Khaled El Qaisi scarcerato: la repressione di Israele e il silenzio dei media italiani
È stata divulgata domenica 1 ottobre, la notizia della scarcerazione di Khaled El Qaisi, avvenuta dietro cauzione, con obbligo di permanenza nei territori palestinesi per un’ulteriore settimana e dietro trattenimento del passaporto. Si parla dunque di scarcerazione e non di liberazione. Nell’udienza del 1 ottobre cadeva il termine formale a disposizione degli inquirenti per formulare una accusa in base alle prove raccolte, ma questo non implica che Khaled – al quale è stato ingiunto di rimanere “a disposizione” delle autorità di indagine – sia oggi affrancato di fronte alla minaccia di un nuovo arresto ed allo spettro di una detenzione amministrativa, che in base all’ordinamento israeliano è attuabile senza obbligo di motivazione e rinnovabile di sei mesi in sei mesi.
Nei giorni scorsi, ampia è stata la partecipazione ai numerosi presidi ed alle iniziative che si sono svolte a favore della liberazione di Khaled. Da Palermo a Bologna, da Milano a Lecce, nella giornata di giovedì 28 settembre, centinaia di persone sono scese in piazza contro la detenzione ingiusta del giovane italo-palestinese. Un corteo ha attraversato la Sapienza, l’università presso la quale Khaled è studente di Lingue e Civiltà Orientali, per chiedere un maggiore impegno dell’Ateneo e delle istituzioni tutte nella causa della sua liberazione.
Khaled El Qaisi è stato arrestato dalle forze di sicurezza israeliane il 31 agosto scorso presso il valico di Allenby, mentre in compagnia di sua moglie e del loro bambino di quattro anni attraversava il confine tra Cisgiordania e Giordania, per poi fare ritorno in Italia. Il viaggio nei territori palestinesi era stato da Khaled lungamente desiderato per riabbracciare amici e familiari e per iscrivere il bambino presso la locale anagrafe. Khaled, infatti, ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza nei territori palestinesi della Cisgiordania, prima del trasferimento in Italia, paese di cui è cittadino. Il legame con la sua terra d’origine si esprime nel suo lavoro di ricerca e divulgazione presso il Centro Documentazione Palestinese.
Né al momento dell’arresto né in seguito è stato notificato a Khaled alcun capo d’imputazione formale. Trasportato nel carcere di massima sicurezza di Petah Tikwa, è stato sottoposto a due settimane di isolamento ed i suoi contatti con l’esterno sono stati limitati a due brevi incontri con il suo legale arabo-israeliano, dei quali peraltro i familiari di Khaled ed il suo avvocato italiano non hanno potuto apprendere alcunché, essendo questi incontri coperti dal cosiddetto “gag order” (ordine di bavaglio), che riguarda anche quanto accade in sede di udienza. Sappiamo che Khaled è comparso davanti al giudice con cadenza settimanale, tra il primo ed il ventuno settembre, ma non si conosce il contenuto di queste udienze.
Le norme del diritto israeliano, in aperta violazione del diritto internazionale consentono, come accennato, il trattenimento a tempo indeterminato e senza obbligo di motivazione, oltre che di incardinare il procedimento di fronte ad un tribunale militare, sebbene, in quanto cittadino italiano, Khaled non è dovuto passare da quest’ultimo tribunale. Gli interrogatori a cui Khaled è stato sottoposto quotidianamente sono stati effettuati da personale delle forze armate e dei servizi segreti, nel più aperto spregio del diritto di difesa: infatti la partecipazione del legale è consentita solo nelle udienze. È fondato il timore che gli interrogatori si siano svolti in condizioni tali da alterare la capacità di autodeterminazione, da minare la libertà morale dell’individuo e, in generale, tali da causare stress psicofisico. L’arbitrarietà delle norme israeliane si fonda su un potere di fatto che scaturisce dallo stato di occupazione militare dei territori palestinesi – spingendosi oltre, Khaled infatti è stato arrestato nei territori che occupa ai confini con la Giordania – e di oppressione armata del popolo palestinese. La Corte suprema israeliana legittima i “metodi fisici di interrogatorio”, esentando i militari e gli uomini dei servizi di sicurezza da ogni responsabilità in merito ai reati di tortura e maltrattamenti durante gli interrogatori quando si suppone che il sospettato sia a conoscenza di vaghe “minacce per la sicurezza di Israele”, affermando così una prassi di vessazioni e violenze, molto spesso ai danni di detenuti minorenni.
L’assenza di un obbligo di motivazione degli atti impedisce naturalmente la loro ricorribilità, come l’assenza di un’imputazione formale mina alla base l’elementare diritto alla difesa. In questo modo l’accusato si trova alla mercè di una autorità dotata di un potere pressoché illimitato, in una situazione che si potrebbe definire kafkiana.
Il centro per interrogatori di Petah Tikwa, dove Khaled è stato trasportato in seguito al suo arresto, è tristemente noto tramite le testimonianze di numerosi ex detenuti. Tali testimonianze ci restituiscono una realtà fatta di maltrattamenti e vessazioni, di condizioni igieniche degradanti, assenza di cibo o cibo di pessima qualità, privazione del sonno, interrogatori quotidiani e di durata estenuante, utilizzo dell’isolamento come pratica di tortura, in celle minuscole, dal soffitto basso e totalmente prive di finestre. Molti testimoni hanno riferito di aver sostenuto gli interrogatori ammanettati ad una sedia ancorata al pavimento, con le gambe legate alle gambe della sedia, rimanendo in questa posizione dal mattino alla sera. Gli stessi hanno raccontato di insulti, minacce, di violenze fisiche e verbali, di minacce contro le loro famiglie e di una prassi generale tesa a porre il detenuto in una condizione di paura e angoscia costante. L’esistenza di centri detentivi per prigionieri palestinesi come Petah Tikwa è uno degli esempi più lampanti di come la brutale occupazione militare israeliana miri a piegare la popolazione araba soggiogandola ad una violenza arbitraria per spezzarne il morale.
L’arresto illegale di Khaled El Qaisi si inscrive nel quadro di una intensificata repressione da parte del governo razzista e colonialista di Israele contro studiosi, intellettuali e cittadini comuni colpevoli di promuovere la cultura e l’identità palestinese nell’esodo che ha colpito il loro popolo. È noto l’arresto di Fayez Sharary, cittadino del Regno Unito, avvenuto nel 2016 in circostanze analoghe a quello di Khaled, mentre risale al 2022 il rapimento e di Salah Hamouri, cittadino francese sottoposto a detenzione amministrativa e rilasciato dopo molti mesi previo il ritiro della residenza e dei documenti. Il disegno del governo israeliano sembra quello di intimidire i palestinesi all’estero per poi recidere le radici che li legano alla loro terra d’origine, silenziando in questo modo le voci del dissenso anche a livello internazionale. L’obiettivo ultimo del governo dell’apartheid è quello di cancellare un’identità, distruggere relazioni, soffocare il senso di appartenenza ad una patria, infondere paura e scoramento nel popolo assoggettato che, tuttavia, resiste.
A fronte di tutto questo, suonano vergognose le parole del ministro degli esteri Tajani, il quale interrogato sul caso El Qaisi ha affermato che l’Italia “non intende interferire con le attività giudiziarie” di un paese straniero, come se il paese straniero in questione non fosse noto per le pratiche illegali di arresto e carcerazione. Nella bieca indifferenza del governo italiano di fronte al rapimento e alla detenzione in spregio ad ogni norma di diritto internazionale di un cittadino italiano all’estero si intravedono due idee aberranti: l’idea razzista per cui un cittadino italo-palestinese è “meno cittadino” di un italiano “al cento per cento”; l’idea dell’incontestabilità dell’operato di Israele, feroce avamposto dell’imperialismo nel cuore del Medio Oriente.
Sempre a livello istituzionale, è apparso del tutto insufficiente il comunicato de La Sapienza in cui l’ateneo si è limitato ad auspicare una “rapida e pacifica soluzione della vicenda”, ma non ha avuto il coraggio di menzionare le responsabilità dello stato di Israele, né alcun dettaglio che evidenziasse la gravità della situazione. L’ateneo, inoltre, si è rifiutato di ricevere una delegazione degli studenti in corteo che chiedevano un incontro al rettorato.
Anche la stampa nazionale – salvo poche eccezioni – ha dato alla questione una copertura a dir poco ridicola, con i principali quotidiani che non hanno fatto nessuna menzione della vicenda o l’hanno relegata in qualche trafiletto.
Nonostante l’indifferenza delle istituzioni e della grande informazione, nella società civile sono numerose le organizzazioni e le associazioni che si sono mobilitati per la liberazione di Khaled, unendosi agli appelli del Comitato per la Liberazione di Khaled El Qaisi, dei Giovani Palestinesi d’Italia e stringendosi attorno alla famiglia dello studente. L’unione di queste forze costituisce una rete che può essere capace di esercitare la massima pressione possibile sulle autorità e sull’opinione pubblica. I risultati di questo lavoro dal basso hanno iniziato a vedersi: a seguito della giornata di mobilitazione del 28 settembre, il TG di Mentana, Rainews24 e Propaganda Live hanno trasmesso degli interventi su Khaled El Qaisi, dopo esattamente un mese dalla sua detenzione. Nel frattempo, è stato pubblicato sul Manifesto un appello firmato da numerosi accademici italiani, italo-palestinesi e palestinesi ed iniziative di questo tipo sembrano moltiplicarsi. La mobilitazione studentesca ha portato a questi risultati, il che vuol dire che la lotta paga. La notizia della scarcerazione consente di tirare un sospiro di sollievo, ma non permette facili ottimismi. La strada potrebbe essere ancora lunga e complicata. Khaled si trova adesso a Betlemme, in casa di parenti, in una situazione sostanziale – ancorché non formalizzata – di arresti domiciliari. Gli eventi dei prossimi giorni saranno decisivi per lo sviluppo della vicenda nella direzione della sua totale liberazione, o di nuove imprevedibili insidie processuali.
Silvio Iammarino