Vertice USA-Giappone-Corea del Sud: aumentano le tensioni in Asia
Lo scorso venerdì (18 agosto) si è tenuto, a Camp David, un vertice tra i presidenti di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, rispettivamente Joe Biden, Fumio Kishida e Yoon Suk-yeol. Il summit, a detta di Biden, aprirà una nuova era nella partnership trilaterale tra i paesi partecipanti.
Tra le varie intese raggiunte, formalizzate in oltre quindici punti, spiccano gli accordi in materia di difesa: infatti, i tre paesi si impegnano a consultarsi in maniera rapida e a rispondere a eventuali minacce ai propri interessi economici, politici e militari nella regione asiatica, con particolare riferimento alla condizione dello stretto di Taiwan e al possibile trasferimento di armi alla Federazione Russa nell’ambito della guerra in Ucraina. È stata stabilita, in aggiunta a questo, l’organizzazione periodica di esercitazioni militari congiunte.
Viene inoltre previsto un sistema di preallerta in caso di interruzioni nelle catene di approvvigionamento di materiali e minerali di rilevanza strategica, oltre a nuove collaborazioni in campo tecnologico, economico e scientifico. La cadenza del trilaterale è stata fissata annualmente, al fine di fare il punto sulle strategie geopolitiche e «discutere ulteriori cooperazioni», e sarà accompagnato dal vertice tra i rispettivi ministri degli Esteri, della Difesa, del Commercio, dell’Industria e tra i consiglieri alla Sicurezza nazionale.
Il trilaterale si colloca nel preoccupante aumento delle tensioni in Asia, ed in particolare nella regione indo-pacifica. Proprio quest’area è stata oggetto della redistribuzione dello sforzo bellico statunitense nel corso degli ultimi anni: ne sono esempio nuove alleanze militari, come l’AUKUS (tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, con la quale questi ultimi due si impegnano ad aiutare l’Australia a sviluppare e dispiegare sottomarini a propulsione nucleare da dispiegare nell’Oceano Pacifico) e il Dialogo Quadrilaterale di Sicurezza o QSD (tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti con lo scopo di contenere l’espansionismo cinese nella regione dell’Indo-Pacifico).
Alla stipula di queste nuove alleanze, si somma la recente formalizzazione di apertura di nuove basi militari nelle Filippine (che arriveranno quindi al numero di 9 basi nell’arcipelago), a Guam (la prima dal 1952, che potrà ospitare fino a 5.000 marine) e l’espansione della base d’intelligence di Pine Gap, in Australia. Senza contare la costante presenza militare USA nella penisola coreana, intensificando progressivamente le provocazioni, oltre alla Cina, alla Repubblica Popolare Democratica di Corea, con la continua minaccia atomica a partire dal territorio sudcoreano.
La decisione degli USA di orientare la propria presenza militare nell’Indo-Pacifico, a parziale discapito dell’Asia Centrale e del Medio Oriente (come testimoniato dal ritiro delle truppe da Afghanistan e Iraq) è dettata dalla centralità strategica del Sud-est asiatico nella competizione economica e militare con la Cina. Nella regione indo-pacifica è infatti prodotto il 60% del PIL mondiale, e attraverso essa passano le principali rotte marittime del pianeta (basti pensare che solo attraverso lo stretto di Malacca transita il 40% del commercio mondiale). Proprio a questo fine, l’obiettivo evidente degli Stati Uniti è la creazione di un fronte di contenimento dell’espansionismo economico e militare cinese, oltre che per il mantenimento degli equilibri.
Dal canto suo la Cina ha stipulato nel mese di luglio un accordo di sicurezza con le Isole Salomone, che dovrebbe consentire alla Cina di inviare fino a 1.500 agenti di polizia nell’arcipelago con compiti legati alla cybersicurezza e alla vigilanza del territorio. Al contempo cresce la competizione per il controllo di varie isole nel Mar Cinese Meridionale: oltre alla storica contrapposizione con Taiwan, che vede un progressivo inasprimento (è del 19 agosto la notizia di una nuova esercitazione militare della Cina attorno all’isola) oltre che una dura competizione in campo tecnologico, la Cina rivendica il controllo di circa l’80% delle acque della regione, ricche di gas naturale e idrocarburi, anche mettendo apertamente in discussione il diritto internazionale marittimo. Le isole Spratly e Paracelso rappresentano un terreno di disputa aperta con Filippine e Vietnam, mentre la Malaysia ha denunciato in diverse decine di occasioni la presenza non autorizzata di navi cinesi nelle proprie acque territoriali. Allo stesso tempo si rafforza la collaborazione militare navale tra Cina e Russia: risalgono infatti al 10 agosto le ultime esercitazioni militari congiunte tra le due marine nelle acque del Mar del Giappone e dell’Oceano Pacifico.
Va segnalato, inoltre, come anche il nostro paese rappresenti tutt’altro che un mero spettatore passivo nell’aumento delle tensioni nella regione: infatti, oltre a vari accordi economici che l’Italia intrattiene con diversi paesi del Sud-est asiatico, vanno segnalati diversi accordi strategici, come ad esempio la piattaforma trilaterale Italia-India-Giappone. In aggiunta a ciò, nel mese di giugno l’Italia ha inviato il pattugliatore polivalente d’altura Nave Morosini nelle acque giapponesi, nel quadro di una strategia che, a detta dell’ambasciata italiana in Giappone, «rafforza la collaborazione tra Italia e Giappone e testimonia l’impegno italiano in un’area strategica come l’Indo-Pacifico». La nave italiana si trova nell’Indo-Pacifico dallo scorso aprile, assegnata alla protezione della portaerei nucleare Classe Nimitz USS Ronald Regan. L’impegno della Marina nell’area, inoltre, potrebbe prevedere l’invio nel 2024 anche di Nave Cavour.
Se l’inasprirsi delle contrapposizioni tra le principali potenze globali rappresenta un elemento preoccupante per i popoli del mondo, che hanno solo da perdere dall’aumento delle tensioni e dalle crescenti minacce di una guerra generalizzata, anche atomica, non va dimenticata la natura dello scontro in atto: l’ostilità crescente tra i diversi attori in questa fase imperialista di sviluppo del capitalismo mondiale non è affatto legata a mere dinamiche geopolitiche, come alcuni analisti tendono a semplificare; piuttosto, essa è legata alle necessità strutturali dei monopoli delle singole potenze, che scelgono di ricorrere (o di non farlo) a una maggiore aggressività qualora funzionale alla tutela e all’aumento dei propri profitti nella spartizione delle rotte commerciali e delle materie prime su scala globale.