Il test d’ingresso per le professioni sanitarie: un indicatore della deriva classista del servizio sanitario in Italia
Il test d’ingresso per le professioni sanitarie 20231 si è svolto contemporaneamente in tutta Italia oggi 14 settembre alle ore 13:00. È, questa, un’occasione per riflettere sulle tante contraddizioni che caratterizzano il sistema di formazione dei professionisti sanitari nell’epoca della restrizione delle risorse finanziarie per il diritto alla salute e il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Il numero di posti assegnati per il totale delle professioni sanitarie si aggira attorno ai 34.000, superando di mille unità quelli dell’anno precedente (+3,2%), che fa il paio con un numero di posti disponibili in medicina pari a sole 16.904 unità – più esattamente, i posti medicina nelle università statali sono 14.525. Soltanto gli studenti iscritti al test di medicina, quest’anno, sono 72.450, mentre il numero delle domande presentate dai soli aspiranti infermieri nelle università statali è 61.783 (in calo dallo scorso anno, in cui le domande erano 67.704). Nonostante i posti disponibili risultino in aumento rispetto agli scorsi anni – aumento dovuto principalmente all’emergenza pandemica – abbiamo a che fare con dei numeri, frutto di anni di tagli lineari al servizio sanitario e all’istruzione, che riflettono quella che è può essere chiamata “selezione di classe” e che sono oggetto, ogni anno, di contestazioni da parte di organizzazioni politiche radicate tra gli studenti. Il sistema dei test, peraltro, si dimostra ogni volta poco adeguato a garantire una vera trasparenza procedurale, favorendo caos e sotterfugi che poco hanno a vedere con il rigore del quale li si vuole ammantare.
In effetti, il fatto che i corsi di laurea nelle professioni sanitarie siano a numero programmato nazionale non ha nulla a che vedere oggi con una pianificazione razionale della quantità di lavoratori necessari a far funzionare il servizio. Questo è rivelato non soltanto, come vedremo, dal fatto che il numero chiuso così impostato nel contesto sociale attuale favorisce soprattutto chi ha i mezzi per prepararsi (a pagamento) ad affrontare i test e chi ha le relazioni giuste per superarli. Faremo, dunque, una fotografia della situazione circa il reclutamento dei professionisti sanitari nel settore pubblico al giorno d’oggi, i motivi della riduzione dell’attrattività delle professioni sanitarie e il senso politico che caratterizza il numero chiuso e l’imbuto formativo in una società divisa in classi. Abbiamo già parlato diverse volte, su questo giornale, della crisi della professione che sta aumentando a causa dei tagli al fondo sanitario nazionale e alle politiche di flessibilizzazione del personale. Oggi daremo uno sguardo generale ai numeri che rappresentano il problema e trarremo delle conclusioni provvisorie.
Lo stato del personale sanitario oggi in Italia
Al 31 dicembre 2020, come scrive il rapporto Crea sanità uscito lo scorso anno, il servizio sanitario italiano nel suo complesso poteva contare su 730.337 unità di personale, di cui 645.162 assunte a tempo indeterminato, 73.832 assunte in forma flessibile – delle quali 37.903 a tempo determinato – e 11.343 unità di personale universitario. Un numero, si stima, minore di 80.000 unità rispetto a quello necessario solo tra medici e infermieri per fare funzionare in maniera efficiente i distretti sanitari attuali e i Livelli Essenziali di Assistenza stabiliti, con circa l’11% del personale totale che si trova dunque in situazione di precarietà. Rispetto al 2019, per via delle misure di emergenze richieste dalla pandemia, il personale è aumentato in termini assoluti di 48.676 unità (+7,1%), anche se solo la terza parte di tale incremento riguarda il personale a tempo indeterminato, che è aumentato di 14.352 unità. Un lieve allargamento si è verificato, sempre in concomitanza del Covid, anche nelle borse di specializzazione. L’incremento graduale del precariato negli ospedali pubblici, insieme allo shock lavorativo provocato dalla pandemia, ha dato un contributo importante alla disaffezione per le professioni sanitarie e, soprattutto, alla disaffezione per il lavoro di natura sanitaria nel settore pubblico, con concorsi che vengono puntualmente “boicottati” a favore della ricerca di assunzione nel privato, “libero” dalle incombenze più rischiose e pesanti per chi lavora nel settore sanitario, quali l’emergenza-urgenza, che vengono volentieri scaricate al pubblico da chi deve fare profitto.
Dato interessante è, in effetti, quello relativo alla distribuzione del personale medico per tipo di struttura pubblica/privata. Nel corso degli anni aumenta sempre più la quota di medici che lavorano nel settore privato, a discapito della quota relativa al settore pubblico. I valori riportati nei report del Ministero della Salute (Il personale del sistema sanitario italiano, Ministero della Salute) evidenziano come da una percentuale di medici che lavoravano nel privato del 26,6% nel 2017 si sia passati al 28,3% solo 3 anni dopo. A conferma di ciò, come ricorda ancora Crea sanità, ci sono i valori riportati dal Conto Annuale del Tesoro relativi al 2019 ed i dati del 2020 e del 2021 tratti dal database Onaosi che segnalano il persistere di una quota importante (2-3.000 unità l’anno) di dimissioni dal pubblico. Nel 2021 sono state 2.886: ciò significa che in un solo anno il 2,5% della forza lavoro ha deciso di abbandonare il settore pubblico.
L’ambito infermieristico è, dal punto di vista della crisi della professione, molto rappresentativo. Un dato sconcertante del 2021 è che si sono laureati più medici che infermieri, quando invece il rapporto dovrebbe essere perlomeno del doppio a favore degli infermieri (in corsia generalmente il rapporto è due infermieri e mezzo per ogni medico). Questo dato denota il crollo dell’interesse nella professione infermieristica, dovuto alla bassissima attrattività di un mestiere nel quale lo stipendio generalmente percepito non è considerato un riconoscimento adeguato a lavorare, in un ambiente nel quale si è facilmente vittime di burnout e denunce anche penali, potenzialmente 24 ore su 24, 7 giorni su 7, compresi i festivi, in ogni caso con orari e mansioni molto sfiancanti – un discorso che si esacerba per una figura che è divenuta, infatti, ancora più irreperibile, quella dell’ostetrica. In questo contesto, è evidente quanto pesi il divario di retribuzione tra medico e infermiere, uno dei più elevati d’Europa, con una differenza di quasi 2000 euro di stipendio netto al mese. Questo divario, peraltro, si spiega con ragioni storiche interessanti per comprendere il carattere retrogrado delle istituzioni in Italia, presente soprattutto prima della grande stagione delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, e gli strascichi classisti che ancora oggi determina. Mentre negli altri Paesi la laurea in infermieristica ha origini più antiche, in Italia le mansioni da infermiere sono state per decenni monopolizzate dalla figura delle suore, il che ha rallentato sia la cristallizzazione di una categoria professionale vera e propria sia, ovviamente, la sua sindacalizzazione. A cavallo delle mobilitazioni su citate, ci fu poi l’istituzione delle prime scuole di formazione regionale negli anni Settanta. Queste avevano la caratteristica di offrire una moderata retribuzione agli stessi studenti che svolgevano il tirocinio, il che ha permesso a molti proletari di avviarsi alla professione. Con il passaggio graduale al corso di laurea in scienze infermieristiche (dal 1996 la formazione degli infermieri è solo universitaria) sono stati riformati alcuni elementi circa le mansioni e le responsabilità degli infermieri ma, di fatto, il livello retributivo è rimasto in linea con quello tipico della figura di infermiere privo di specializzazione universitaria. La differenza sostanziale rispetto al sistema precedente è soprattutto il fatto che un lavoro di maggiore responsabilità rispetto a prima viene retribuito in maniera quasi equivalente e richiede una specializzazione per la quale, lungi dall’essere retribuiti per la relativa formazione, bisogna investire di tasca propria.
In questo contesto si inquadrano anche le condizioni di lavoro degli Operatori Socio Sanitari i quali, come nel caso degli infermieri e forse di più, si ritrovano a dover scegliere tra un settore privato che punta soprattutto sul dumping salariale verso queste professioni per incrementare margini di profitto ed un settore pubblico che, similmente, inquadra spesso e volentieri questi lavoratori con contratti a tempo determinato e retribuzioni mediocri, a fronte di mansioni spossanti e turni massacranti.
Numero chiuso, imbuto formativo e fuga verso il privato
Stiamo vivendo, oggi, gli effetti di un blocco alle assunzioni nella sanità pubblica e di tagli all’istruzione che iniziano ai tempi della crisi finanziaria degli anni 2008-2010 e si protraggono senza soluzione di continuità fino alla pandemia. Il tetto alla spesa per il personale e la diminuzione del finanziamento statale a scuole e università sono il risultato, tra le altre cose, della priorità conferita all’equilibrio dei conti nella spesa pubblica, la cui entità dipende fortemente dalla possibilità di prendere a prestito capitali privati.
In questo contesto si sviluppa il problema del numero chiuso. Il test di ammissione divenne legge, nello specifico, per medicina così come per gran parte delle facoltà a carattere scientifico, tramite apposito decreto, nel 1987. Solo nel 1999, con la legge 264/99 il governo D’Alema trasformò tale decreto in legge, dichiarata peraltro legittima dalla Corte Costituzionale nel 2013. La svolta verso il numero chiuso fu incoraggiato dalle politiche della Comunità Europea e, poi, dell’Unione Europea, che dalla seconda metà degli anni Ottanta, in concomitanza con la liberalizzazione completa della circolazione dei capitali, delle merci e delle persone, impose a tutti i Paesi membri di assicurare un certo standard qualitativo per l’istruzione universitaria. Uno “standard qualitativo” che, inevitabilmente, in una società divisa in classi, si cominciò a tradurre nella graduale elitarizzazione della formazione e dell’accesso alla professione. L’intera retorica del merito utilizzata dai governi borghesi va, infatti, a scontrarsi con l’evidenza per cui, da un lato, competere in un test d’ingresso per medicina o per le professioni sanitarie comporta quasi sempre il partire da una posizione economica o familiare avvantaggiata, per cui gli studenti con necessità di lavorare durante i mesi di studio o con liquidità insufficiente per poter frequentare i corsi di preparazione privati ai test sono spesso tagliati fuori. Dall’altro lato, il test d’ammissione ha la funzione di calmierare il mercato rispetto ad una quantità di studenti che sarebbe insostenibile di fronte alla scarsità di borse di studio, servizi universitari e locali in affitto disponibili sul mercato a costi tollerabili. Questi elementi, insieme al peso delle tasse e al costo del materiale didattico, contribuiscono a rendere il numero chiuso uno strumento per “depurare” dai ceti popolari un ambiente universitario incapace e non intenzionato a rispondere alle loro rivendicazioni.
Il secondo stadio della selezione di classe coincide con l’imbuto formativo, rappresentato da quei medici iscritti sia a un concorso per le specializzazioni che per medicina generale, che risultino “non vincitori” o non assegnatari di borsa di specializzazione e non iscritti a scuola di formazione in medicina generale e che, allo stesso tempo, non siano in formazione o non abbiano un titolo post-laurea.
L’analisi dei concorsi e l’integrazione delle varie banche dati con l’anagrafica della Fnomceo hanno permesso di calcolare l’entità dell’imbuto formativo, che a novembre 2019 era pari a ben 9000 unità. L’integrazione dei concorsi della medicina generale nell’analisi dell’imbuto formativo ha permesso di connotare la popolazione dei 9000 come “aspiranti specializzandi, medici di famiglia e misti”. Il fenomeno delle borse abbandonate si rivela, poi, come un protagonista e un amplificatore dell’imbuto formativo, assieme allo scarso finanziamento per la formazione. Come scrive Quotidiano Sanità, inoltre, recenti ricorsi vinti dai partecipanti al concorso per l’accesso al numero programmato in medicina porteranno ad una platea di laureati di gran lunga superiore a quella degli scorsi anni e ad invarianza di finanziamento e programmazione ad un aumento dell’imbuto formativo. Le cause dell’imbuto formativo e dei paradossi appena descritti, per cui studenti formalmente “meritevoli” sono destinati a non laurearsi o specializzarsi, si devono ricercare, inevitabilmente, in un insufficiente finanziamento della formazione medica specialistica e della medicina generale.
Il numero chiuso in medicina e nelle professioni sanitarie, oltre a costituire una misura classista per i motivi accennati, entra oggi in contraddizione con la forte necessità di estendere il numero di medici e professionisti sanitari nel nostro Paese. La restrizione del numero di borse di studio per l’accesso alle specializzazioni, poi, presenta al suo interno un’ulteriore paradosso, ovvero il fatto che una delle specializzazioni meno scelte da chi vince una borsa sia medicina d’urgenza, la specializzazione prettamente ospedaliera e “pubblica” che è stata protagonista nella lotta al Covid e che è sempre più abbandonata a favore di specializzazioni spendibili nelle cliniche private, meno soggette a stress e rischi professionali, come Chirurgia Plastica e Ricostruttiva, Oftalmologia, Malattie dell’Apparato Cardiovascolare. Tutto ciò suggerirebbe l’abolizione del numero chiuso prioritariamente in medicina d’urgenza, per fare in modo che i medici non vincitori di borsa siano condotti a specializzarsi in questo ambito. Il fatto che neanche questa accortezza poco onerosa e di buon senso venga presa suggerisce quale sia il vero significato politico del numero chiuso: rendere la figura del medico e del professionista sanitario un bene scarso e diretto ad ambienti sempre più elitari, con medici capaci di farsi retribuire sempre di più e insostenibili per il Servizio Pubblico. Un circolo vizioso che rende la medicina privata sempre più allettante per i pochi professionisti rimasti, a fronte di un settore pubblico sempre più disfunzionale, rischioso e carico di pressioni per i lavoratori.
I vincoli classisti alla ripresa del servizio sanitario pubblico
Lo studio Crea stima la necessità di un aumento di spesa di più di 30 miliardi di euro all’anno (la portata di una legge di bilancio) solo per allineare il SSN italiano al numero di unità di personale presente nel sistema sanitario degli altri stati europei, i quali non rappresentano comunque un modello di universalità. Questo significa che già solo per rendere la sanità pubblica italiana funzionale allo standard di tutela della salute tipico dei Paesi capitalisti contemporanei più avanzati occorrerebbe, da parte dello Stato, uno sforzo finanziario nella spesa sociale che va ben oltre quello che i vincoli del mercato fondato sulla libera circolazione dei capitali oggi permettono ai governi italiani. Il servizio sanitario per come lo conosciamo oggi, inoltre, è stato il risultato di una presa di coscienza popolare che, in concomitanza con le mobilitazioni studentesche e operaie del secondo Novecento, hanno reso evidente la necessità di superare il sistema delle mutue e delle assicurazioni private, a favore di un servizio che puntasse veramente all’universalità.2 Il reflusso di questo tipo di lotte e della coscienza collettiva su questo tipo di problemi ha fatto tornare alla ribalta l’interesse privatistico ed individualistico sia degli imprenditori della salute che dei professionisti privati, i quali molto spesso oggi combinano l’esercizio privato della professione con un ruolo nel settore pubblico, scatenando evidenti conflitti d’interesse e la volontà di mantenere la figura del professionista sanitario un bene scarso e riservato preferibilmente ad una classe sociale. È evidente che la lotta politica contro questi due elementi – i vincoli economici e i vincoli sociali del capitale – sia un fattore imprescindibile per poter tornare a parlare di un avanzamento sia nel diritto allo studio che nel diritto alla salute. I dati citati confermano il legame che esiste tra numero chiuso, imbuto formativo e privatizzazione strisciante della professione sanitaria. L’organizzazione delle rivendicazioni studentesche e delle rivendicazioni popolari per una sanità universale non possono che andare di pari passo.
1 – I corsi di laurea nelle professioni sanitarie sono attualmente 22: Infermieristica, Infermieristica pediatrica, Ostetricia, Educazione Professionale Fisioterapia, Logopedia, Ortottica e assistenza oftalmologica, Podologia, Tecnica della riabilitazione psichiatrica, Terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, Terapia occupazionale, Dietistica, Igiene dentale, Tecniche audiometriche, Tecniche di radiologia medica, per immagini e radioterapia, Tecniche di neuro-fisiopatologia, Tecniche di laboratorio biomedico, Tecniche di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, Tecniche audio-protesiche, Tecniche ortopediche, Assistenza sanitaria, Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro.
2 – Si veda C. Giorgi, I. Pavan, Storia dello Stato sociale in Italia, Il Mulino, 2021.