LA SCUOLA E IL BUSINESS DEL PRECARIATO
L’ennesimo record di supplenze e l’attesa messianica del fatidico concorso docenti 2024 stanno mettendo in chiarissima luce la natura estremamente classista che caratterizza, ormai da trent’anni, il mondo delle assunzioni nella scuola. Il sistema di reclutamento dei docenti sembra somigliare sempre di più a un meccanismo per produrre precariato e fatturati per i privati, mentre, sempre di più, solo chi ha denaro da investire può permettersi di andare avanti nelle graduatorie.
Per l’anno scolastico 2024/2025, il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha ricevuto l’autorizzazione ad assumere un totale di 56.500 insegnanti e altro personale. A fronte di questo, però, quest’anno sono state assegnate circa 234.000 supplenze, una quantità persino maggiore rispetto agli anni precedenti, ovvero più del 25% del corpo docente in Italia. La volontà politica di scaricare i tagli della finanza pubblica sulla qualità dell’istruzione e sulla vita dei lavoratori pubblici è evidente da questi numeri. Si tratta di un trend che va avanti, naturalmente, da diversi anni e ha tra i suoi responsabili i diversi governi succedutisi. Se i supplenti delle cattedre comuni – cioè i docenti di italiano, latino, matematica e così via – tra il 2016 e oggi sono infatti passati da 60 mila a 105 mila unità, quelli nell’ambito del sostegno sono quasi quadruplicati, passando da 36 mila a 130 mila. Questi numeri rendono le procedure concorsuali tanto fondamentali per i precari in cerca di stabilizzazione, quanto lunghe e difficili da gestire le procedure stesse, soprattutto con le nuove modalità di svolgimento delle prove. Trattandosi poi di concorsi non abilitanti, coloro che pur avendo ottenuto un buon punteggio al prossimo concorso non rientreranno nei posti messi a bando, avranno una eventuale possibilità di essere chiamati sul posto soltanto in caso di rinuncia all’immissione in ruolo dei candidati vincitori. Non è un caso che i precari, nelle loro manifestazioni, chiedano che non ci siano più nuovi concorsi finché ci sono persone risultate idonee ai precedenti, che hanno appunto superato lo stesso concorso e sono ancora in attesa di essere stabilizzate. Nel frattempo, al fine di incrementare il punteggio e scalare le graduatorie provinciali di supplenza (GPS), gli insegnanti precari devono entrare in una competizione serrata tra loro a colpi di migliaia di euro regalati alle università private per conseguire specializzazioni la cui unica utilità, spesso, è solo fare fatturare gli atenei telematici. Questi corsi, ai quali sembra ormai quasi impossibile sottrarsi, assumono sempre di più l’aspetto di prodotti commerciali slegati da ogni funzione formativa e propagandati con spot e slogan avvincenti.
Detto ciò, i candidati vincitori del prossimo concorso in possesso dell’abilitazione saranno assunti a tempo indeterminato e dovranno svolgere un periodo di formazione e prova in servizio della durata di un anno. Chi vince il concorso senza possedere l’abilitazione dovrebbe invece iniziare un anno a tempo determinato in cui, oltre a lavorare, dovrà conseguire l’abilitazione all’insegnamento tramite un corso universitario da 30/36 CFU (crediti formativi universitari). Il corso prevede lo studio di materie come pedagogia, psicologia e metodologia didattica, oltre che delle ore di tirocinio. Questa abilitazione sarà totalmente a carico degli aspiranti insegnanti vincitori del concorso con un costo di 2.000 euro e a essa, una volta conseguita, seguirà l’anno di prova. Chi vince il concorso, in sostanza, vince un anno di supplenza e il diritto ad abilitarmi a proprio carico, aumentando di un anno il vincolo dall’istituzione scolastica presso cui assumono l’incarico.
Come se non bastasse, la riforma dell’ex ministro all’Istruzione del governo Draghi, Patrizio Bianchi, che entrerà in vigore dal 2025, prevede il requisito del conseguimento di 60 crediti formativi per poter accedere ai prossimi concorsi per l’immissione in ruolo e alle graduatorie; mentre i corsi abilitanti, anche quelli gestiti dalle università pubbliche, saranno a pagamento. Si tratta dell’ennesima mercificazione della formazione che scarica la spesa dei corsi sullo studente (anche quando questo è già un lavoratore della scuola pubblica). Dei 60 CFU obbligatori, 35 CFU coprono le discipline di riferimento, le discipline socio/psico/antropologiche e pedagogiche, linguistiche, digitali e di legislazione scolastica; 20 CFU riguardano un periodo di tirocinio diviso tra tirocinio diretto di 15 CFU e tirocinio indiretto di 5 CFU. Quest’ultimo consiste in una serie di attività propedeutiche al primo, come la stesura di verbali, che verranno svolte in aula. Infine, sono previsti 5 CFU di metodologie didattiche e dell’inclusione. Come se non bastasse, sono state effettuate modifiche alla selezione degli esami di vari settori disciplinari per l’acquisizione dei crediti “di cattedra”, ovvero quelli della classe di concorso, che permettono di rivestire il ruolo di insegnante per specifiche materie. Ciò comporta che chi non ha sostenuto, in questi ultimi anni di studio, esami propedeutici previsti dall’ultima riforma – perché la precedente ne prevedeva altri – dovrà sostenerli in una situazione di emergenza: o messi alle strette dalle scadenze molto brevi per il conseguimento del titolo di laurea, o a pagamento come esami extra. Una mole di lavoro non indifferente, dopo aver trascorso cinque anni o più sui libri.
Il disordine e la natura concorrenziale e privatistica dei percorsi abilitanti e delle certificazioni finalizzate all’accumulo di punteggio si ripercuote in maniera significativa sull’equità dei percorsi di coloro che partecipano alle GPS. Ricordiamo che l’iscrizione nelle Graduatorie Provinciali di Supplenza (GPS), dalle quali vengono attribuite le cattedre scoperte, avviene in genere a cavallo tra maggio e giugno e che le graduatorie sono suddivise in due fasce: la prima, per i docenti che hanno ottenuto (via concorso o per mezzo dei costosissimi corsi di formazione – SSIS o TFA) l’abilitazione all’insegnamento o la specializzazione sul sostegno con apposito TFA, e la seconda per i docenti non abilitati, che comprende la stragrande maggioranza dei docenti (alcuni con più di tre anni di servizio, cosiddetti “triennalisti”) che insegnano nelle nostre scuole.
Le decine di migliaia di non abilitati hanno però ricevuto un’amara sorpresa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito: da marzo a maggio, migliaia di docenti di ruolo o già abilitati in altre discipline hanno potuto usufruire di percorsi abilitanti, dal costo di 2000 euro, totalmente online e senza numero chiuso, grazie alle università pubbliche e private, ottenendo una seconda abilitazione prima della chiusura delle GPS. I corsi abilitanti per i docenti neolaureati e per i “triennalisti”, vagheggiati sin dal 2023 dal ministero, sono partiti con gravissimo ritardo durante l’estate, dato che le Università sia pubbliche che private hanno ricevuto il nulla osta alla pubblicazione delle disponibilità dei posti e dei bandi solo a maggio, di fatto rendendone impossibile lo svolgimento in tempo utile per uno svolgimento idoneo e per garantire agli iscritti l’abilitazione in tempo per iscriversi nella prima fascia delle graduatorie di supplenza, quella che garantisce le supplenze più vicine e durature. Si tratta, oltretutto, di corsi abilitanti da svolgersi per un’ampia percentuale in presenza, e con accesso a numero chiuso, per rientrare nel cosiddetto “fabbisogno” calcolato su base regionale, che non è stato tenuto minimamente in considerazione per le migliaia di adesioni ai corsi online “rapidi” per i docenti già abilitati: un ulteriore ostacolo per chi, per esigenze personali, lavorative e familiari non potrà permettersi spostamenti in altre sedi per seguire le lezioni, sia in termini economici che di disponibilità di tempo.
Questo si tradurrà in una invasione della prima fascia delle GPS da parte di migliaia di docenti pluriabilitati, con punteggi irraggiungibili, che si vedranno attribuire le supplenze migliori (più durature, più vicine a casa, con orario completo) in classi di concorso (CdC) in cui potrebbero non aver mai praticato la professione, per il semplice fatto di essersi potuti permettere un esborso di migliaia di euro in corsi di specializzazione e abilitazione anche consecutivi. Nel frattempo, docenti con anni di esperienza nelle discipline che vorrebbero insegnare con continuità saranno costretti ad accontentarsi dei pochi spezzoni orari rimasti e le cosiddette supplenze brevi attribuite dalle graduatorie delle singole scuole (GI) mentre tenteranno, numero chiuso permettendo, di abilitarsi in tempo per poter partecipare ai prossimi concorsi (dato che l’abilitazione sarà il prerequisito all’accesso) e per rientrare nelle iscrizioni in GPS per il biennio 2026-2028, rischiando di rimanere disoccupati per i prossimi due anni.
La formazione e l’inquadramento degli insegnanti sono oggi dunque a carico dell’aspirante docente anche quando meritevole, e inseriti in una logica aziendalistica anche nel contesto di istituzioni pubbliche che non dovrebbero organizzare le loro attività mirando soprattutto al profitto o al risparmio finanziario. A tutto ciò si aggiunge, come abbiamo visto, un carattere molto formalistico e burocratizzato della formazione stessa, la quale oltre essere onerosa per i candidati si trasforma in una disfunzionale competizione, tra di essi, per il possesso di crediti e titoli mercificati e spesso poco attinenti al fine educativo dell’insegnamento. Tutto questo è in perfetta aderenza con le esigenze del sistema economico capitalista, con la messa in concorrenza dei lavoratori tra di loro e con l’ideologia mercantilista borghese che da queste esigenze deriva e che, piuttosto che creare comunità organiche e consapevoli di docenti finalizzate alla maturazione sociale degli studenti, diffonde nozioni astratte impacchettate al fine di essere facilmente quantificate e vendute. L’enorme stratificazione di leggi e disposizioni ministeriali prodotte al fine di accompagnare questo assetto privatistico con la necessità di dosare il numero di aspiranti docenti nella cornice del sottofinanziamento della scuola pubblica ha creato un ambiente psicologicamente frustrante per i candidati all’insegnamento.
Vogliamo, per questo, dare voce a uno di loro, Giulio (nome di fantasia), che da anni tenta di lavorare a tempo pieno nell’ambito del sostegno nelle scuole superiori.
Come descriveresti oggi il percorso per diventare insegnante?
Il percorso per l’insegnamento è oggi molto lungo, tortuoso, direi ostico, ma soprattutto molto molto costoso, “per pochi eletti”. Si inizia così: ti laurei con laurea magistrale e con il Ministero che ti chiede di integrare delle materie della tua classe di concorso come prerequisito per poter accedere a qualsiasi corso per poter entrare a far parte di qualsiasi graduatoria, ma anche semplicemente per rispondere agli interpelli, quindi per renderti disponibile all’insegnamento disciplinare e non, in qualunque scuola di ogni ordine e grado. Qui incontriamo il primo esempio di “accanimento” nella misura in cui ti obbligano a ripetere lo studio di materie che, probabilmente, hai già approfondito con successo.
Perché il sistema dei crediti è disfunzionale?
Faccio il mio esempio: io ho iniziato con il dover conseguire dei crediti formativi universitari su materie socio-psico-pedagogiche e con il dover integrare alcune materie nonostante il piano di studi particolarmente lungo della mia università di provenienza. Ho dovuto farlo per un semplice discorso di nomenclatura, la quale nel mio ateneo era leggermente diversa da quella richiesta nelle tabelle predisposte dal Ministero per la specifica classe di concorso o, anche, di una minima differenza nell’ammontare dei crediti stessi, cose che non hanno molto peso o senso nel percorso formativo di un insegnante ma che fanno materialmente perdere una mole enorme di tempo. Un esempio è possedere i crediti in “diritto amministrativo”, che è indicato con IUS-06 mentre il Ministero, magari, richiede i crediti in IUS-09, o aver conseguito l’esame in “diritto penale” da 12 crediti e il Ministero ne richiede 16.
Come si presentano i passaggi successivi?
Sono richieste, di fatto, costosissime specializzazioni per fare punteggio, certificazioni linguistiche o, anche, amministrative e didattiche che hanno il solo fine di accrescere il punteggio di partenza. Ma il bello arriva con il concorso-corso sul sostegno, il cosiddetto ex TFA, quindi tirocinio formativo attivo, che è diventato un corso intensivo privato a tutti gli effetti, nel senso che pur essendo un concorso pubblico, se lo superi, devi sborsare una somma di denaro non indifferente pari a circa 3.000 euro a beneficio dell’ateneo che lo eroga, ed è un corso molto estenuante che prevede lo studio di materie, anche qui, per la seconda volta, socio-psico-pedagogiche e affini, concernenti didattica per l’insegnamento. È un corso che, addirittura, in molti atenei non consente nemmeno di fare alcuna assenza, soprattutto quando si eroga in modalità online, cosa accaduta nel mio caso. Ciò è pregiudizievole per chi mette insieme formazione e lavoro, e spesso lavora proprio per potersi pagare l’iscrizione al corso stesso.
Non sembri molto convinto dell’utilità e della qualità di questi corsi in generale.
Esatto, e parlo sia delle varie certificazioni ormai da conseguire inevitabilmente per competere nella giungla delle graduatorie sia del percorso abilitante per com’è fatto oggi. Li trovo inutili o comunque poco utili, perché si soffermano principalmente sulla teoria, anziché sulle pratiche educativo-didattiche, e molti corsi sono solo nozioni su nozioni. Così le altre attestazioni richieste, linguistiche, amministrative e didattiche. Ti costringono, peraltro, a sostenere esami finali fondati su panieri di domande assurde, da imparare praticamente a memoria. Spesso, si sfocia nel nozionismo anche nei quesiti posti a conclusione di un dato percorso formativo, il quale alla fine diviene appunto un’accozzaglia di informazioni piuttosto che un allenamento al rapporto con studenti con disabilità. Bisognerebbe, semmai, improntare la formazione di un docente a un tirocinio strettamente educativo-didattico pratico, direttamente nelle scuole aggiungendovi, certo, un po’ di formazione teorica con risvolti pratici.
Attualmente in quale fase della “scalata” alla cattedra ti trovi?
Ormai sono, insieme ai miei colleghi, in una situazione di limbo da un po’ di anni. Ho frequentato altri corsi che sono stati molto costosi, come quello del CLIL (Content and Language Integrated Learning), sempre un corso di perfezionamento molto lungo e dispendioso, concentrato sulla linguistica e la didattica che, però, ti costringono a conseguire proprio perché è tra quelli che dà più punteggio. Ancora più costoso, tuttavia, è stato il corso abilitante rapido, pari a più di 2.200 euro a testa, su CdC sostegno, necessario a scalare le graduatorie, ma anche ad ottenere più facilmente il posto a tempo indeterminato con il meccanismo della “call veloce” (con cui vengono chiamati sul posto fisso di sostegno gli specializzati), che ti consente di abilitarti su materia – quindi su classe di concorso -, ma non tanto per avere accesso all’insegnamento nelle proprie discipline curricolari “ad hoc” (poiché la stragrande maggioranza delle CdC sono sature in tutta Italia o, nella migliore delle ipotesi, vi sono 3-4 posti disponibili per una CdC in particolare), quanto nell’ottica di una sfrenata corsa ad accumulare più punteggio possibile in graduatoria.
Una situazione logorante, che mal si addice alla serenità e all’entusiasmo che dovrebbe contraddistinguere un docente, soprattutto di sostegno.
Già. In generale, passiamo le giornate oscillando tra la rassegnazione di dover trascorrere ancora molto tempo senza cattedra ordinaria, nonostante gli anni e anni di specializzazioni acquisite, e la rabbia di dover regalare soldi ai privati per ottenere un diritto, che è un diritto anche degli studenti e della società nel suo complesso, che sentiamo di avere da tempo meritato.