Fallout: la guerra e le contraddizioni del capitalismo
Ha debuttato nei giorni scorsi in streaming online la nuova serie televisiva Fallout. Basata sulla saga di videogiochi omonimi, che vanta di 4 capitoli principali tra il 1997 e il 2015 nonché numerosi spin-off, la serie è sviluppata da Jonathan Nolan e Lisa Joy e vede come principali interpreti Ella Purnell, Aaron Moten, Kyle MacLachlan, Moisés Arias, Xelia Mendes-Jones e Walton Goggins.
Ambientata nel 2296, in un futuro post-apocalittico segnato dalla guerra atomica tra USA e Cina comunista (presumibilmente ancora legata al maoismo) scoppiata nel 2077 per il controllo delle ultime fonti energetiche di un pianeta ormai allo stremo, la storia narra le vicende di alcuni personaggi costretti a sopravvivere in una California in preda all’anarchia e alla violenza di bande di selvaggi predoni e criminali. La serie ha l’indubbio merito di coniugare la rappresentazione di un mondo devastato dai bombardamenti atomici e l’estetica retrofuturistica, quella pre-bellica, di una società che, complici la mancata invenzione del transistore e l’enorme sviluppo delle tecnologie nucleari, è rimasta ancorata alla moda e alla cultura statunitense degli anni 1950, in un singolare mix tra progresso scientifico e gusto novecentesco. Tra gli elementi positivi vi è la coerenza con i videogiochi, di cui gli episodi riportano citazioni evidenti.
L’obiettivo di questa breve recensione non è fornire elementi di trama ai lettori, per i quali si consiglia la visione della serie o l’approfondimento della storia introdotta dai videogiochi, ma analizzare una serie di elementi che Fallout fornisce agli spettatori, specialmente nella fase storica attuale in cui lo scontro tra potenze imperialiste rende la guerra, anche atomica, un rischio per tutti i popoli del mondo.
Tra i principali meriti della serie vi è quello di evidenziare l’ipocrisia del modello culturale tradizionale americano, quello di un popolo prospero, legato ai valori della famiglia, della democrazia, della libertà (soprattutto economica), del duro lavoro e di una presunta superiorità etico-morale sui nemici dell’America. Questo paradigma viene smascherato come figlio di una società classista ed elitista, fatta su misura dei ricchi, che anche in un contesto di guerra e catastrofe per l’umanità riescono a prosperare ed elevarsi dal crudele destino dalle masse. La frase pronunciata da Charles Whiteknife, interpretato da Dallas Goldtooth, secondo cui «il sogno americano è una gran presa per il culo» è proprio uno dei punti di svolta nella trama, che permette a Cooper Howard, uno dei protagonisti, di acquisire coscienza.
Di questo ne è un chiaro esempio la popolazione dei Vault, i rifugi antiatomici definiti dai sopravvissuti della superficie «buchi sottoterra dove la gente ricca poteva nascondersi mentre il resto del mondo bruciava», in cui determinati gruppi di popolazione statunitense si erano trasferiti quando lo scenario della fine del mondo appariva ormai inevitabile. Il ruolo, auto-attribuito, di civiltà superiore in virtù dei legami ai valori antecedenti alla guerra, porta gli eredi di questi privilegiati a disinteressarsi del futuro dei sopravvissuti al massacro in superficie, pianificando al contrario di essere essi stessi i fautori della ricostruzione della società a propria immagine una volta abbandonato il proprio mondo sotterraneo.
«La guerra non cambia mai» è una delle frasi più celebri della serie di videogiochi, tanto da essere ripresa anche nella serie televisiva. Per forza di cose, è proprio la guerra uno degli elementi fondanti di Fallout; portatrice della rovina del genere umano, da una parte la guerra introduce uno scontro aperto tra le potenze, dall’altro si riflette sulla politica interna, con una vera e propria caccia alle streghe anticomunista; un atteggiamento che riprende e dipinge in chiave caricaturale il maccartismo fa sì che chiunque non sia allineato alle politiche del governo statunitense sia tacciato di comunismo ed espulso dai luoghi di lavoro e ogni altro ambito della vita pubblica.
Il conflitto, che rappresenta una catastrofe per la gran parte dell’umanità, diventa l’ennesima opportunità di profitto per le maggiori multinazionali degli Stati Uniti, che grazie alla vendita di armi, di rifugi antiatomici e di altre tecnologie auspicano (e, come si scoprirà nella serie, promuovono attivamente attraverso pressioni sul fallimento dei negoziati di pace e lo sgancio delle prime bombe) l’inasprirsi dello scontro proprio per accrescere la propria ricchezza, mantenendo al contempo i propri privilegi attraverso la piena definizione dell’assetto della società del dopoguerra.
La progressione dei flashback di uno dei protagonisti conduce lo spettatore a prendere atto di come la guerra non sia frutto di una scelta dei governi o di eventi accidentali, ma sia tragica conseguenza di un sistema che porta le più grandi aziende del mondo ad acquisire sempre maggior potere, fino a diventare più potenti degli Stati stessi, arrivando a determinare il destino del mondo sulla pelle di miliardi di persone. «Si chiama capitalismo» sono le parole con cui Howard, inizialmente fervente sostenitore della retorica nazionalista del governo USA, avvia il proprio processo di maturazione, fino alla comprensione di come il potere economico delle grandi aziende private avrebbe portato alla fine del mondo.
La metafora utilizzata da un attore amico di Howard accusato per le sue idee di essere un comunista, secondo il quale la società capitalistica sarebbe paragonabile a un film western in cui i rancheri diventano più potenti dello sceriffo, portando alla rovina della comunità, coglie in pieno l’essenza di un sistema «pronto a incendiare il mondo» in cui l’interesse privato prevale sul benessere collettivo.
Perfino il progresso scientifico e tecnologico, nei fatti un monopolio delle 4/5 imprese più grandi del mondo, che avrebbe consentito una rapida ripresa dell’umanità dalla catastrofe, viene in realtà sfruttato per compiere esperimenti scientifici, psicologici e sociali sulla popolazione, sempre con il fine del mantenimento del primato e dei privilegi dei padroni più potenti del pianeta, rallentando la rinascita della società umana.
La costruzione stessa dei Vault, già di per sé ideati secondo una concezione elitista e spartiti tra le principali multinazionali, incarna lo spirito di competizione propria del capitalismo, in cui la spinta progressiva promessa dalla proprietà privata dei mezzi di produzione lascia il posto alla mera conservazione delle élite, che attraverso i Vault mettono in salvo il proprio management e le risorse necessarie al mantenimento del potere.
Fallout rappresenta una serie interessante, che permette di indagare, attraverso la resa drammatica delle loro estreme conseguenze, sui meccanismi di potere che determinano il funzionamento della nostra società sulla base di interessi particolari e spesso opposti a quelli degli strati popolari. Assolutamente non un’opera politica, ma una serie che punta a intrattenere attraverso grafica, effetti speciali e colpi di scena nella trama, permettendo una riflessione anche sulla realtà presente delle cose.