“ECO DELL’INVISIBILE”: UN EVENTO PER RILANCIARE L’ARTE MILITANTE
“L’arte non è uno specchio su cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo” (Vladimir Majakovskij)
Ha avuto luogo tra il 30 settembre e il 3 ottobre, nella palazzina delle esposizioni al centro di Catanzaro, la mostra artistica “Eco dell’Invisibile – ritratti dell’oppressione”, dedicata allo sfruttamento dei lavoratori, a cura dell’artista Eva Fruci e organizzata dalla federazione locale del Fronte Comunista. All’inaugurazione dell’evento, oltre molti degli artisti scelti per partecipare all’esposizione e molti altri legati alla locale Accademia delle Belle Arti, tanti militanti tra cui, in particolare, i referenti della federazione cittadina dell’Unione Sindacale di Base. Di seguito, qualche immagine del vernissage dell’esposizione.
Perché abbiamo bisogno di un’arte impegnata socialmente
Il ruolo dell’arte e dei movimenti artistici nella creazione di coscienza politica all’interno delle masse e nello sviluppo sociale è ben conosciuto. Per fare un esempio, il percorso socioculturale che sfociò in Russia nella Rivoluzione d’ottobre fu in parte opera di artisti. Alcuni di essi lavoravano, infatti, per un cambiamento sociale fin dagli ultimi decenni del diciannovesimo secolo. Negli anni ’70 dell’Ottocento i dipinti dei Wanderers avevano esposto l’ingiustizia sociale nella vita quotidiana, mentre all’inizio del ventesimo secolo un’avanguardia russa ben informata era in contatto con Francia e Germania, gli epicentri dell’arte innovativa e del pensiero politico progressista e socialista. Altri artisti, abbracciando il modernismo, dibattevano su come trasformare e modernizzare la Russia zarista. Alcuni marxisti, guidati da Tatlin e Rodchenko, presero parte attiva alla costruzione culturale dopo il 1917, chiedendo l’abolizione dell’oggetto d’arte che consideravano una merce scambiabile appartenente al passato borghese. Gli artisti, secondo loro, sarebbero dovuti uscire dalle loro torri d’avorio e costruire il nuovo stato socialista insieme agli altri lavoratori, mettendo l’arte al servizio della rivoluzione – essi divennero in seguito noti come costruttivisti e misero in pratica gli esperimenti condotti nelle nuove scuole d’arte, progettando manifesti, libri, ceramiche e scenografie teatrali per le masse.
Il progetto della federazione calabrese del Fronte Comunista di rilanciare l’interpretazione e la funzione militante dell’arte come pratica diretta verso scopi sociali si situa in un contesto nel quale, sulla scia delle tendenze culturali postmoderne, è egemone la concezione estetica del rifiuto delle avanguardie a favore di una ricerca di senso eclettica e priva di una finalità politica collettiva ed etico-normativa: qualsiasi interpretazione del mondo è legittima, nella misura in cui crea una concezione di mondo che riesce a “intrattenere” il soggetto. La base sulla quale si fonda, al contrario, l’impegno dei militanti del Fronte Comunista è quella secondo cui l’espressione artistica, oltre essere il prodotto di un’ispirazione che riflette una condizione personale, può essere inscritta in una cornice collettiva in cui le diverse soggettività, che la cultura egemone vorrebbe sempre più atomizzate, riscoprono di avere un senso politico. In particolare, l’obiettivo degli organizzatori è stato fare emergere come la condizione di privazione e oppressione descritta dalle opere, nella società dell’“opulenza” di oggi, nella società dell’automatizzazione, può trovare ragion d’essere soltanto nella divisione in classi della società stessa. Allo stesso modo, la condizione di alienazione e solitudine trasmessa dagli artisti, nella società della comunicazione e delle reti sociali, può essere radicata soltanto nella mercificazione della persona propria del modello capitalista, una mercificazione che invade poi l’intera esistenza del soggetto. In questo senso, la forza e la collera frutto di questa condizione, una volta trasposta sul piano collettivo, non può che trovare senso nella lotta di classe.
La tematica dello sfruttamento della forza lavoro e degli oppressi – manifestata nelle opere alle quali daremo un veloce sguardo in questo articolo – trova la sua ambientazione paradigmatica in una regione, la Calabria, dove questo sfruttamento raggiunge vette particolari: nella regione si contano ben 117mila lavoratori in nero, i quali quindi non usufruiscono neppure dei contratti regolari con minimi sindacali già bassissimi dei loro colleghi. Questo esercito di irregolari, si stima, produce 2,5 miliardi di euro di valore aggiunto per i padroni del luogo e corrisponde al 19,6 per cento del totale degli occupati della regione (a fronte del dato medio nazionale che è dell’11,3%). Oltre essere la regione dove è presente in Italia la percentuale più alta di occupazione irregolare, in Calabria si registra un reddito medio da pensione che è di 14.254 euro e da lavoro dipendente che è di 14.661 euro, la metà di quello dei proletari che vivono in Lombardia.
Vogliamo descrivere brevemente, ora, quello che è emerso da alcuni dei quadri, delle sculture, delle installazioni, delle fotografie e delle performance selezionate per l’evento di Catanzaro, le cui immagini riportiamo qui sotto.
Le opere esposte a Catanzaro: una denuncia sociale sotto varie forme
Le opere esposte in Eco dell’invisibile hanno espresso da un lato il senso di privazione e di oppressione dei lavoratori, figli dell’alienante solitudine prodotta dalla società capitalista in cui viviamo; dall’altro l’essere umano che, nel timore di scomparire schiacciato dal peso del dolore e della sofferenza, cerca emancipazione in un’indagine profonda nella memoria personale e collettiva. Da questa ricerca sono usciti fuori i ritratti di chi è stanco di sentirsi oppresso e trova forza nella ribellione: l’uomo torna ad essere al centro dell’indagine, con i suoi limiti e le sue paure, per la costruzione di una nuova umanità dove chi è rimasto per tutto questo tempo invisibile riacquisisce piena coscienza della sua presenza nel mondo. Ogni artista selezionato ha elaborato il concetto di “uomo invisibile” secondo la sua naturale inclinazione. Qui il catalogo completo con le immagini di tutte le opere.
Nella mostra è stato evidente il percorso che diversi artisti hanno scelto di proseguire, affrontando la tematica della denuncia sociale. Nelson Carrilho costruisce un racconto che documenta il duro sfruttamento lavorativo perpetrato dagli europei ai danni degli schiavi africani deportati in America. Meeting expectations e Quo vadis lamentano il fenomeno sempre attuale del neocolonialismo. L’artista iraniana Saba Najafi vuole far riflettere lo spettatore sull’impatto che le proprie azioni hanno sul destino dell’umanità. La stoffa nera lacerata nell’opera Lacrime e ferite diventa specchio delle vite spezzate e delle speranze infrante.
Il nero è anche il colore scelto da Erica Roberti per sottolineare le contraddizioni che capillarmente si insinuano in una società sempre più corrotta. L’opera Sacrificio racconta il duro lavoro svolto da molte persone senza contratto, a cui lei tenta di dar voce. La denuncia sociale riaffiora in modo poetico nell’opera Corpi irregolari di Grazia Salierno, dove figure dal volto indefinito vengono descritte mentre raccolgono il seminato delle piantagioni. L’uso dell’acquerello tratteggia persone in perenne instabilità, alla costante ricerca di una speranza futura. Anche il mondo che rappresenta Giuseppe Samuele Vasile nella sua Babilonia e poesia risente di una visione onirica, ma non sembra progettato per essere a misura d’uomo. Gli ingranaggi e le macchine che spuntano dalla scultura si aggirano come spettri di uno scenario distopico dominato da un nuovo tipo di dittatura.
Contrasti politici si avvertono nel lavoro minimalista di Mauro Castellani, contrassegnato dall’antinomia tra il nero ed il bianco. La tensione di cerchi opposti presenti in Senza titolo sprigiona una magnetica energia che diventa manifestazione del cambiamento sociopolitico europeo nel ’68. Netto è anche lo schieramento che sceglie di assumere Marika Mazzeo in Povero Cristo. L’esile corpo di un crocifisso è coronato da un casco antinfortunistico di colore nero, severa denuncia dei tanti martiri del lavoro. L’arte come rivendicazione sociale è presente anche nella tela Lettera Scarlatta di Pina Cerchiaro. Il monocromo bianco è interrotto da un groviglio di fili al cui centro domina il colore scarlatto, richiamo sia alla femminilità sia alla dignità lavorativa della donna. La forte presenza biografica emerge con Chiara Antonelli nella sua Ed è lì che ci siamo trovati, con i piedi sopra a una terra che brucia. Il duro mestiere del padre diventa ambigua testimonianza del lavoro, sospeso tra l’essere strumento di sopravvivenza a motivo di isolamento. Ad offrire una possibilità di emancipazione da un’infanzia segnata dal lavoro minorile e da responsabilità precoci è l’artista indiana Tejaswini Loundo. Questa esperienza personale viene narrata dal rapporto di incomunicabilità con il suo giocattolo, presente nella video performance Giocattoli, Fatiche… e io?.
Un’altra possibile chiave di lettura della mostra segue il tema del ricordo, come nel caso di Giulia Gastoldi. In Carminio diversi gesti e ritratti dei colleghi di lavoro dell’artista diventano memoria viva di un vissuto fatto di quotidianità, contenuto tra le pagine del libro d’artista. Strappi di quaderni compongono invece le due opere Frammento 1 e Frammento 2 di Marco Marra. I flashback di oggetti presenti in ambienti interni della sua infanzia emergono dall’ombra, tra le sfumature di matita e carboncino. A dipingere nostalgicamente il suo paese è Maria Neve Vallone, attraverso la visione di una Zungri (VV) dimenticata. Vecchie case seguono un viale dal paesaggio assorto, dove ogni pietra poggiata è manifestazione di un lavoro e di un tempo perduto. I ricordi biografici riaffiorano tra il blu di Prussia di Graziella Romeo attraverso la tecnica della cianotipia. La sua Cartoline dal passato è un deposito di attimi vissuti da suo nonno emigrato in Svizzera negli anni ’60 in cerca di fortuna.
Altro progetto fotografico che ha come protagonista il nonno è Chocolate & dirty clothes di Benedetta Sanrocco. Lo spazio che riecheggia è quello dell’assenza, del vuoto lasciato da chi quella vita l’ha persa per il lavoro. Altri artisti hanno deciso di concentrare la ricerca sull’invisibile andando ad approfondire quel magma turbolento che si chiama psiche e che, pur risiedendo in ciascuno di noi, ci rende autentici, diversi e ci apre al dialogo con il mondo. In Apnee e L’alba di Agostino Scordo attimi di pura contemplazione suggeriscono scatti dalla durata infinita. Un lavoratore che si getta tra le acque di Tropea (VV) o i riflessi infiniti del sole sulla superficie del mare sono manifestazione del desiderio di rallentare il proprio tempo. Le sensazioni provate dall’uomo sono centrali anche nell’opera video Introspezione di Manuel De Marco. L’artista tenta un’autoanalisi, raccogliendo lentamente un lenzuolo nero che lo circonda e che lo espone al mondo nella sua vulnerabilità. La chiave di volta dell’artista Sara Russo è comprendere le proprie emozioni. Nella sua opera relazionale Sogni al chiodo, semplici post-it fissano su una lavagna di sughero i desideri e le speranze dei lavoratori, usando la scrittura come terapia sociale.
Per finire, particolare attenzione vogliamo dedicare al quadro Vaginal Davis, del diciottenne Alessio Castaldi di Napoli, nel quale viene rappresentato il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin a simboleggiare la rivincita degli oppressi nell’intero globo. Con le parole dello stesso autore: «l’opera è un’effettiva esposizione grafica di una intensa e viscerale pulsione alla vita e alla libertà degli oppressi in questo mondo. La caleidoscopica effusione di figure, forme e colori rispecchia una totale, umana e militante volontà di emancipazione sociale, cultura, politica ed estetica dalla nostra società omologante e alienante. Commentando la figura centrale, il colore bianco e la sigla CCCP è un diretto riferimento a Jurij Gagarin che, figlio di una lattaia e di un falegname, in un senso simbolico guida questa emancipazione, dato che a condurre i primi giri orbitali nello spazio non è stato un ricco borghese ma un uomo comune e di umili origini. Un altro riferimento allo spazio sono i puntini sullo sfondo, che oltre a rappresentare la romantica infinità del cosmo ci indicano la vastità dell’intero genere umano dinamico e vibrante; infine, in basso a destra, la scritta Vostok 6 rimanda alla navicella che portò la prima donna in orbita. L’utilizzo di un estetica “primitiva”, “tribale” e “psichedelica”, che rimanda agli aborigeni o, anche, all’arte infantile, oltre a rimarcare il carattere controculturale e alieno del termine “emancipazione estetica”, rende paradossalmente più “collettivamente umano” lo stile dato che esso è riscontrabile sia nell’arte moderna (che lo riscopre in artisti come in Picasso, Max Ernst o Paul Klee) sia in ogni contesto artistico privo di nozioni tecniche come per l’appunto l’arte infantile, l’arte tribale o i movimenti proletari dell’art naif jugoslavi e cecoslovacchi negli anni 60 e 70». Insomma, da Mirò ai bambini algerini, passando per gli operai serbi e i popoli della nuova Caledonia e dell’Australia, hanno tutti il diritto non solo di essere rappresentati in questo nuovo “sur-realismo socialista”, ma anche di imbracciare pennarelli e matite e creare arte come forma di lotta vitale contro questa società e cultura di accumulazione morta.