LA LEGGE DI BILANCIO 2025 E LA SUA NATURA DI CLASSE
La strategia del capitale e i vincoli di bilancio europei
La legge di bilancio 2025, la terza del governo Meloni, conferma l’impostazione strategica che il padronato italiano ed europeo hanno scelto di intraprendere negli ultimi anni. Questa strategia, in continuità con quanto fatto dai governi precedenti, mira a fronteggiare le incertezze, a cui la competizione imperialistica sottopone il capitale nazionale e continentale, attraverso l’erosione del salario diretto, indiretto (servizi pubblici) e differito (pensioni), per mezzo soprattutto dell’implementazione dei vincoli di bilancio dell’Unione Europea. Questo allo scopo di favorire la redditività del capitale privato e il ricorso sempre più massiccio al mercato per garantire servizi e diritti fondamentali. In altre parole, la competizione che si gioca globalmente sul rendimento dei capitali finanziari, le conseguenze della guerra commerciale con Cina e le altre potenze emergenti, della competizione all’interno dell’UE stessa nel mercato unico, i costi energetici e militari del supporto alla guerra in Ucraina e in Medio Oriente continuano a essere fatti pagare ai lavoratori e ai ceti popolari per mezzo di continui tagli ai servizi e ai salari.
I vincoli di bilancio, dopo la breve deroga negli anni peggiori della pandemia, riassumono in pieno la loro funzione di garantire questi tagli. Essi, con il nuovo patto di stabilità approvato in primavera, divengono se possibile ancora più stringenti: i famosi parametri del 60% (Debito/PIL) e del 3% (Deficit/PIL) rimangono validi e sono in alcuni aspetti resi ancora più incombenti. Infatti, si prevede, per i Paesi con un debito superiore al 90% del PIL, che debbano ridurlo di un punto percentuale ogni anno; per i Paesi con un debito compreso tra il 60% e il 90% si prevede una riduzione dello 0,5% annua. Gli Stati membri dovranno, inoltre, lasciare un cuscinetto fiscale pari all’1,5% del PIL al di sotto della soglia obbligatoria del 3%; per costituire questa riserva, l’aggiustamento annuale dovrebbe essere pari allo 0,4% del PIL (in caso di piani di rientro da quattro anni), che potrebbe essere ridotto allo 0,25% del PIL (nei piani di rientro da 7 anni).
La manovra va incontro a questi accordi, come anticipato, tagliando risorse soprattutto nel comparto del sociale. A fronte di stanziamenti ridicoli a favore delle famiglie a basso reddito, come ad esempio il fondo per il contrasto alla povertà alimentare a scuola, o di aiuti illusori come la prosecuzione a tempo indeterminato del taglio della contribuzione IRPEF per i redditi sotto i 40.000 euro (il taglio del “cuneo fiscale”), che si traduce nel pagare con risorse pubbliche una piccola fetta degli aumenti che dovrebbe essere a carico dei capitalisti, la legge di bilancio si distingue infatti, soprattutto, nella conferma di numerosi sussidi ai padroni.
Le misure presenti nel testo
Nel testo della manovra, il citato taglio al salario diretto, indiretto e differito viene realizzato innanzitutto con una sforbiciata di più di 12 miliardi di euro a ministeri (7,7 miliardi in meno) ed enti locali (5,6 miliardi in meno che possono arrivare fino a 8 nel 2037). Questo assetto è previsto continuare per i prossimi anni (per i ministeri tre, per gli enti locali fino al 2029 e oltre) e sarà più chiaro a partire dai primi mesi del nuovo anno, quando ministeri ed enti locali dovranno comunicare come intenderanno realizzare i tagli, contenere la spesa e congelare gli investimenti. Tagli lineari indiretti avvengono, poi, per mezzo di rinnovi contrattuali nel settore pubblico che sono insufficienti a compensare l’aumento del carovita, con incrementi ridicoli alle pensioni minime, anch’essi insufficienti a tenere il passo con l’inflazione, con un aumento del fondo sanitario anch’esso non in linea con l’aumento dei prezzi accumulato negli ultimi anni. Un aumento dei prezzi che, ricordiamo, coincide in ogni settore con un aumento dei fatturati dei padroni, come ammette persino questo articolo del giornale che fa riferimento a Confindustria.
L’impostazione della manovra è, in generale, restrittiva, in quanto è volta a ridurre il deficit di bilancio, dal 3,7% del PIL del preconsuntivo 2024 al 3,3% nel 2025, al 2,8% nel 2026 e al 2,6% nel 2027. Le due misure di facciata della legge di bilancio, quelle su cui l’esecutivo ha puntato di più sul piano politico, sono il già accennato taglio del cuneo fiscale e la conferma della riduzione delle aliquote IRPEF, che porterà un beneficio ai redditi tra 15.000 e 28.000 euro. Il raggiungimento di questi obiettivi, coerentemente con l’impostazione restrittiva della manovra, è però finanziato con provvedimenti che danneggiano l’efficienza del servizio pubblico, come i tagli agli enti locali e ai Ministeri che abbiamo visto, e da un anticipo di imposta pagato da banche e assicurazioni che dovrà essere ad esse restituito tra il 2027 e il 2029 – a dimostrare il carattere illusorio di tali benefici, che dovranno essere ripagati sempre con lo sforzo delle casse pubbliche.
Anche dagli ultimi emendamenti approvati dal governo nel mese di dicembre si può constatare come il piatto della bilancia dei pochi fondi a disposizione penda tutto a favore degli aiuti alle imprese.
Spicca, ad esempio, il taglio dell’IRES (l’imposta sul reddito delle società) dal 24% al 20% per le imprese che assumono e che investono, le quali dovranno solo rispettare delle condizioni, come una quota non inferiore all’80% degli utili di esercizio che dovrà essere accantonata e almeno il 30% degli utili accantonati che dovrà essere destinato agli investimenti. In pratica si regalano soldi pubblici alle imprese per far loro fare quello che conviene soprattutto agli stessi padroni: investimenti ed espansione dell’attività, mentre le retribuzioni dei lavoratori resteranno allo stesso livello. Allo stesso modo, la manovra 2025 proroga per tutto il prossimo anno le regole di operatività del fondo di garanzia per le PMI previste per il 2024 dal DL Anticipi, che ha rimodulato le coperture e confermato l’importo massimo per impresa di 5 milioni di euro. Altri soldi alle imprese sono confermati attraverso il Piano Transizione 5.0, il sostegno alla trasformazione digitale ed energetica delle aziende, che offre crediti d’imposta a seconda degli investimenti con risparmio energetico, con il primo scaglione di investimenti che passa da 2,5 a 10 milioni di euro, mantenendo le aliquote più alte dell’attuale primo scaglione. Questo significa che le aliquote del primo scaglione si applicheranno anche al secondo scaglione, rendendo la misura più attrattiva senza necessità di aumentare le aliquote.
Credito d’imposta anche per le imprese che investono nella Zona Economica Speciale unica del Mezzogiorno, che viene incrementato fino a 2,2 miliardi di euro. Oltre questo, le piccole e medie imprese del Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia) beneficeranno di una nuova decontribuzione al 25% per le assunzioni a tempo indeterminato – questa agevolazione sarà ridotta al 20% nel 2026 e 2027.
Poi, il gran finale: la Lega, per finanziare il Ponte sullo Stretto di Messina, fa tagliare 1,5 miliardi dal Fondo di Sviluppo e Coesione, che serve per la manutenzione delle strade nelle regioni meno sviluppate. Una cosa simile era stata fatta lo scorso anno. Si stanzia, infine, un miliardo in più alla TAV Torino-Lione mentre soli 200 milioni vanno, ad esempio, alla Sibari-Catanzaro.
La conclusione da trarre è la solita: la manovra riflette il ricatto delle imprese che per assumere e investire vogliono sempre e solo soldi pubblici e miliardi gettati nel calderone delle grandi opere inutili, mentre le infrastrutture del territorio attendono manutenzione per decenni.
Di fronte a tutto ciò, la spesa militare e la spesa per gli interessi sul debito pubblico sono in continuo aumento: la prima dovrebbe subire un balzo da record nel 2025, con un aumento del 7,31% rispetto all’anno in corso, e addirittura del 61% nell’ultimo decennio mentre la seconda è stimata arrivare a circa 90 miliardi nel 2025.
Contestare la manovra senza combattere il mercato unico e la classe capitalista?
Le disposizioni presenti nella legge di bilancio rendono evidente la natura di classe della manovra, che va a servire gli interessi dei capitalisti a discapito di quelli delle famiglie proletarie, e gli interessi dei monopoli che investono sulla guerra imperialista e sui titoli finanziari. Una manovra che garantisce il profitto dell’imprenditoria domestica in un’epoca di crisi sistemica. Nei mesi scorsi abbiamo assistito a contestazioni e scioperi che, spesso, non hanno saputo o voluto cogliere il punto della natura spiccatamente di classe della legge di bilancio, focalizzando l’attenzione, soprattutto, sulla generica contestazione verso la “scarsa crescita” del Paese o verso le misure antipopolari, senza identificare un preciso strato sociale come responsabile e delle precise istituzioni come strumento della classe borghese per reprimere le istanze dei lavoratori, come l’UE e la NATO.
La realtà è, però, che esiste una compiacenza e complicità con determinate decisioni politiche che proviene dalla maggior parte della borghesia e dell’imprenditoria domestica, sia grande che piccola, che trae beneficio dal mercato unico, dalla libera circolazione dei capitali e dai conseguenti vincoli di bilancio alla spesa pubblica. Basti pensare, ad esempio, che la maggior parte dei titoli finanziari e dei titoli di Stato – in una fase di sempre maggiore fusione del capitale industriale e finanziario – sono nelle mani di questa classe sociale, che comprende anche la piccola imprenditoria. Le rendite di questa classe sono favorite dalla struttura del mercato unico europeo, da disposizioni come, ad esempio, il divieto che ha la Banca Centrale di sostenere direttamente il Tesoro e la spesa pubblica dei governi e dalla possibilità di ricerca di rendimenti migliori nell’ampio spettro del mercato continentale, attraverso strutture monopolistiche come i fondi d’investimento che gestiscono vari tipi di risparmi.
I mercati di riferimento degli imprenditori italiani, anche dei piccoli e medi sono, poi, quelli europei, in particolare quello tedesco, grazie ai quali sopperiscono al crollo del potere di acquisto dei proletari italiani. Infine, le istituzioni europee sono state negli anni le massime garanti della repressione salariale e questo è un elemento che i padroni italiani non vorrebbero mai perdere, anche a costo di sopportare manovre di bilancio che infieriscono sulla già debole domanda interna e sull’efficienza della macchina statale. Che le imprese abbiano interesse a intraprendere questa strategia è testimoniato dai dati. Dalle informazioni sul fatturato delle aziende italiane di medie e grandi dimensioni si legge infatti che, nel 2023, questo risultava superiore del 34% rispetto a quello del 2019, l’ultimo anno prima dello choc pandemico. La crescita del valore aggiunto – cioè la ricchezza creata dalle imprese realizzando prodotti con l’utilizzo degli elementi base – risultava invece superiore del 33% rispetto al 2019. La crescita del fatturato è dovuta in parte all’inflazione, che si conferma quindi connessa all’aumento dei prezzi da parte delle imprese al principale scopo di ingrassare i profitti. Inoltre, nel corso di quei quattro anni, mentre i fatturati aumentavano la quota confluita nei redditi da lavoro scendeva addirittura del 12%.
Le piccole imprese, infine, nonostante la comune retorica che le vede in difficoltà a causa della competizione internazionale, oltre a essere tra le protagoniste dell’export italiano nel mondo, si mostrano solide e, addirittura, in rafforzamento.
Una conclusione politica
Ciò che si deduce dai dati sopra riportati è che non può esserci una vera opposizione alle misure antipopolari delle ultime leggi di bilancio senza affrontare alla radice gli interessi della classe padronale e le istituzioni che essa utilizza per garantirli. Il fatto che i settori dominanti della borghesia traggano beneficio dalle politiche promosse da leggi di bilancio come questa, significa che un contrasto alle manovre del governo non potrà fare a meno di un rilancio della conflittualità delle lavoratrici e dei lavoratori sui luoghi di produzione, e di una riflessione sul da farsi per mettere in campo una risposta capace di affrontare adeguatamente gli attacchi padronali alle condizioni di vita e di lavoro. Alla luce dello stato generale del movimento operaio e sindacale in Italia si percepisce sempre di più l’assenza di un intervento sistematico orientato alla sua radicalizzazione. Milioni di lavoratori ancora iscritti ai sindacati confederali subiscono l’influenza del collaborazionismo delle loro burocrazie e questo dimostra quanto pesi la mancanza di una forza che abbia la capacità di intercettarli per metterli in connessione con le punte più avanzate, come quelle presenti nella logistica, espresse in questi anni dal sindacalismo di base. La forza che potrà opporsi a queste politiche, che sono tipiche di ogni formazione che negli ultimi anni ha partecipato a dei governi nel nostro Paese, sarà quella che si porrà l’obiettivo strategico del rafforzamento complessivo del movimento operaio e della ricomposizione dei suoi segmenti, mirando alla costruzione, innanzitutto, di un vero e forte sindacato di classe con alla base una piattaforma di lotta che difenda in maniera intransigente gli interessi immediati di tutta la classe lavoratrice.
La ricostruzione di un forte e cosciente movimento operaio nel nostro paese, però, non potrà prescindere, inevitabilmente, dal superamento del principale scoglio: la mancanza di un Partito Comunista che sia composto, effettivamente, dall’avanguardia organica del proletariato, da quadri operai che, partendo da un profondo radicamento nei luoghi di lavoro, riescano a svolgere un ruolo propulsivo nella diffusione della coscienza di classe e dell’organizzazione a livello sia politico che sindacale. La ricostruzione del movimento operaio potrà avvenire nel momento in cui esisterà un partito in grado di indicare alla classe nel suo complesso i suoi interessi immediati e storici, legando le questioni economiche a quelle politiche più generali come i rapporti tra le classi nel loro complesso, il ruolo dello Stato, delle istituzioni sovranazionali, la guerra imperialista, la questione ambientale. Ciò che impongono le leggi antipopolari che abbiamo esaminato è quindi la costruzione di un’organizzazione in grado di promuovere il conflitto di classe e indirizzare ogni singola vertenza alla meta finale portando la lotta di classe alle sue estreme conseguenze, con la consapevolezza che senza l’abbattimento dei meccanismi del mercato unico e del capitalismo in generale ogni inversione di rotta nelle politiche economiche, soprattutto in un’epoca di crisi sistemica tipica della fase putrescente del capitalismo, potrà essere solo parziale e temporanea.