Ucraina culminata con una “rivoluzione colorata” e la cacciata dell’allora presidente Viktor Janukovyč. Secondo quanto riportato nel Rapporto annuale del Segretario generale dell’Alleanza Atlantica di marzo 2021, in Italia la spesa militare assoluta aumenta ininterrottamente dal 2015. Mentre la spesa più consistente continua ad essere ovviamente quella degli Stati Uniti che copre circa Il 70% delle spese complessive NATO, nel Rapporto si registra un aumento del 3,9% rispetto al 2019 della spesa per la difesa complessiva da parte dell’Europa e del Canada.
Per quanto riguarda il burden sharing, ovvero il rispetto degli impegni di spesa assunti in occasione del Summit NATO tra Capi di Stato e di Governo svoltosi in Galles nel settembre 2014, esso richiede lo sforzo di ciascuna Nazione Alleata a tendere al raggiungimento degli obiettivi del 2% delle spese per la difesa rispetto al PIL e del 20% delle spese per investimenti in major equipments rispetto a quelle della difesa. Obiettivi da conseguire entro il 2024 per contribuire a missioni, operazioni ed altre attività. In relazione all’obiettivo del 2% del PIL, i Paesi che nel 2020 hanno raggiunto questa soglia sono undici (su 30), rispetto ai nove del 2019. Oltre agli Stati Uniti (3,73%), ci sono Grecia (2,68%), Estonia (2,33%), Regno Unito (2,32%), Polonia (2,31%), Lettonia (2,27%), Lituania (2,13%), Romania (2,07%), Francia (2,04%), Norvegia e Slovacchia (2%). Persino i governi greci, insomma, mentre erano intenti a tagliare salari e sanità su pressione del capitale nazionale ed europeo, aumentavano i miliardi spesi per le esigenze dell’alleanza interstatale euroatlantica e partecipare alle missioni imperialiste.
I fondamenti giuridici dell’intervento italiano
Iniziamo ad analizzare ora, più specificatamente, il rapporto dell’Italia con la NATO e i fondamenti giuridici di questo rapporto. È importante farlo perché il decreto del Consiglio dei Ministri che garantisce aiuti militari al governo di Kiev, oltre ad essere un aiuto più alle industrie delle armi che ai cittadini ucraini, mette a serio rischio l’incolumità della popolazione italiana. Il decreto deciso da Draghi si basa sugli articoli 3 e 4 del Trattato nordatlantico che consente agli Stati di resistere a un attacco armato agendo insieme “ogni volta che, nell’opinione di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata”. Il riconoscimento di questi due articoli come perno della politica estera italiana è da molti, a ragion veduta, percepito in contrasto con la Costituzione e con la legge vigente. La norma che regola la cessione di armi è, in effetti, la n. 185 del 9 luglio 1990, la quale recita, al comma 5 dell’articolo 1:
L’esportazione ed il transito di materiali di armamento, nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono vietati quando siano in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali.
L’ambiguità del passaggio appena citato, il quale vieta la cessione di armi nei casi – come quello ucraino – in cui metta in pericolo la sicurezza dello Stato e sia in contrasto con la Costituzione (la quale ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie) è risolta con la prevalenza del richiamo, all’opposto, agli “impegni internazionali”, evidenziato nel comma successivo:
L’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono altresì vietati: a) verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere.
È in virtù di questo passaggio che oggi possono essere in partenza dall’Italia verso l’Ucraina già 1.350 soldati appartenenti ai corpi speciali (lagunari, paracadutisti, alpini, incursori del Comsubin) a potenziamento delle forze già presenti in Romania e Mediterraneo orientale, che può essere effettuata la proroga per tutto il 2022 della presenza avanzata e rafforzata in Lettonia (enhanced Forward Presence) di 250 militari e 139 mezzi terrestri e che può essere attivato un dispositivo per la sorveglianza navale e l’attività di raccolta dati nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero, attraverso l’impiego del numero massimo di 235 unità di personale.
Le basi NATO e la Costituzione
La stessa esistenza delle basi NATO in Italia e le modalità giuridiche con le quali sono state istituite mette in luce, esattamente come la confusione normativa sopra richiamata, l’ipocrisia delle istituzioni italiane e dei fautori del rispetto della Costituzione borghese, già frutto di un compromesso di classe tra istanze dei partiti operai e dei partiti padronali, la quale viene invocata quando l’obiettivo è fare rispettare il diritto di proprietà, i trattati europei e il pareggio di bilancio (aggiunto in Costituzione dieci anni fa) e viene ignorata quando vengono invocati il diritto alla salute universale, alla rimozione degli ostacoli sociali, al lavoro ben retribuito, alla pace.
In Italia ci sono basi Usa/NATO (la cui differenza è labile, visto che dentro le basi NATO ci sono settori riservati agli Usa) il cui numero oscilla, a seconda di quale infrastruttura viene considerata “base”, tra circa 60 e circa 120. La Sicilia, in particolare, è di fatto una colossale portaerei americana. Ora, nell’ordinamento italiano esistono due procedure per la stipulazione degli accordi internazionali: una procedura solenne ed una procedura semplificata. La prima – la procedura solenne – comporta che l’accordo venga sottoposto al Parlamento (secondo l’articolo 80 della Costituzione), al quale spetta autorizzare il presidente della Repubblica alla ratifica (articolo 87, 8° comma) mediante una legge ad hoc. La procedura semplificata – che non è prevista esplicitamente dalla Costituzione ma che si è diffusa nella prassi – comporta invece che l’accordo entri immediatamente in vigore non appena sottoscritto dai rappresentanti dell’esecutivo. La legge dell’11 dicembre 1984, n. 839, prescrive comunque la pubblicazione degli accordi, inclusi quelli in forma semplificata.
Mentre per quanto riguarda i quartieri interealleati si è sempre proceduto mediante la stipulazione prescritta dagli articoli 80 e 87, 8° comma della Costituzione, in relazione alle basi tale procedura è stata spesso disattesa e taluni accordi non sono stati resi pubblici o sono stati resi pubblici tardivamente. Infatti, il trattato fondamentale che disciplina lo status delle basi americane in Italia è l’Accordo bilaterale sulle infrastrutture (Bia), stipulato tra Italia e Stati Uniti il 20 ottobre 1954. Tale trattato, noto agli specialisti come ‘Accordo ombrello’, non è mai stato pubblicato. Secondo un autorevole commentatore, esso fu firmato dall’allora ministro italiano degli esteri (Giuseppe Pella) e dall’ambasciatrice Usa in Italia (Clara Booth Luce): si tratta quindi di un accordo in forma semplificata. Tra l’altro, esso stabilisce il tetto massimo delle forze Usa che possono stazionare in Italia. L’accordo è inoltre corredato di annessi tecnici, relativi alle singole basi. L’altro accordo che disciplina la presenza dei contingenti militari in Italia e l’uso delle basi è il Memorandum d’intesa tra il ministero della difesa della Repubblica italiana ed il dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, relativo alle installazioni/infrastrutture concesse in uso alle forze statunitensi in Italia (il cosiddetto Shell Agreement). Tale accordo è stato concluso il 2 febbraio 1995 ed è stato sottoscritto dal sottocapo di Stato maggiore della difesa e dal vice-comandante delle Forze armate statunitensi in Europa. Anche in questo caso si tratta di un accordo in forma semplificata, che non fu pubblicato, nonostante la vigenza della L. 839/1984. L’accordo in questione e i relativi annessi furono resi pubblici soltanto nel 1998, dopo la tragedia del Cermis, dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Lo stazionamento dei contingenti NATO e americani si situa dunque fuori da qualsiasi procedura costituzionalmente prevista.
Inoltre, la compatibilità tra NATO e il noto art. 11 della Costituzione che vieta la guerra come strumento non di difesa deve essere valutata non solo in relazione al trattato NATO e alla concessione di basi, ma anche agli sviluppi posteriori, in particolare tenendo conto del Documento di Washington del 1999 e della nuova dottrina strategica. Il Documento del 1999, pur non essendo un trattato in senso formale, ma un semplice strumento di soft law non giuridicamente vincolante, amplia i poteri della NATO e codifica le missioni “fuori area”. Secondo il Documento di Washington, le operazioni che possono essere intraprese e che sono chiamate “operazioni non-Articolo 5”, per distinguerle da quelle in legittima difesa collettiva a favore di uno stato membro, comprendono il peace-keeping, altre operazioni sotto “l’autorità” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o sotto la “responsabilità” dell’Osce, le peace support operations (comprensive sia del peace-keeping sia del peace-enforcement), gli interventi umanitari e gli interventi a favore di uno stato non membro della NATO, che sia stato oggetto di attacco armato. Anche il post-conflict peace building è ormai entrato a far parte delle competenze non- Articolo 5. Il carattere extra-costituzionale degli accordi per la costruzione delle basi militari e quello ipocrita del Documento di Washington riflettono chiaramente la deliberata ambiguità delle istituzioni nazionali e sovranazionali attuali, che utilizzano da sempre il doppio binario quando c’è da accondiscendere le esigenze imperialistiche di chi ha il potere economico dentro la propria sfera d’influenza. Da un lato bisogna salvaguardare la percezione del carattere “pacifista” del mondo europeo e occidentale, dall’altra c’è la necessità di lasciare sempre la giustificazione giuridica per l’intervento armato mascherato da intervento umanitario.
Il peso politico dell’industria delle armi
Dare uno sguardo alle dinamiche delle industrie degli armamenti aiuta, anch’esso, a comprendere l’ipocrisia e l’inaffidabilità del sistema politico europeo e mondiale. Gli stessi governi e le stesse istituzioni intergovernative, che parlano costantemente di pace, tollerano o sono artefici da sempre delle pratiche più contraddittorie e abominevoli e sono infarcite di un lobbismo che lascia pochi margini ad una politica di convivenza pacifica tra i popoli in un mondo dove le industrie degli armamenti dettano la ratio nella distribuzione delle armi e hanno una certa influenza, perciò, nelle scelte di politica estera, come parte degli interessi delle classi dominanti nella competizione internazionale.
La Russia è stata, intanto, assieme agli USA, il principale fornitore mondiale di armi per anni, anche nel periodo delle cosiddette sanzioni, rappresentando nell’ultimo decennio il 23% delle esportazioni mondiali (gli USA ne rappresentano il 33%). Le sue esportazioni sono state principalmente indirizzate verso l’Asia, ma ha avuto un 12% di esportazioni anche verso l’Africa, un 8% verso il Medio Oriente e verso il Sud America il 34%. Soprattutto, è interessante constatare che dal 2012 al 2014 la Russia ha ricevuto il 17% delle esportazioni di armi ucraine, anche durante il conflitto nel Donbass in Ucraina. Inoltre, un’importante percentuale di armi russe è prodotta con componenti ucraine.1 Un elemento che sarebbe totalmente illogico se non fosse proprio della particolare “razionalità” del capitalismo. Tornando al nostro Paese, alcune vendite di armi italiane violano addirittura il Codice di Condotta europeo e la Posizione Comune del 2008/944/PESC che definisce norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologie e attrezzature militari. In modo particolare c’è una evidente violazione del secondo degli otto punti che caratterizzano la Posizione Comune. Esso recita come non si possano vendere armi ai paesi che non rispettano i più elementari diritti umani o dove c’è il rischio che possano essere utilizzate per fini di repressione interna. È evidente che una nazione che si tiene a galla con l’export e i salari bassi e in cui, come vedremo, le industrie degli armamenti sono tra gli esportatori più legati ai poteri di palazzo, non può permettersi di essere coerente con la propria retorica pacifista.
Il problema del lobbismo nella politica del riarmo sembrerebbe, in effetti, centrale: secondo il Registro per la Trasparenza del Parlamento Europeo e della Commissione, le sole quattro aziende con più volume di trasferimenti di armi hanno nel complesso quattordici lobbisti professionisti accreditati. Considerando che tutte e quattro le società sono anche membri diretti dell’ASD (Aerospace Defence Industries Association of Europe che esiste dal 1950 e svolge un ruolo chiave nel lobbismo dell’Unione Europea), i lobbisti salgono a venticinque, visto che lo stesso personale rappresenta gli interessi diretti e indiretti delle industrie in quanto trattasi di un’organizzazione “ombrello”. Considerando anche il continuo passaggio di parlamentari europei e commissari europei dal ruolo istituzionale a quello di lobbista diviene chiaro che gli interessi di chi produce armi siano un elemento rilevante nelle politiche estere UE. La Leonardo S.p.A., le cui azioni hanno avuto un balzo considerevole dall’inizio della crisi ucraina, è membro dell’ASD, dell’EOS (organizzazione gemella all’ASD), oltre che di Confindustria. Si stima che l’azienda spenda circa 350.000 euro annui in attività di lobbying.2 Un quadro che rappresenta un sistema multinazionale integrato di scambi e influenze in cui i padroni delle industrie degli armamenti hanno un ruolo non marginale. La guerra, in questo contesto, è un business, e se da un lato ci sono gli interessi delle multinazionali dell’energia (che a parole provano a smarcarsi dall’aggressione di Putin ma, ovviamente, non possono fare diversamente per questioni di marketing) dall’altro ci sono quelli di Leonardo e i suoi azionisti. Un elemento chiave per una vera politica di pace nel mondo e per evitare di esacerbare le tensioni internazionali sarebbe allora la gestione pubblica popolare di tutte le imprese coinvolte nella produzione di armi e sistemi di difesa e il loro utilizzo solo per la difesa pubblica e non per esigenze di bilancia commerciale.
Infine, in un momento in cui la partecipazione alla guerra è correlata all’aumento dei costi dell’energia fossile (facendo ricadere sulla popolazione il costo della competizione commerciale e bellica tra poli imperialisti e delle relative sanzioni) è interessante notare come proprio qualche mese fa Greenpeace aveva pubblicato uno studio in cui giungeva alle conclusioni che quasi tutte le recenti missioni militari Eu e NATO all’estero sono state finalizzate alla tutela delle fonti fossili delle proprie compagnie (mentre si evita di pianificare realmente, con gli stessi soldi, una vera transizione ecologica).
Secondo lo studio, infatti, quasi due terzi delle missioni militari dell’UE sono legati ai combustibili fossili; nel 2021 l’Italia ha stanziato circa 797 milioni di euro alle missioni sui combustibili fossili, la Spagna quasi 274 milioni di euro e la Germania non meno di 161 milioni di euro. La loro spesa complessiva è di oltre 1,2 miliardi di euro; negli ultimi quattro anni (2018–2021), Italia, Spagna e Germania hanno speso oltre 4 miliardi di euro in missioni che servono principalmente o in misura significativa allo scopo di garantire militarmente le importazioni di greggio e gas; “Atalanta” (missione UE antipirateria nel Corno d’Africa), “Irini” e “Mare Sicuro” (rispettivamente missioni UE e Italia nelle acque al largo delle coste libiche), “Sea Guardian” (missione NATO nell’Est Mediterraneo), le missioni antipirateria italiana e spagnola nel Golfo di Guinea, le operazioni NATO e “Global Coalition Against Daesh” in Iraq e Siria e “EMASoH” (European Mission at the Strait of Hormuz) sono state missioni con lo scopo di garantire il flusso di petrolio e gas.
Il conflitto ucraino arriva dunque, in conclusione, in un momento storico in cui gli aumenti degli scambi commerciali di armamenti non conoscono soluzioni di continuità e non rispondono a logiche di “mantenimento della pace” – per usare il lessico della NATO – ma a quelle del maggiore profitto a costo di fomentare le tensioni verso la guerra che è connaturata al modo di produzione capitalistico. Questo è favorito dall’innegabile peso dell’influenza lobbistica a livello europeo di Leonardo e delle altre industrie delle armi, le quali legano i loro profitti anche alla difesa delle fonti energetiche delle compagnie nazionali del petrolio e del gas, esacerbando le contraddizioni inter-imperialistiche internazionali. In questo quadro la crescita della voce della spesa militare dei paesi NATO e la decisione del governo Draghi per la cessione delle armi al governo ucraino sono la logica conseguenza di rapporti di forza ormai inesorabilmente a favore della prosecuzione con il conflitto delle tensioni politiche accresciute, negli scorsi anni, in Europa dell’est per via della necessità di controllo di importanti fette di mercato e risorse minerarie ed energetiche. Il pericoloso e provocatorio accerchiamento della Russia da parte della NATO, perpetrato gradualmente a partire dagli anni ’90, è il modus operandi della costellazione imperialistica euroatlantica che consegue da questi elementi, e gli escamotage legali e Costituzionali che le istituzioni italiane trovano per giustificare il supporto allo scontro tra i diversi poli del capitale monopolistico rappresentano egregiamente la falsa retorica e l’ipocrisia del padronato italiano e dei partiti che lo rappresentano o che lo hanno rappresentato, pacifisti nelle parole per giustificare nei fatti la difesa a mano armata dei propri interessi, rendendo il proletariato di ogni paese un bersaglio.
1 – Reforming of Ukrainian Economy: The Urgency and the Priorities, Journal of european economy, di S. Yevhen e V. Kurylyak, 2014.
2 – Il lobbying delle industrie delle armi nella politica di difesa dell’Unione Europea, di Solange Galvez Garcia, 2017.