Investimenti in crescita e interdipendenza: gli interessi del capitale italiano in Israele
Il legame economico con Israele come prodotto della strategia imperialista italiana
Quando si parla delle ragioni alla radice del supporto allo stato ebraico da parte dei governi italiani bisogna innanzitutto sgomberare il campo da spiegazioni giornalistiche o di tono moralista. Il motivo per cui l’Italia sostiene Israele non è da ricercare nel fatto che questo costituisca “l’unica democrazia del Medio Oriente”, non solo perchè numerosi fattori – come l’assenza di una Costituzione, l’ambiguità sulla questione del laicismo e l’apartheid inflitto ai palestinesi, riconosciuto internazionalmente – rendono contraddittorio parlare di “democrazia” con riferimento a Israele ma anche perchè l’Italia coltiva regolarmente rapporti anche con nazioni che hanno un approccio discutibile sul tema dei diritti umani e politici, come l’Arabia Saudita, il Qatar o l’Algeria.
Alla base dell’appoggio politico e militare a Israele sta perciò, piuttosto, il fatto che i pieni rapporti economici, commerciali e militari con il polo imperialista di UE e NATO si intensificano oggi come strategia prevalente del capitale italiano – com’è evidente dall’adesione a misure rischiose per i profitti della borghesia italiana come le sanzioni alla Russia (sebbene rese innocue, soprattutto per il capitale medio-grande, grazie alla pratica di scaricarle sulle spalle dei proletari), e dall’abbandono del progetto cinese della Belt and Road. In questo quadro, Israele rappresenta una delle maggiori garanzie per la difesa degli interessi economici e militari di tale polo imperialista nell’area mediorientale, fortemente contesa con il raggruppamento dei BRICS, specie a seguito della loro espansione a paesi come Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – pur in un contesto di non sedimentazione definitiva delle alleanze. Il possibile avvicinamento di uno scontro esistenziale tra il polo imperialista NATO-UE e quello dei BRICS conduce le potenze in gioco a compattarsi verso gli alleati che, in caso di escalation globale del conflitto commerciale o militare, sono capaci per ragioni storiche, ideologiche o logistiche di assicurare una maggiore collaborazione o protezione (e questo anche a costo di sacrifici economici nel breve periodo). D’altra parte, il supporto apparentemente incondizionato di Italia, UE e USA a Israele non significa che tutte le scelte di Netanyahu siano accolte con favore dai governi occidentali in quanto, come abbiamo già messo in evidenza in questo articolo, la crescita delle tensioni tra gli stati arabi e Israele va a compromettere una serie di accordi ed equilibri faticosamente raggiunti negli anni ed espongono, come già accennato, le potenze al vertice della piramide imperialista al rischio di un ulteriore conflitto aperto che, anche per questioni di consenso interno, la classe politica europea e americana preferirebbe evitare. Anche per questo, per le decisioni imprevedibili dell’esecutivo israeliano e per la reazione non univoca che queste potrebbero suscitare anche negli alleati di Tel Aviv, la situazione si presenta in continua evoluzione.
Alla luce di quanto fin qui esposto, può essere interessante analizzare i rapporti economici e commerciali che legano l’Italia allo stato di Israele e che, pur in un contesto di bassa interdipendenza e con alcune contraddizioni (Israele è al 58° posto nella classifica degli investimenti esteri italiani), rappresentano un elemento in espansione.
Gli interessi energetici italiani in Israele
Iniziamo col parlare della rilevanza geopolitica della regione per il padronato italiano. Dal punto di vista energetico Israele è un importante competitor dei progetti dell’ENI in fatto di idrocarburi. A seguito della scoperta di importanti giacimenti di gas naturale al largo delle coste, si stima che in Israele ci siano riserve di gas pari a 905 miliardi di metri cubi e le compagnie israeliane si trovano attualmente in una cordata concorrente a quella di cui fa parte il colosso italiano degli idrocarburi. Mentre quest’ultimo, infatti, risulta maggiormente legato a Turchia e Azerbaijan, Israele insieme a Francia e Grecia spinge per il progetto EastMed. In questo senso potrebbe essere letta come una concessione fatta a ENI e all’Italia, nel contesto dell’inasprirsi dell’attacco su Gaza, il fatto che il governo di Netanyahu abbia di recente assegnato a sei società – tra cui, appunto, ENI – dodici nuove licenze per l’esplorazione del gas naturale proprio al largo della costa mediterranea del suo Paese con l’obiettivo, come annunciato dal Ministro dell’Energia Israel Katz, di «diversificare i fornitori di energia e aumentare la concorrenza». A tale scopo, pare che per l’esplorazione e la scoperta di nuovi giacimenti offshore, le società assegnatarie saranno divise in due grandi gruppi e a ognuno sarà assegnata una specifica area di intervento, aree adiacenti al giacimento di gas denominato ‘Leviathan’, uno dei più grandi al mondo dal quale Israele attinge già per il proprio rifornimento interno e per l’esportazione. Nello specifico, alle tre compagnie ENI, Dana Petroleum e Ratio Energies spetterebbe la parte ovest mentre al secondo gruppo, che comprende la multinazionale britannica del petrolio e del gas BP, State Oil Company of Azerbaijan Republic (SOCAR) e NewMed Energy, la restante parte. Le licenze, per di più, dovrebbero avere una durata iniziale di tre anni, prolungabili fino a sette – dipenderà sostanzialmente dai progressi e dalle scoperte, che se insufficienti potrebbero spingere le aziende a rinunciare.
Investimenti diretti a Tel Aviv
In altri settori, specialmente quelli ad alta componente tecnologica, il legame con Israele si fa più solido, anche grazie a strumenti come l’Accordo di Cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica entrato in vigore nel 2002, che si è rivelato in questi anni un potente strumento bilaterale di promozione di progetti e partenariati accademici e industriali. Negli ultimi due anni, scrive il report della Farnesina sulla diplomazia economica italiana, le risorse dell’Accordo hanno consentito di facilitare la mobilità in Israele delle startup italiane grazie al programma “Accelerate in Israel”. In questo scenario, «alcune aziende italiane come Enel e StMicroelectronics, alla stregua di oltre 350 multinazionali straniere, hanno aperto laboratori di ricerca e sviluppo, mentre altre, tra cui Sparkle, Snam e Adler hanno concluso accordi con l’Israel Innovation Authority per sviluppare partenariati industriali con startup israeliane nel settore high-tech. L’esperienza di maggior successo e è stata indubbiamente quella di Enel che in soli tre anni ha aperto un hub tecnologico a Tel Aviv, un “Innovation Lab” a Haifa e si è aggiudicata con “Enel X”, la gara per un nuovo “Innovation Lab” per sviluppare tecnologie per la finanza a BeerSheva, il polo nazionale della cybersecurity».
Da segnalare sono inoltre i legami con TIM, attiva nella posa e nella gestione della connettività sottomarina a fibre ottiche dal 1999, quando è stato posato il primo cavo sottomarino tra Mazara del Vallo e Tel Aviv che costituisce oggi la principale via delle comunicazioni telefoniche tra Israele (e Asia in generale) ed Europa. Edison International, invece, costituisce l’unico operatore europeo ad oggi presente nell’estrazione di idrocarburi, possedendo una quota del 20% nel consorzio per lo sfruttamento dei giacimenti Neta e Roye. Un’azienda molto attiva in Israele è anche Pizzarotti, che nel 2014 ha completato la prima delle nove gallerie per il progetto della nuova linea ferroviaria tra Tel Aviv e Gerusalemme. Nel luglio 2016 sono stati poi inaugurati a Tel Aviv due Innovation hub sostenuti da Intesa Sanpaolo ed Enel. Il legame tra le multinazionali italiane e Israele è, infine, testimoniato dalle parole del generale Claudio Graziano, dall’anno scorso presidente di Fincantieri, il quale si è riferito ai fatti del 7 ottobre parlando di «guerra terroristica asimmetrica senza precedenti». Leonardo, con cui Fincantieri intrattiene una collaborazione strategica, peraltro, dispone di rilevanti capacità produttive in Italia, Regno Unito, Polonia, USA e Israele, operando attraverso società controllate, joint venture e partecipazioni. Sul fronte opposto degli investimenti israeliani in Italia, si segnala che la Ventures, l’azienda compratrice della ex Embraco (una vicenda finita peraltro con un patteggiamento a quattro anni per i vertici di Ventures) costituisce una newco italo-israeliana.
I numeri di un legame sempre più stretto
Vediamo ora i numeri nei quali si sostanziano questi flussi di investimenti e scambi verso lo Stato ebraico, estratti prevalentemente ancora dai rapporti del Ministero degli Affari Esteri e dell’Italian Trade Agency. L’Italia è il quinto fornitore di Israele dopo Cina, USA, Turchia e Germania e il tredicesimo acquirente nel mondo. L’interscambio tra i due Paesi si è attestato nel 2022 a 4,8 miliardi di euro, in crescita del 17,1% rispetto all’anno precedente. La bilancia commerciale tra Italia e Israele, in particolare, ha registrato un saldo positivo favorevole all’Italia di quasi 2 miliardi di euro, anch’esso in crescita del 7,1% rispetto al 2021. Israele è il quinto mercato di destinazione dopo Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Tunisia e Algeria del nostro export in area MENA (Middle East and North Africa), ovvero la regione che si estende dal Marocco, ad ovest, attraversa la fascia nord-occidentale dell’Africa e prosegue verso l’Iran nel sud ovest asiatico. Nonostante in valore assoluto si tratti di numeri relativamente piccoli, come si vede negli ultimi anni gli affari delle imprese nostrane in Israele stanno crescendo in volume e qualità. L’Italia infatti esporta principalmente machinery (25,1% del valore totale), arredo (5,8%), veicoli e componentistica (5,3%), ceramiche (4,9%), agroalimentare e bevande (4,4%), prodotti farmaceutici (4,1%). Le importazioni da Israele riguardano, invece, prodotti chimici e materie plastiche (31%), machinery (15%), combustibili e prodotti della raffinazione (10%), chimica organica (7,8%). Va notato che la voce “concimi” (3,9% del totale import in Italia) ha registrato tra il 2021 e il 2022 un incremento di quasi il 60%, passando da 36,2 milioni di euro a 57,2 milioni di euro in ragione, con molta probabilità, delle difficili condizioni di approvvigionamento da Russia e Ucraina, storici fornitori dell’Italia per questo settore. L’interscambio con Israele cresce, dunque, in risposta della citata polarizzazione dei blocchi imperialisti. Secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale, nel corso del 2022, il flusso di investimenti diretti in Israele ha raggiunto il suo massimo, attestandosi a 27,7 milioni di dollari. Dall’analisi della serie storica, che registra i flussi annuali a partire dal 1970, si evince in maniera evidente un andamento di crescita esponenziale a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con un primo picco raggiunto nel 2000, quando il valore degli investimenti diretti è stato superiore a 8 milioni di dollari. Dopo di allora, l’incremento degli investimenti ha fatto realizzare un secondo massimo storico nel 2006 (14,4 milioni di dollari) e, a seguire, altri ancora nel 2018 e nel 2020 (rispettivamente con 21,5 e 23,1 milioni). Il trend dei flussi degli investimenti diretti in percentuale sul prodotto interno lordo nel corso degli ultimi 5 anni si è attestato intorno al 5%, arrivando al 5,3% del nel 2022: nello stesso anno la media dei Paesi del G7 è stata pari, invece, all’1,8%. Tra il 2001 e il 2016, gli scambi commerciali tra Italia e Israele in generale sono aumentati del 55,3%, le esportazioni italiane del 66,5% e le importazioni del 31,7%. Nel corso degli ultimi 20 anni, lo stock di investimenti diretti esteri globale in Israele è peraltro quintuplicato, superando i 100 miliardi di dollari, con forte prevalenza delle potenze UE. Sono dati che confermano quanto detto sopra sull’accentuarsi del legame politico ed economico con lo Stato ebraico. Sempre il rapporto tecnico pubblicato dal Ministero degli Affari Esteri, d’altronde, descrive quanto i rapporti economici e produttivi con Israele si siano recentemente diversificati. Le opportunità offerte alle imprese italiane, infatti, «non si limitano solo al settore dell’innovazione ma si estendono anche, tra gli altri, ai comparti idrico, elettrico, delle infrastrutture stradali e ferroviarie, del sistema portuale e aeroportuale» e, «secondo il piano “Invest in Israel” elaborato dal Ministero dell’Economia israeliano, nel periodo 2019-2022 hanno avuto luogo 204 gare d’appalto per un valore complessivo di 47 miliardi di euro, 67 delle quali nel settore dei trasporti (29 miliardi) e 57 nel comparto delle opere idriche ed energetiche (10 miliardi di euro), con molti di questi progetti realizzati in partenariato pubblico-privato». Gli interessi imprenditoriali italiani in Israele si sostanziano anche in accordi fatti attraverso l’università pubblica, in ottemperanza all’aziendalizzazione della pubblica istruzione. A oggi, nell’ambito dell’Accordo Intergovernativo di Cooperazione Industriale Scientifica e Tecnologica siglato nel 2002 , sono stati finanziati oltre 200 progetti, di cui 74 di ricerca di base sviluppati da Università ed enti di ricerca e 135 di carattere industriale. Dal 2019 l’Accordo consente anche di promuovere la presenza di startup italiane in Israele e viceversa, attraverso il programma di mobilità ‘Accelerate in Israel‘.
Necessità di profitto ed equilibrio fra potenze imperialiste
A conclusione di questa disamina possiamo sostenere che, oltre alla spiegazione preminente dell’appoggio dell’Italia a Israele che riconduce ciò all’integrazione dei due paesi nel campo imperialista a guida statunitense, va annoverata una tendenza all’approfondimento dei legami commerciali tra i due paesi. Questa tendenza è da leggere, però, come il risultato di un confronto aperto tra i due paesi, come avviene a causa delle dinamiche della concorrenza all’interno di ogni alleanza imperialista ed è suscettibile alle oscillazioni determinate da una condizione internazionale di scontro in continua evoluzione. Per adesso l’appoggio politico italiano ai crimini israeliani sembra essersi rinsaldato, senza che sia messo in discussione da nessuno dei partiti dell’arco parlamentare. Questo potrebbe essere volano per un incremento dei rapporti sotto il profilo economico e commerciale. Tutto ciò, tuttavia, sarà pesantemente influenzato dai prossimi sviluppi dell’ignobile attacco genocida perpetrato nella striscia di Gaza.