La violenza contro le donne nella nostra società: alcune riflessioni di classe
Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: una giornata simbolica importante che dovrebbe servire a rinnovare lo spirito della lotta per una vita libera dallo sfruttamento e dalla violenza, nello specifico di questa data, quella che subiscono le donne in quanto tali.
Essere una donna significa subire alcune delle peggiori forme di oppressione, violenza, disparità e discriminazione. Ancora oggi, nonostante ultimamente nel nostro paese si stiano facendo dei passi in avanti, come ad esempio l’aumento di consapevolezza nell’ultimo anno a causa dello scalpore riguardo il caso del femminicidio di Giulia Cecchettin, spesso questa realtà viene sistematicamente banalizzata, strumentalizzata e messa in discussione, anche a livello dell’opinione pubblica.
Recentissimo è il commento del ministro Valditara che, proprio a pochi giorni dal 25 novembre e alla presentazione della Fondazione Cecchettin, ha dichiarato che “Occorre non fare finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Un perfetto esempio di strumentalizzazione, banale e misero cavallo di battaglia della destra, che però continua a essere impiegato per svilire la lotta alla violenza di genere e per nascondere le responsabilità politiche nell’insufficienza al suo contrasto. E a nulla servono le successive dichiarazioni del ministro che tentano invano di giustificare questo bieco, vile e vergognoso commento, prontamente poi difeso dalla premier Giorgia Meloni.
Alcuni dati sulla violenza di genere
A sconfessare le bugie e le mistificazioni di chi non vuole riconoscere il problema, bastano alcuni dati. Relativamente al periodo 1° gennaio – 17 novembre 2024, sono stati registrati 269 omicidi, con 98 vittime donne, di cui 84 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 51 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. I dati sono leggermente in flessione (stanno tornando al tasso del 2021, che comunque era in crescita rispetto al periodo precedente) se comparati al periodo della pandemia da COVID-19, che ha visto un incremento dei casi di violenza.
Nel 2023, il 75 % degli atti persecutori, l’81 % dei maltrattamenti contro familiari e conviventi e il 91 % delle violenze sessuali ha visto come vittima una donna, confermando una tendenza pressoché costante. Un trend in evidente crescita si registra per la violenza sessuale, declinata in tutte le sue forme. I reati introdotti dal cosiddetto “Codice rosso” (legge 19 luglio 2019, n.69), tra il 2020 e il 2023, sono andati progressivamente aumentando per la fattispecie della violazione ai provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (387-bis c.p.) e per la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.), che, tuttavia, presenta nell’ultimo anno una leggera flessione. Di contro, per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art.612-ter c.p.) e per la costrizione o induzione al matrimonio (art.558-bis c.p.) si registra un andamento altalenante nel periodo in esame, con un incremento nell’ultimo anno.
Inoltre sono aumentati i crimini che vedono come vittime i minori, tra di essi la maggioranza sono bambine minori di 14 anni e tra gli autori delle violenze la maggioranza è costituita da uomini, italiani, di età compresa tra i 35 ed i 64 anni (60%). Nel 2024 aumentano inoltre i casi di adescamento online (+4%) e sale dell’83% il numero delle vittime di pornografia minorile. Nel primo semestre di quest’anno i delitti commessi ai danni di minori sono stati 20.502 a fronte dei 18.721 nello stesso periodo del 2023, con un aumento del 10%: i reati con maggiore incremento sono l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (22%), i maltrattamenti contro familiari e conviventi (15%), la sottrazione di persone incapaci (15%) e la violenza sessuale di gruppo (14%). Le segnalazioni nei confronti degli autori delle violenze – molto più spesso uomini (80%) – segnano un balzo in avanti del 19%.
Nonostante negli ultimi anni stiamo assistendo a un aumento delle richieste di aiuto ai centri antiviolenza – grazie anche alla sensibilizzazione degli ultimi anni, ancora insufficiente. I numeri risultano ancora più drammatici se si considera che fotografano soltanto una parte del fenomeno, visto che ancora purtroppo molti abusi non vengono denunciati alle pubbliche autorità. Questo dato rivela ulteriori problematiche e forme di violenza da cui deriva la scelta di molte donne di non denunciare.
Gli ostacoli per la vittima
Una necessaria premessa riguarda il fatto che molte violenze semplicemente non vengono percepite come tali né da chi le perpetra né da chi le subisce o vengono minimizzate a causa di fattori sociali, culturali e psicologici. Questo sia per via della parziale, spesso sbagliata e distorta rappresentazione della violenza nei media e nell’opinione comune, sia per la frequenza di episodi caratterizzati dal coinvolgimento di partner ed ex partner, parenti, amici e conoscenti, in molti casi taciuti per via dell’elevato coinvolgimento emotivo.
La rappresentazione prevalente nei media della violenza sessuale è quella fisica, esplicita e visibile, spesso perpetrata da estranei, in circostanze fortuite. Al contrario, la maggioranza delle violenze viene compiuta da partner ed ex partner, amici, parenti, conoscenti, dunque in contesti in cui la vittima si sentiva al sicuro: proprio la verità, dati alla mano, che il commento del ministro Valditara voleva mistificare. Un maggior risalto viene poi spesso dato alle violenze commesse dagli stranieri, sia perché rientrano in questa rappresentazione, sia perché vengono strumentalizzate in senso razzista.
Un altro fattore che può scoraggiare il ricorso a una querela sono le tempistiche del sistema giudiziario. Infatti, ad oggi è imposto – in base alla tipologia di reato riconosciuto – un periodo di tempo massimo oltre il quale non è più possibile procedere legalmente. Ciò, spesso non permette l’elaborazione del trauma da parte della vittima, rendendo più difficile la scelta di ricorrere agli strumenti giudiziari. A maggior ragione, sarebbe necessario fornire alle vittime tutti gli strumenti possibili per essere in condizione di denunciare nei tempi concessi, probabilmente troppo brevi in alcuni casi.
Va registrata l’esistenza del gratuito patrocinio, anche senza limiti di reddito, e di altre agevolazioni per le vittime di una serie di reati ascrivibili alla violenza di genere, tra cui la possibilità di non pagare le spese processuali anche in caso di assoluzione dell’imputato. Tuttavia, esistono alcuni limiti a questi benefici destinati alle donne vittime di violenza: per prima cosa non tutti i reati hanno accesso a queste agevolazioni (un esempio di reato che non garantisce accesso al gratuito patrocinio è la condivisione non consensuale di materiale intimo, come foto e video sessualmente espliciti); in secondo luogo, persistono comunque alcune barriere d’accesso alla giustizia per le proletarie, come ad esempio avere delle informazioni chiare e certe, che nei fatti rappresentano una selezione di classe.
Un ulteriore enorme ostacolo di natura psicologica è rappresentato da tutte le pressioni a cui si va incontro una volta sporto querela, sia a livello processuale che in taluni casi mediatico, ma anche da parte di medici, psicologi, psichiatri ed altri professionisti il cui compito dovrebbe essere quello di assistere la vittima di violenza. Infatti, una donna che subisce violenza è spesso sottoposta al cosiddetto “victim blaming” o “doppia vittimizzazione”. Con tali termini si intende quell’insieme di atteggiamenti che mirano a spostare l’attenzione dal presunto colpevole alla vittima stessa, indagando ogni aspetto della sua vita privata, dei costumi sessuali, delle abitudini di vita ecc.. Si arriva quindi a colpevolizzare la vittima piuttosto che chi ha materialmente commesso la violenza.
I tipi di violenza
Il femminicidio, i maltrattamenti in famiglia e ad alcune tipologie di violenza come quella fisica e sessuale sono tra le più facilmente riconoscibili. Esistono, tuttavia, altre forme di violenza meno esplicite come la violenza psicologica e la cosiddetta violenza economica, frequente soprattutto nei casi di violenza domestica e che colpisce maggiormente le donne proletarie. A quest’ultima spesso si lega la violenza assistita, cioè quella subita dai minori testimoni degli episodi di violenza in famiglia, che causa profonde conseguenze psicologiche anche nei figli. Esistono inoltre forme di violenza ancora più subdole, quelle che più spesso vengono ridicolizzate e negate: le molestie verbali e il cosiddetto “catcalling”. Le donne, quotidianamente, sono costrette a subire commenti e giudizi indesiderati, spesso relativi alla sfera fisica, battute denigratorie e vari tipi di svalutazione e umiliazione verbale nella vita privata, nei luoghi pubblici e per strada, nei luoghi di istruzione e sul posto di lavoro.
Infine, gli atti persecutori e la condivisione non consensuale di materiale intimo (volgarmente e impropriamente conosciuto come “revenge porn”), costituiscono le forme di violenza più recenti, anche a livello di formulazione legale (stalking 2009 e “revenge porn” 2019). Quest’ultimo mostra come la violenza contro le donne possa rinnovarsi anche sfruttando impropriamente gli sviluppi della tecnologia. Ancora più recente e insidioso è il fenomeno delle deep fake, ossia la generazione di immagini false di persone reali con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, che può essere usata per produrre immagini e video sessualmente espliciti di donne reali.
Non è esente da problematiche connesse alla discriminazione nei confronti delle donne nemmeno il servizio sanitario, al quale non vengono indirizzati fondi sufficienti per svolgere attività di ricerca e aggiornamento su tematiche e patologie che interessano la salute femminile. La mancanza di risorse è anche causa dell’arretratezza in ambito sanitario – e prima ancora accademico e di ricerca – che contribuisce alla difficoltà nel riconoscimento di patologie mediche femminili, delle quali si è cominciato a parlare solo negli ultimi anni, quali endometriosi, vulvodinia, neuropatia del pudendo, disfunzioni del pavimento pelvico, dispareunia (dolore ai rapporti sessuali) e altre patologie dell’apparato genitale e riproduttivo femminile.
Nella violenza medica rientrano quella ostetrica e ginecologica. La prima consiste nell’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali che comportano la perdita di autonomia e la capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, con conseguenze che impattano negativamente sulla qualità della vita delle donne. Concretamente, il fenomeno della violenza ostetrica si esplica nella pratica, durante o a ridosso del parto, di operazioni medico-chirurgiche e interventi di natura invasiva sul corpo della donna da parte del personale sanitario, manovre e interventi (come le episiotomie e le ricuciture) non sempre necessari o effettuati senza il consenso e l’informazione delle pazienti, ma anche tagli cesarei iniziati prima che l’anestesia facesse effetto o tagli cesarei ritardati o, viceversa, epidurali negate nonostante le richieste, o proposte insistentemente nonostante i rifiuti.
Una ricerca che ha preso in esame il periodo che va dal 2003 al 2017 riferisce che circa 1 milione di donne in Italia racconta di aver subito una qualche forma fisica o psicologica di violenza durante il parto. Oltre a questo le pazienti riferiscono di aver subito maltrattamenti verbali, frasi offensive, rimproveri o inviti a partorire in fretta e in silenzio, quindi veri e propri episodi di violenza verbale e psicologica da parte del personale sanitario. In altri casi le donne denunciano di non aver ricevuto assistenza o di aver subito violazioni della privacy come visite ginecologiche davanti a sconosciuti o con le porte aperte. La violenza ginecologica si manifesta anch’essa attraverso pratiche e manovre invasive effettuate durante le visite, senza il consenso e l’informazione delle pazienti e con commenti e giudizi inappropriati legati al corpo e al comportamento sessuale.
Questo tipo di violenza dimostra in maniera evidente quanto la riflessione su problematiche così strettamente femminili debba legarsi a una radicale messa in discussione del sistema socio-economico. La violenza medica evidenzia, infatti, le mancanze del nostro servizio sanitario, costantemente definanziato e sempre più privatizzato, in cui spesso ci si trova di fronte a situazioni che non permettono di occuparsi nel modo più idoneo di ogni paziente a causa della carenza di personale, spesso anche stremato dai turni. Questo stato di cose provoca una perdita di fiducia verso la sanità e può costituire un disincentivo nel sottoporsi in futuro a esami e/o controlli medici.
La forma più evidente ed eclatante di negazione dell’autonomia, della privacy e dell’integrità corporea della donna è sicuramente rappresentata dall’obiezione di coscienza nell’ambito sanitario pubblico, che rende in molti casi vane le conquiste sancite dalla legge 194. Di questo ostacolo risentono soprattutto le donne lavoratrici e dei settori popolari, che non possono permettersi di sopperire alle mancanze della sanità pubblica tramite il ricorso a cliniche private. Peraltro, i dati relativi all’applicazione della legge 194 nel 2023 non sono ancora stati resi pubblici dal governo e i dati del 2022, nonostante siano già presenti sul sito ISTAT, non vengono aggregati insieme a quelli che spettano, in termini di raccolta, al ministero della Salute e alle regioni. Questi ultimi, infatti, sono quelli elaborati dall’Osservatorio permanente sull’aborto, un organismo espressione dei gruppi antiabortisti.
L’aborto è un diritto fondamentale negato proprio da quelle stesse strutture che dovrebbero garantirlo, nelle quali invece del riconoscimento di un diritto ottenuto con la lotta di migliaia di donne si pratica la stigmatizzazione e la colpevolizzazione nei confronti di chi vuole interrompere la gravidanza da parte del personale sanitario stesso e/o dai gruppi antiabortisti che puntualmente le insidiano.
Non bisogna poi dimenticare le conseguenze sulla salute fisica, sessuale e psicologica delle donne che tutte queste forme di oppressione e violenza causano. Le violenze hanno un impatto duraturo, condizionando la crescita e tutti gli aspetti della vita delle donne, andando a ledere lo sviluppo della personalità con tutte le conseguenze del caso.
Considerazioni politiche
Nella situazione appena descritta pesa la responsabilità della classe politica che non attua neanche misure minime contro la violenza di genere in un contesto in cui, comunque, lo Stato borghese non è in grado di eliminare alla radice il problema. Ciò che rimane sono provvedimenti basati in larga parte su elementi repressivi, come il Codice Rosso, o il più recente DDL Roccella, o addirittura di facciata, parziali e del tutto inadeguati a contrastare l’aumento di casi di violenza (a proposito si potrebbe ricordare il cosiddetto “reddito di libertà”, una misura assistenziale creata nel 2021, ridicola nei presupposti e assolutamente insufficiente per risolvere il problema). Infatti, la contraddittorietà del sistema in cui viviamo sta sostanzialmente nel fatto che i governi preferiscono investire le risorse dello Stato non in contrasto alla violenza sulle donne ma in altre spese più favorevoli agli interessi della classe che li esprime.
Da un lato l’uguaglianza tra uomo e donna è stata messa all’ordine del giorno dallo stesso sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici e delle forze produttive; dall’altro però la stessa struttura capitalistica della società si dimostra incapace di eliminare la violenza di genere perché non interessata ad abbattere le condizioni materiali dell’oppressione femminile e quindi anche a sradicare elementi di maschilismo diffusi sia nella società che nella cultura, che sono funzionali al mantenimento delle stesse.
Da una parte il capitalismo ha introdotto a pieno titolo le donne nei rapporti di produzione attualmente vigenti, producendo un avanzamento della condizione femminile nel capitalismo, i cui rapporti di produzione sono tali da farle assumere nel mondo del lavoro un ruolo formalmente parificato a quello dell’uomo, mentre a livello sostanziale la percentuale di occupazione femminile è ancora troppo bassa rispetto a quella maschile e le lavoratrici sono più soggette a impieghi precari, a basso livello salariale o a basso valore aggiunto e per questo sono le prime a essere sacrificate dai tagli al personale; inoltre persiste lo stigma della maternità per le lavoratrici visto solo come un costo per l’azienda.
Inoltre, come già si osserva da tempo, la crisi capitalistica colpisce maggiormente le donne proletarie e incrementa notevolmente le disparità già esistenti, dimostrando l’odierna fragilità delle conquiste sociali ottenute nel passato, che crollano una dopo l’altra di fronte alla smobilitazione della lotta di classe. Ciò che resta del salario, dell’orario di lavoro e del welfare è sempre più sotto attacco così come lo sono i diritti delle donne conquistati ormai cinquant’anni fa, mai pienamente assicurati facilmente a tutte, come il diritto all’aborto.
Cosa ci aspettiamo da un sistema che continua a tagliare fondi al sistema sanitario, ai consultori, all’istruzione, ai centri antiviolenza (CAV) che svolgono un lavoro fondamentale? Cosa ci aspettiamo da un sistema i cui media trattano il tema della violenza di genere in maniera consumistica e sensazionalistica, preferendo intervistare personaggi che nulla hanno a che fare con la lotta alla violenza di genere. I CAV dovrebbero essere i primi interlocutori anche a livello di opinione pubblica in quanto ogni giorni si trovano a combattere in prima linea, accogliendo e fornendo assistenza psicologica e legale gratuita, mettendo a disposizione le case rifugio e aiutando le donne a ricostruirsi una vita fuori dalla violenza in tutti gli aspetti, ad esempio fornendo spesso sportelli di orientamento al lavoro.
Per queste ragioni, non solo il capitalismo si dimostra, come sistema, incapace di risolvere il problema alla radice perché basato sullo sfruttamento del lavoro, bensì alimenta le concezioni retrograde e maschiliste che sono alla base della cultura della sopraffazione di genere a causa dei contesti di arretratezza che esso produce. Infatti, da un lato alcune delle vecchie forme di oppressione della donna sono state formalmente cancellate, specie nelle loro cristallizzazioni giuridiche, si pensi a tutti i passi fatti in nel secondo Novecento nel sistema giuridico che hanno dovuto però, e spesso ancora oggi, fare i conti con un processo molto più lento di mutamento della morale e della cultura.
Dall’altro lato, il capitalismo non può eliminare, per ovvie ragioni, lo sfruttamento in ambito lavorativo, comune sia a uomini che donne, né tantomeno le discriminazioni specifiche della donna lavoratrice, quali la differenza di salario tra uomini e donne, la mancata parificazione del congedo di paternità con quello di maternità e il problema della insufficienza degli asili nido. Né ha interesse, anzi, ad eliminare il peso sproporzionato del lavoro di cura, non retribuito, che ricade quasi totalmente sulle donne lavoratrici e delle classi popolari, per quanto riguarda la cura dei bambini, degli anziani, dei disabili. Al contrario, la mercificazione di ogni aspetto della vita da parte del sistema capitalistico rafforza vecchie oppressioni e ne crea di nuove, come nel caso della prostituzione, della pornografia e dell’utero in affitto.
Si assiste inoltre all’insufficienza, se non alla completa assenza, dell’educazione sessuale, affettiva, al consenso e al piacere. Questa, potrebbe contribuire al contrasto delle sopravvivenze della cultura patriarcale e maschilista che persistono nella nostra società. Sarebbe necessario attuare un simile processo culturale non solo a partire dalle scuole, ma in ogni ambito della società, attraverso una comunicazione mediatica e televisiva che promuova un modello di sessualità sana e inclusiva. Il contrasto a violenze, pregiudizi e stereotipi non può prescindere dal ripudio di una rappresentazione della donna umiliante e svalutativa – spesso diffusa persino dalla televisione statale – che oggettifica e mercifica la figura femminile.
Non si può parlare di violenza di genere, quindi, senza parlare anche della violenza esercitata dal capitale che oppone sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi e che soprattutto contribuisce a perpetuare la sovrastruttura di violenza e barbarie in cui trovano pienamente collocazione anche gli episodi di violenza di genere. Un sistema in cui disoccupazione, precarietà e sfruttamento sono all’ordine del giorno, in cui un’istruzione di qualità sta diventando sempre più un lusso per pochi, in cui persistono concezioni ideologiche arretrate e anacronistiche è un sistema che abbrutisce: è un sistema competitivo e quindi violento, che educa alla violenza.
Se il sistema in cui viviamo genera precarietà, sfruttamento, disoccupazione, guerra, carovita, sanità e istruzione sempre più inaccessibili come possiamo aspettarci che possa risolvere un problema serio e complesso e che richiede un cambiamento radicale della società come quello della violenza sulle donne? È essenziale che, oltre che sul piano culturale, esso vada affrontato sul piano socio-economico e l’analisi di questo rivelerebbe che l’attuale sistema economico è strutturalmente incapace di risolvere il problema.
Sostenere che la battaglia contro la violenza e le discriminazioni che le donne quotidianamente subiscono vada condotta su un piano esclusivamente culturale e pedagogico, promuovendo magari anche la retorica della contrapposizione tra sessi, significa rinunciare alla prospettiva di un’analisi materialista (cioè basata sui rapporti economici) della società in cui viviamo, l’unica in grado di gettare le basi per una lotta che estirpi alla radice le storture del sistema che alimentano e riproducono la violenza di genere.
Non è quindi possibile pensare che la lotta alla violenza di genere, così come a ogni tipo di discriminazione e violenza che colpisce i più vulnerabili, possa prescindere da quella in favore di un modello di società che elimini alla base lo sfruttamento e la sopraffazione.
È quindi importante riaffermare il paradigma di classe all’interno della teoria e della prassi per l’emancipazione femminile in quanto esso è l’unico, che, emancipando la stragrande maggioranza delle donne, le proletarie, è in grado di emancipare tutte le donne. È importante riaffermare il significato di lotta di classe così come lo intendeva Lenin, cioè lotta politica, cioè economica e culturale, lotta totale per scardinare il sistema capitalistico che è responsabile della barbarie a cui assistiamo e che subiamo ogni giorno, uomini e donne.
Come comunisti e comuniste, crediamo che combattere la violenza contro le donne non significhi soltanto condannare e denunciare qualsiasi forma in cui questa si presenti e condurre una battaglia serrata sul piano culturale, tra le fila della nostra classe e nella società intera, ma anche una battaglia politica per il rovesciamento del sistema di sfruttamento e oppressione capitalistico.
Il 25 novembre, così come l’8 marzo, dovrebbero essere giornate di lotta durante le quali si ricordi che l’emancipazione femminile da violenza e sfruttamento non è possibile senza l’emancipazione della classe tutta di cui fa parte anche la stragrande maggioranza delle donne e che questa può avvenire solo con il protagonismo delle donne proletarie, quindi le lavoratrici, le studentesse, le disoccupate, le casalinghe degli strati popolari, spalla a spalla con i compagni della stessa classe nella lotta per il rovesciamento di questo sistema.
Non è quindi retorico, bensì quantomai necessario affermare che la lotta per l’emancipazione femminile non è contrapposta alla lotta di classe e a quella per una società radicalmente diversa, ma al contrario, essa ne è parte integrante e necessaria e viceversa perché “Il proletariato non raggiunerà una completa emancipazione se non sarà prima conquistata una completa libertà per le donne”.