Ascesa della destra e miseria del riformismo: un’analisi critica delle elezioni francesi
La sconfitta della destra alle recenti elezioni legislative francesi, l’aver scongiurato la possibilità dell’insediamento di un governo apertamente razzista e sciovinista, ha riacceso, in Francia e in Italia, un genuino entusiasmo e la convinzione che l’avanzata delle destre più radicali, sancita dalle elezioni europee, possa essere fermata. C’è da rilevare come il risultato elettorale sia espressione di una sana presa di coscienza antifascista che ha portato al voto anche parte dei settori popolari francesi: migliaia di giovani, di immigrati e di proletari che hanno espresso la propria voce non unicamente tramite il voto, occupando le piazze e saldando le lotte di questi ultimi anni con la giusta battaglia contro la destra rappresentata dal Rassemblement National.
Tuttavia, il risultato francese del Nouveau Front Populaire (NFP) non rappresenta, a nostro avviso, una vittoria per quelle masse popolari, né una strategia vincente per contrastare, sul lungo periodo, l’avanzata delle destre scioviniste e fasciste. Alla prospettiva di replicare in Italia, contro il governo reazionario di Giorgia Meloni, un fronte popolare come quello francese ci opponiamo pur non rimanendo indifferenti di fronte alle genuine richieste di chi sente oggi la necessità di un processo di ricomposizione a sinistra che possa rappresentare un’alternativa ai partiti dello schieramento borghese. Ad ogni modo, se a capeggiare questa proposta di unità sono il Partito Democratico e le forze politiche ad esso contigue attraverso l’appello all’“unità antifascista contro le destre”, riteniamo opportuno chiarire il nostro dissenso, dicendo apertamente che questa prospettiva è controproducente, dannosa e ha già dimostrato la capacità di generare pericolose illusioni, distruttivi riflussi e arretramenti per la classe operaia e le masse popolari, in Italia e altrove.
La nostra critica verterà dunque su ciò che è stato ottenuto concretamente in Francia con questi risultati elettorali e, soprattutto, sul programma politico del NFP. Si mostrerà allora il motivo per cui esso rientra pienamente nel paradigma delle recenti proposte socialdemocratiche e riformiste europee e come esse abbiano prodotto una retrocessione dei diritti sociali in diversi Paesi. Infine, si tireranno le somme individuando il pericolo di una riproposizione di un “fronte antifascista” in Italia, genericamente fondato su questa unica rivendicazione, e come questo possa paradossalmente rilanciare l’ascesa delle stesse destre.
1. Alcuni elementi concreti sulla tornata elettorale
Le due tornate elettorali (30 giugno e 7 luglio) in Francia per il rinnovo dell’Assemblea nazionale hanno scatenato una crisi istituzionale probabilmente inaspettata dalla maggior parte della politica e del popolo francese: in questo articolo non ci concentreremo sulle conseguenze della “scommessa” del presidente Macron, che ha convocato le elezioni anticipate dopo il deludente risultato alle europee della sua coalizione elettorale. Nemmeno sulla campagna elettorale della destra e la vittoria “mancata” (bruciante per le destre europee e per quella italiana di governo, a giudicare dai commenti stizziti della premier) della formazione del Rassemblement National (RN) di Bardella – Le Pen, che ottiene il miglior risultato di sempre ma è relegata al terzo posto.
Vale la pena, in ogni caso, ricordare il punto in cui si trovano le istituzioni francesi: nessuno dei tre “blocchi” politici all’Assemblea nazionale ha la maggioranza (289 seggi) per esprimere un governo. Il Nouveau Front Populaire (NFP) si attesta a 178 seggi, Ensemble pour la République (coalizione che esprimeva il precedente governo) perde quasi 100 deputati fermandosi a quota 150, e RN quasi raddoppia i seggi arrivando a 142. È da notare come l’avanzamento del NFP rispetto al risultato dei 131 deputati del 2022 della coalizione Nouvelle Union populaire écologique et sociale (NUPES, praticamente analoga al NFP come componenti) sia in larghissima parte dovuto al più che raddoppio (da 31 a 65) dei deputati del Partito Socialista al suo interno, mentre i deputati di La France Insoumise (LFI, la formazione di Mélenchon) sono invariati (e quelli del Groupe de la Gauche, che comprende anche il PCF, si sono molto ridotti da 22 a 9). Sostanzialmente, il NFP riesce nell’operazione di resuscitare la vecchia socialdemocrazia (sparita nel 2022 con meno del 2%), quella di Mitterrand e Hollande, uno dei pilastri delle politiche antipopolari e delle privatizzazioni giunte al culmine col governo Jospin a fine anni ‘90, spostando molto più al centro l’asse del cartello elettorale rispetto al 2022. Questo rappresenta un paradosso, visto che la percezione pubblica e mediatica della coalizione e del suo programma in questa tornata elettorale sia stata più “radicale” e influenzata dall’immagine di LFI.
Non serve probabilmente la sfera di cristallo per prevedere le mosse di Macron di fronte a questa situazione, da un lato interessato a far rimanere in carica il governo attuale (e precedente) il più a lungo possibile, anche in occasione dei Giochi Olimpici di Parigi, e dall’altro a garantirsi l’appoggio di forze disponibili al compromesso all’interno del NFP e spezzarlo (come già fatto a destra, con la scissione di Eric Ciotti), per valutare la formazione di una maggioranza di governo sostanzialmente attorno alla sua figura, al programma della sua coalizione in nome della “stabilità” e della “responsabilità”. Il NFP, dall’altro lato, si prepara a venire incontro a un’ipotesi simile, proponendo il nome di Lucie Castets, giovane economista sconosciuta al grande pubblico e direttrice delle finanze e degli acquisti della città di Parigi amministrata dal Partito Socialista. La scelta della Castets conferma la volontà del NFP di non voler concedere a La France Insoumise la figura del premier e la volontà da parte di LFI di accettare questa logica.
2. Il programma di NUPES e del Nuovo Fronte Popolare
Mentre i risultati delle elezioni mostrano come la tattica di Mélenchon abbia indotto un discreto rilancio di quegli attori politici moderati responsabili all’assetto che ha prodotto negli anni l’incremento del consenso dell’estrema destra, è dal programma del NFP e dalla linea politica di questa coalizione che bisogna partire per una considerazione nel merito della validità della proposta. Bisogna, in effetti, partire da una premessa: affinché si ottenga un’inversione di rotta rispetto al declino inesorabile dei diritti sociali e della qualità della vita dei proletari che si sta rendendo inevitabile dentro questa fase – avanzata e putrescente – del capitalismo è necessario porre un freno al potere di ricatto e dei padroni. Quante possibilità ha dunque il programma del NFP di inibire la capacità del capitale finanziario-industriale di porre il veto alla spesa sociale dei governi? Quanto viene incontro alla necessità di minimizzare la capacità delle imprese di sottrarre risorse a voci del bilancio pubblico utili alle spese sociali stesse? Quanto sarebbe capace di rovesciare il potere negoziale dei padroni verso i lavoratori nelle singole realtà produttive? Il potere politico del capitale si sostanzia nell’insieme organico di questo strapotere socioeconomico che è oggi garantito, oltre che dal ceto politico borghese nazionale, in particolare da istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea e la Nato. Dalle proposte circa queste ultime cominceremo la nostra analisi, per poi affrontare gli altri aspetti di cui si è fatto cenno. Il programma del NFP è una sintesi e una rielaborazione di quello del 2022 della Nouvelle Union populaire écologique et sociale, come già detto praticamente analoga al NFP come componenti. Anche per questo analizzeremo i due programmi insieme, in quanto il secondo può fornire realisticamente uno sguardo più approfondito sulla linea di classe della coalizione.
a) I programmi del NFP e di NUPES danno molto spazio alle rivendicazioni da portare in Unione Europea. In essi si proclama l’intenzione di abbandonare le rigide regole di bilancio utilizzate per tagliare servizi pubblici, salari e investimenti sociali, di intervenire sulla politica commerciale dell’UE promuovendo un certo “protezionismo ecologico”, di riformare il mercato del lavoro abbandonando la flessibilità “imposta” dall’Unione Europea, di effettuare un controllo sulla circolazione dei capitali e di cambiare lo statuto della BCE in modo che essa possa garantire gli investimenti necessari e il finanziamento diretto del debito sovrano. Si tratta, tuttavia, dell’illusione di poter “cambiare l’unione Europea dall’interno” trascurando il fatto che ciò è precluso dall’attuale assetto politico ed economico, con la maggior parte dei Paesi saldamente in mano ai sostenitori dei Trattati Europei oggi in vigore e una interdipendenza finanziaria e commerciale che non permette nessun margine di trattativa sui pilastri fondamentali della costruzione europea mentre se ne fa organicamente parte. A poco può servire la previsione (per la verità lasciata cadere nel programma del 2024 del NFP) di “disobbedire” in caso di rifiuto della Commissione Europea, confidando nel fatto che la BCE non permetterà il crollo finanziario di un Paese come la Francia: esso non tiene in considerazione che i vincoli dell’UE non sono solo “europei” bensì del capitalismo in quanto tale, con i padroni che impongono – pena l’applicazione di varie forme di boicottaggio e serrata [ ] – continuamente un taglio del salario diretto e indiretto per massimizzare la propria redditività e un incremento della propria rendita. Di fronte a questo limite oggettivo, l’unica proposta di rottura che riteniamo percorribile invece sarebbe, infatti, rompere tout court e unilateralmente con l’Unione Europea e la logica del mercato unico o del ricatto del modello capitalista in generale, che può manifestarsi a prescindere dalle intenzioni della Banca Centrale. L’intenzione di affrontare i “falchi” della Commissione Europea è, peraltro, in contraddizione con la proposta, già presente nel programma di NUPES, di chiedere il recepimento più rigoroso possibile delle regole prudenziali di Basilea III nella legislazione europea in materia di requisiti patrimoniali per le banche e di sostenere attivamente la finalizzazione dell’unione bancaria con la creazione di un sistema europeo di garanzia dei depositi. Si tratta di istituzioni che presuppongono, in effetti, tutto l’impianto in materia di integrazione nel mercato unico (e, quindi, di vincoli di bilancio) che Mélenchon e i suoi alleati vorrebbero mettere in discussione. Per quanto riguarda il rapporto del NFP con l’altra grande alleanza imperialista, la NATO, non solo in questo caso, come nel caso dell’UE, non si mette in discussione l’appartenenza organica a questa istituzione ma si rilancia addirittura l’impegno all’appoggio militare dell’Ucraina nella guerra contro la Russia , non uscendo dunque dalla prospettiva dello scontro tra blocchi imperialisti che tanto sta causando alle masse popolari in termini di costi e insicurezza.
b) Una seconda contraddizione è quella – già presente nel programma di NUPES – che vorrebbe combinare l’istituzione di un polo bancario pubblico “a controllo popolare” con la persistenza di un sistema bancario privato, mettendo entrambi al servizio dello sviluppo delle imprese. Il centro bancario pubblico dovrebbe costituire, infatti, un’alternativa al finanziamento delle imprese da parte di operatori guidati “esclusivamente dalla logica di mercato e dalla redditività”. Le imprese dovranno avere accesso a finanziamenti meno costosi rispetto all’emissione di titoli sui mercati finanziari o ai prestiti delle banche private, incoraggiando le aziende a modificare i propri finanziamenti, andando oltre i vincoli dei mercati finanziari e la logica a breve termine. La coalizione di Mélenchon auspica infatti che “le famiglie e le imprese” accedano a questi servizi bancari di base “a un prezzo accessibile senza il rischio di perdere tutto nella lotteria speculativa”. Infine, si propone di separare rigorosamente le banche commerciali (istituti di credito che erogano servizi bancari e finanziari all’ampia platea costituita da privati cittadini, imprese, enti pubblici, organizzazioni no profit, ecc.) e quelle d’affari (che svolgono attività che ruotano attorno agli investimenti, in particolare su operazioni finanziarie complesse). L’approccio generale è, quindi, quello di porre delle condizioni al capitale finanziario al fine di fare sviluppare meglio quello imprenditoriale. Ci troviamo pienamente all’interno della logica keynesiano-sovranista secondo cui il nemico principale della popolazione è la “finanza speculativa” che impedisce agli imprenditori di svolgere serenamente la loro funzione sociale e nazionale. Una prospettiva che trascura gravemente il fatto che ciò significherebbe comunque garantire agli sfruttatori, alle imprese private, la maggior parte della raccolta del risparmio dei cittadini e, dunque, del potere sociale. Questa impostazione, che ignora peraltro quanto il capitale imprenditoriale e finanziario siano contigui e legati a doppio filo, non contempla l’utilizzo del risparmio pubblico e dell’emissione di moneta in generale solamente per fini di sviluppo sociale sotto una gestione popolare.
c) Garantire la maggiore operatività alle imprese in nome della loro funzione sociale sembra essere un elemento costantemente presente nel programma del NFP, sulla scia di quello di NUPES. Nel primo si giunge a condizionare gli aiuti alle imprese al rispetto dei criteri ambientali, sociali e anticorruzione all’interno dell’azienda. Questo è un altro modo per affermare, paradossalmente, che il sostegno pubblico alle imprese – veri e propri regali pagati dalla collettività – è elargito a condizione che queste rispettino i termini negoziati con la comunità, spesso favorevoli ad esse visto il loro potere economico e che, anche dal punto di vista borghese, dovrebbero rispettare a prescindere dalle regalie. Tra le rivendicazioni si arriva a sostenere persino la necessità di incoraggiare il settore biologico e l’agroecologia con conversione delle aziende agricole al biologico accollandosi il loro debito in un fondo nazionale e garantendo uno sbocco ai prodotti il biologico nella ristorazione collettiva.
d) L’impostazione aziendalistica sin qui perseguita sembrerebbe essere smussata dal punto apparentemente più radicale del programma del NFP. Con esso si intende concedere ai rappresentanti dei dipendenti almeno un terzo dei diritti di voto negli organi di gestione delle società nei confronti degli azionisti, in modo che possano accedere alle informazioni, in particolare a quelle contabili, e alle decisioni strategiche o opporsi a decisioni pericolose e concedere agli eletti del CSE (il comitato economico e sociale) un diritto sospensivo di veto sulle misure gestionali adottate dal datore di lavoro (ristrutturazione, licenziamenti, ecc.). Vi è da dire, innanzitutto, che interessando un numero ridotto di imprese (quelle che posseggono un’assemblea dei soci e un CSE, il che esclude la maggior parte delle piccole imprese) e lasciando in ogni caso il timone delle decisioni aziendali in mano ai padroni, queste misure sarebbero una disposizione di facciata. Ma soprattutto, mantenendo l’esistenza del libero mercato e della concorrenza intra e internazionale fra capitali, le decisioni prese dalle rappresentanze dei lavoratori non potrebbero che seguire le esigenze di competitività che lo stesso mercato pone loro, pena il mettere in discussione la loro stessa esistenza individuale. Sarebbe un metodo “progressista” per legittimare le misure, in termini di salari e mercato del lavoro, a cui il mercato unico e l’imperialismo conduce le imprese.
3. Cos’è la socialdemocrazia e il partito della Sinistra Europea
Ciò che abbiamo analizzato del programma di NUPES e del NFP rientra appieno nella definizione di riformismo e di socialdemocrazia, in quanto tentativo di “migliorare” le condizioni di esistenza della maggior parte della popolazione mantenendo in piedi il modello economico capitalista. Le proposte che abbiano preso in considerazione non coincidono con proposte di “fase” da ottenere attraverso la lotta di classe o il conflitto sociale: sono al contrario l’orizzonte strategico dei partiti che stiamo analizzando. È utile considerare il contesto europeo nel quale questo approccio politico ha conosciuto la sua fortuna negli ultimi tre decenni, soprattutto per sviscerarne gli assunti teorici e dare uno sguardo agli effetti concreti dei governi socialdemocratici nei Paesi in cui questi sono andati al potere di recente. Il maggiore polo politico socialdemocratico e riformista è rappresentato dal partito della Sinistra Europea (e il collegato gruppo all’europarlamento “GUE/NGL”). Questo nasce nel 2004 come risultato finale della coagulazione della sinistra opportunista a livello europeo: le sue origini, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, stanno principalmente in quella linea politica dominante nei partiti ex comunisti che hanno accettato il capitalismo, impostando la propria azione politica per correggerne gli “eccessi”, seguendo una linea di compiacenza e sostegno all’UE.
L’Italia è stata da subito centrale in questo processo di aggregazione, esprimendo nella figura di Fausto Bertinotti (Partito della Rifondazione Comunista) il primo presidente. Alla Sinistra Europea (SE) hanno aderito diverse formazioni politiche tra cui (limitandosi a quelle attualmente esistenti) le più rilevanti sono per la Francia il PCF, per la Germania Die Linke, per la Grecia Syriza, il Blocco della Sinistra in Portogallo, il PCE e la Sinistra Unita in Spagna. Sono attualmente “osservatori” anche Sinistra Italiana e La France Insoumise: quest’ultima si era ritirata da membro durante il governo Hollande in Francia, approfittando del malcontento relativo alle misure antipopolari di quest’ultimo.
In sintesi, la linea politica della SE si basa sulla critica al sistema di sfruttamento del capitalismo, impostata però sulla possibilità di una sua “riformabilità”, con l’aggiornamento continuo di nuove proposte di riforma a favore degli strati popolari. Fondamentalmente questa linea politica si occupa della protezione del capitalismo di fronte alle sue asperità più indigeribili per le classi popolari, garantendo la lunga durata di questo sistema anziché contribuire ad abbatterlo, impedendo l’ascesa di posizioni più radicali e rivoluzionarie. La teoria economica prevalente è quella della denuncia del “neoliberismo”, del “sistema finanziario”, a cui attribuisce la crisi capitalista, contrapponendo ad esso un modello “popolare” di capitalismo “buono”, di co-gestione, di condivisione dei profitti tra capitalisti e classe operaia, di decentralizzazione della produzione e ritorno verso forme economiche meno “finanziarizzate” e rassicuranti. Questa impostazione maschera il fatto che i più evidenti e impresentabili fenomeni del capitalismo in crisi sono parte integrante di questo sistema, non “deviazioni” che si possono correggere.
La SE, infine, considera l’UE una conquista dei popoli, e lotta per la riforma dei suoi meccanismi, affermando che i suoi strumenti, come il Parlamento Europeo, la Commissione, la Banca Centrale possano trasformarsi in enti protettori degli interessi popolari semplicemente imponendo una forma diversa di “gestione”. Per quanto riguarda la NATO auspica un suo utopico “scioglimento” concordato e non si pone il problema della lotta concreta per il disimpegno dei singoli Paesi europei dalla stessa. Altra caratteristica fondamentale della SE è la retorica anticomunista, fatta di riferimenti alla teoria truffaldina dei “totalitarismi”, allo sforzo continuo di presa di distanza dallo “stalinismo” e dalla “dittatura sovietica”. Volgiamo lo sguardo adesso a tre esempi concreti dell’applicazione della linea socialdemocratica alle realtà europee. Essi riguardano la Grecia, l’Italia e la Spagna. Il partito che menzioneremo per l’Italia, il M5S, pur non essendo organico alla storia della SE, fa parte del suo gruppo parlamentare e se ne dimostra affine dal punto di vista ideologico, come vedremo.
La Grecia – Ad Atene, la vittoria di Alexīs Tsipras con la formazione Syriza nel 2014 aveva suscitato – e non solo in quella nazione – grandi aspettative rispetto alla rottura con il paradigma economico dell’Unione Europea. Diverse liste ispirate a quell’esperimento sorgevano in giro per il continente. Ciò che Syriza prometteva erano una serie misure sovrapponibili al programma odierno di La France insoumise e in un Paese come la Grecia, oberato dal debito pubblico, un debito di classe creato soprattutto come conseguenza del mastodontico indebitamento privato delle imprese locali e della necessità dello Stato centrale di sopperire allo sconvolgimento sociale conseguente alla crisi di queste ultime, la prospettiva di rifiutare i programmi di aggiustamento e i tagli ai servizi prospettati dalla Commissione Europea appariva estremamente allettante. La Grecia era stato il primo Paese colpito dalla così denominata “crisi dei debiti sovrani” europea, a conseguenza della crisi finanziaria globale del 2008, e da allora era – come continua ad esserlo oggi – attenzionata dalla borghesia europea e greca stessa, che mira a recuperare competitività distruggendo il salario diretto, indiretto e differito. Il problema di Syriza è stata la totale assenza di una prospettiva di classe e di una strategia di lotta concreta e materiale contro il capitale nazionale e internazionale. Una volta svoltosi il noto referendum popolare del 2015, con il quale la popolazione rigettava l’ennesimo piano di tagli della Commissione Europea, il governo non possedeva nessuno strumento sociale, istituzionale o tecnico per sganciarsi dalla dipendenza dal grande capitale e dall’Unione Europea – non possedendo neppure l’intenzione di farlo. L’unica strada possibile a fronte dell’ultimatum da parte della Commissione Europea, per la quale l’unica alternativa sarebbe stata l’uscita della Grecia dalla moneta unica, fu la completa capitolazione politica alle misure reazionarie dell’Unione Europea, con un taglio di servizi e salari addirittura maggiore rispetto a quelli del governo precedente. Oggi Tsipras ricopre un ruolo marginale nell’arco politico greco, è stato sostituito come segretario del suo partito e il governo ellenico è retto da otto anni dal conservatore Kyriakos Mītsotakīs.
L’Italia – La parabola del Movimento 5 Stelle in Italia è stata meno drammatica ma, per certi versi, simile. Organizzazione interclassista e cresciuto sul piano elettorale sulla scorta della protesta contro la responsabilità politica delle conseguenze della crisi, in particolare a seguito delle larghe intese che hanno portato al governo Mario Monti prometteva, oltre all’abolizione dei privilegi del ceto politico, un sostanziale incremento del salario indiretto e dei sussidi al reddito e un parziale ritorno allo stato sociale e all’interventismo statale nell’economia tipico della Prima Repubblica. Approccio che si è andato immediatamente a scontrare, una volta raggiunto il consenso da parte di un italiano su tre nel 2018 e ottenuta la possibilità di partecipare a un governo, con la decisione di comporre l’esecutivo con la Lega e con la fine dei margini del riformismo e la necessità di seguire, nella fase putrescente del capitalismo, le necessità di capitalizzazione e profittabilità del capitale. Così, mentre il governo Conte I ha contribuito a istituire il repressivo Decreto Sicurezza e ha tradito qualsiasi aspettativa di riforma sociale sostanziale se si eccettua il Reddito di Cittadinanza, il governo Conte II ha gestito la crisi pandemica in maniera completamente classista. Solo nei primi nove mesi di pandemia del 2020, ad esempio, alle imprese sono andati 67 miliardi sotto forma di agevolazioni ed esenzioni fiscali, contributi a fondo perduto e garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari, uno stanziamento che oggi la classe lavoratrice sta pagando attraverso imposte e tagli attuati per moderare la crescita del debito pubblico. È una cifra pari al 60% delle risorse stanziate, quota che fa impallidire il 10% destinato ai lavoratori dipendenti e autonomi, e il 26% dedicato alla Cassa integrazione. Ancora, il governo Conte II ha mantenuto leggi finalizzate a depotenziare le lotte operaie come lo stesso Decreto Sicurezza e tutti gli impegni presi con la NATO: a drenare risorse da servizi pubblici e salari, nel 2021 le spese militari italiane si sono aggirate intorno ai 25,6 miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 24,1 miliardi del 2020 e ai 22,5 miliardi del 2019.
La Spagna – Vogliamo citare come ultimo esempio il secondo governo di Pedro Sanchez (da qualche mese in carica per un terzo mandato, nonostante una flessione del suo blocco di centro-sinistra). Esecutivo che si formò a gennaio 2020 e resse su una maggioranza di centro-sinistra formata da PSOE/PSC, Podemos, IU-PCE, con l’appoggio esterno/astensione di alcuni partiti autonomisti, è stato spesso preso a prestito come esempio di coalizione di sinistra genuina e di successo (più o meno come il NFP oggi) da un numero imprecisato di partiti “a sinistra del PD” in Italia. È quindi importante chiarire cosa si nascondeva dietro la retorica redistributiva di quell’esecutivo, che non è mai realmente uscito dall’illusione della riformabilità, che dietro misure di facciata ambivalenti ha celato gli interessi della borghesia di modernizzare il paese. Quel governo, innanzitutto, si è impegnato a ridurre il deficit al 3% entro i prossimi anni, come un qualsiasi governo europeo dentro il mercato unico e le cifre della spesa pubblica per alleviare gli effetti della crisi sui lavoratori e sui settori popolari sono impallidite rispetto ai miliardi spesi per salvaguardare l’attività delle aziende, per tutelare i profitti dei padroni, soprattutto di quelli più grandi. Il governo Sanchez ha poi incrementato i contratti a tempo indeterminato, ma si è trattato di poco più che un escamotage semantico: la riforma del lavoro ha stabilito che, per quanto riguarda i contratti «para obra o servicio determinado», al finire dell’opera per la quale il lavoratore presta servizio il contratto non si estingua ma il lavoratore debba essere ricollocato dall’azienda. Se questo rifiuta o se il collocamento si rivela “impossibile” il contratto si estingue. Si è introdotto poi il «contrato fijo discontinuo», col quale il lavoratore è assunto a tempo indeterminato ma lavora quando occorre, con relative penalizzazioni nei periodi di mora. Con questi meccanismi un milione e trecentomila precari vengono ora conteggiati come lavoratori a tempo indeterminato. Il governo Sanchez ha quindi nominalmente “incrementato i contratti a tempo indeterminato” (peraltro, adattandosi giusto al tasso di precariato dell’Italia), ma ha contato poco visto che in Spagna esiste una legge sui licenziamenti che è peggiore del Jobs Act di Renzi. Il lavoratore licenziato ha infatti soltanto diritto a ottenere un’indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. In effetti, a causa di questa strutturale debolezza negoziale, i salari reali in Spagna nel 2022, anno del boom inflazionistico, e non solo quell’anno, sono diminuiti come in Italia, solo che il salario medio spagnolo è molto minore. In aggiunta, anche la repressione sui lavoratori in lotta non è mancata, come durante lo sciopero dei metalmeccanici a Cadice nel 2021. Il governo Sanchez non ha, inoltre, fatto nulla di diverso da Draghi o Meloni riguardo l’appoggio alla guerra imperialista e ha, persino, promosso una guerra tra poveri respingendo violentemente i migranti a Gibilterra. Esso ha, infine, avallato la proposta del Regno del Marocco di designare la Repubblica democratica araba sahraoui (RASD) come una regione “autonoma” all’interno dello Stato nordafricano, nonostante il popolo del territorio del Sahara Occidentale abbia chiesto l’indipendenza nazionale per decenni. Ha praticamente consegnato la regione al dominio imperialista marocchino.
4. L’ascesa della destra e la situazione in Italia
L’esempio del fallimento programmatico delle socialdemocrazie spiega in parte il grande incremento del consenso verso la destra radicale in Francia, forte del fatto di non essersi ancora “sporcata le mani” dalla gestione della macchina capitalista e del farsi interprete, con un atteggiamento reazionario e populista, della rabbia dei ceti popolari più colpiti dalle misure che il riformismo, terminati i suoi margini di operatività, non ha saputo evitare. È ovvio che, alla luce del pericolo di un ripetersi della storia in Francia, l’aspettativa di un ulteriore avanzamento di Rassemblement National diventa più che fondata.
L’approccio della sinistra francese è emblematico di quella tendenza alla coesione di blocchi “progressisti” secondo la quale il progressismo di determinate forze è individuato in ultima istanza, analisi alla mano, solo nell’opposizione ad una particolare specie di destra e non dall’effettiva capacità di avanzamento sociale di un programma. Questo assetto, sperimentato per diversi anni ai tempi dell’Ulivo e delle coalizioni anti-Berlusconi, sembra ripresentarsi in Italia – se non ancora sul piano elettorale, almeno su quello culturale e comunicativo – nell’epoca in cui Fratelli d’Italia ha conquistato l’egemonia sulla destra. Un esempio è la reunion che ha visto, a inizio luglio, la segretaria del Pd Elly Schlein, il presidente del M5S Giuseppe Conte, i portavoce di AVS Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, Riccardo Magi di Più Europa e Maurizio Acerbo di Rifondazione Comunista tutti uniti sul palco dell’Anpi di Bologna nel nome “dell’antifascismo e della Costituzione”. Alleanza Verdi-Sinistra, in particolare, grazie al piccolo exploit elettorale ottenuto alle elezioni europee soprattutto grazie all’utilizzo delle candidature di personaggi di bandiera come Mimmo Lucano e Ilaria Salis come raccoglitori di voti, ambisce a traghettare dentro questa prospettiva pezzi di sinistra “extra-parlamentare” e movimentista. A dimostrare il raggio cortissimo di una tale tattica, si veda il voto dei verdi a favore della riconferma di Von Der Leyen alla guida della Commissione Europea.
5. L’alternativa: lavorare per la riaggregazione comunista
Come abbiamo visto nel corso della trattazione, la tattica del fronte popolare ha fatto sì che le forze più moderate, come i socialisti e come la formazione di Macron, siano riuscite a rialzare la testa sfruttando la necessità di “appoggio reciproco” in funzione “antifascista”. Ciò, paradossalmente, insieme alla debolezza del programma riformista della coalizione, il cui aspetto più moderato rischia peraltro di prendere il sopravvento, non farà che rilanciare l’ascesa della destra più radicale. Un’alternativa a questo approccio fallimentare è, invece, lavorare per la ricomposizione di un’organizzazione veramente di classe. Una riaggregazione delle avanguardie di classe che sia fondata sulla condivisione di un programma rivoluzionario solido e univoco, risultato di un confronto serrato e dell’esperienza di lotta sui territori e dentro i luoghi di produzione potrebbe produrre un avanzamento politico irriducibile a qualsiasi cartello elettorale. Non si tratta, quindi, di allestire un’ennesima piattaforma dai contorni vaghi e dagli obiettivi non definiti in vista di un turno elettorale, ma di lavorare per la costruzione di un partito comunista. La costruzione di un partito proletario moderno rappresenterebbe uno strumento, per le masse, per mettere veramente sulla difensiva il capitale grazie al suo orizzonte rivoluzionario. Ciò che non può fare il riformismo – privo dei mezzi materiali per attuarlo – anche in termini di serie conquiste intermedie può farlo il partito rivoluzionario, ma può farlo proprio perché si pone come obiettivo finale l’abbattimento del sistema capitalista tout court, organizzando la classe lavoratrice al fine di gestire le unità produttive e logistiche, boicottare il profitto dei padroni, creare centri di contropotere politico e disinnescando così il potere di ricatto del capitale. Il percorso della costruzione di un partito rivoluzionario, con l’orizzonte del socialismo, assume così un valore, sia tattico che strategico, molto più alto della conquista di un certo numero di seggi a fare da “contraltare” temporaneo alla destra e ottenuti attraverso il mero consenso contingente e passivo delle masse.
Domenico Cortese e Giaime Ugliano