Abbiamo il piacere di pubblicare un’intervista che ci è stata concessa da Alessandra Kersevan, che ringraziamo vivamente per il suo contributo. La professoressa Kersevan è una ricercatrice storica e autrice, specializzata nella storia del confine orientale nella prima metà del XX secolo, con particolare riferimento ai crimini di guerra italiani commessi durante l’invasione e l’occupazione dei territori dell’ex Jugoslavia, spesso omessi dalla narrazione storiografica nel nostro paese. Oltre alla redazione di diversi saggi e opere, Alessandra Kersevan ha costituito un gruppo di lavoro chiamato “Resistenza storica” facente riferimento alla casa editrice KappaVu, che ha fondato e di cui cura la collana dedicata agli studi sul confine orientale.
Riportiamo qui di seguito una serie di domande che abbiamo posto alla professoressa.
A proposito del 10 febbraio, nel resto del mondo questa ricorrenza ricorda la fine di un conflitto sanguinoso, mentre in Italia oggi assume un significato completamente diverso. Come interpreta questo fatto?
La premessa è che, in Italia, il 10 febbraio rappresenta una data revisionista, nel senso storico del termine. Il revisionismo è infatti una teoria sviluppata, soprattutto al termine della Prima Guerra Mondiale, da parte di una serie di paesi scontenti dei trattati di pace: da parte di questi paesi, insoddisfatti dei confini e degli assetti che si erano venuti a delineare, fu costituito un vero e proprio movimento finalizzato alla revisione dei trattati stessi.
In particolare, il fatto che in Italia si sia scelto di elevare a data simbolica con il nome di “Giorno del Ricordo” l’anniversario della firma del trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale rappresenta una precisa scelta revisionista. È infatti quella dell’istituzione del 10 febbraio una presa di posizione che attribuisce alla pace, e non alla guerra, la perdita di una parte del territorio nazionale e tutto ciò che ne conseguì.
Si tratta quindi di un segnale ben preciso, e reputo grave il fatto che persino quei parlamentari che si professano antifascisti non abbiano fatto nulla per arginare tutto questo. L’istituzione di questa data ha avuto, o potrebbe avere ancora in futuro, persino conseguenze internazionali. Se, infatti, in passato ci furono proteste da parte di Slovenia e Croazia contro il “Giorno del Ricordo”, sostenere una propaganda nazionalista che mette in discussione i confini sorti al termine della Seconda Guerra Mondiale potrebbe costituire un elemento di destabilizzazione dell’Europa in un periodo storico caratterizzato dall’aumento dei conflitti.
Il 10 febbraio è una ricorrenza particolarmente politica in cui l’investimento di partiti e organizzazioni di destra ed estrema destra negli ultimi anni è molto grande. L’operazione è riuscita? Quali sono le conseguenze?
L’operazione, almeno per ora, è sicuramente riuscita, soprattutto perché i partiti antifascisti non hanno reagito in maniera adeguata all’operazione dell’estrema destra. Dal punto di vista storico vi erano tutte le possibili argomentazioni per far fronte a questa narrazione, ma non sono state usate, quasi come se si trattasse di una sorta di accordo o consociativismo tra destra e sinistra parlamentare.
Alla base di questo vi è l’idea che il mondo odierno sarebbe completamente diverso da quello dell’epoca della Seconda Guerra Mondiale, e questa visione ha reso maturi i tempi per lo sdoganamento dell’estrema destra, epurata da ogni responsabilità storica delle azioni del fascismo.
Il Giorno del Ricordo, già dal nome, richiama come corrispettivo e contraltare il Giorno della Memoria. L’intento di accostamento è evidente ma se da un lato il Giorno della Memoria ci ricorda i crimini del governo fascista e la corresponsabilità nella tragedia dei campi di concentramento, dall’altra il Giorno del Ricordo assume i tratti di un lutto nazionale in ricordo di quella che viene presentata come una pulizia etnica subita dagli italiani. La sua istituzione sembrerebbe quasi un modo per dare ad ogni schieramento politico il proprio spazio di testimonianza. Ritiene che sia una chiave di lettura valida?
Sicuramente il fenomeno della garanzia di uno spazio di testimonianza a ciascuna area politica parlamentare esiste ed è stato voluto. L’accostamento tra Giorno della Memoria e “Giorno del Ricordo” viene reso anche plasticamente quando, per esempio, si assiste al fatto che iniziative pubbliche inerenti al primo vengono pubblicizzate esattamente insieme a quelle sul secondo, talvolta persino su uno stesso manifesto.
Oggi questa tendenza va ad assoluto vantaggio del “Giorno del Ricordo”, in quanto il Giorno della Memoria si basa su fonti storiche e su documentazione per lo più assodata – nonostante siano soggette a loro volta ad alcune interpretazioni; al contrario, il “Giorno del Ricordo” si basa sulle stesse argomentazioni promosse nel 1943 dalla propaganda nazifascista, accettata senza alcuna analisi successiva.
L’esempio più eclatante è la retorica sulla foiba di Basovizza, sulla quale sono presenti decine e decine di documenti incontrovertibili e di varia provenienza (persino angloamericana e italiana) che smentiscono infoibamenti presso quel sito, ma che non vengono presi minimamente in considerazione.
C’è difficoltà nel portare avanti ricerche che contraddicono la versione propagandistica degli avvenimenti delle “foibe”, rischiando di essere tacciati come negazionisti o riduzionisti. Questo avviene anche all’estero o è una caratteristica tutta italiana? Esiste il rischio concreto di uno stravolgimento degli avvenimenti della ricostruzione storiografica che travalica il dibattito politico?
In Italia questo tipo di revisionismo storico è stato particolarmente forte e influente anche al livello politico, e ha fatto leva su un nazionalismo e un antislavismo diffuso nel nostro paese anche a sinistra. Ogni argomentazione volta a screditare la Jugoslavia e l’Esercito Popolare di Liberazione viene presa per buona senza che sia necessario alcun tipo di documentazione a sostegno di tali tesi. In questo quadro di narrazione viene ritenuto credibile tutto.
Quando si parla dei fatti del confine italo-jugoslavo viene meno ogni principio di ricorso a fonti, contestualizzazione, utilizzo di un metodo storiografico. Al contrario negli ultimi decenni in Italia ci sono stati moltissimi episodi di vera e propria censura, mentre si prendono per buone come una sorta di “verità rivelata” documenti prodotti sia dai servizi segreti italiani, sia, precedentemente, dai servizi segreti della X MAS e della Germania hitleriana, che vengono ancora oggi usati per questa enorme propaganda. Tra questi episodi di censura va citato senz’altro il documentario della BBC ‘Fascist Legacy’, che non è mai stato trasmesso dalla Rai, nonostante lo Rai lo avesse acquistato e doppiato.
Le argomentazioni antislave sono facilmente smentibili, in quanto il contributo della Jugoslavia alla vittoria contro il fascismo fu indiscutibile, e i partigiani jugoslavi senza alcun aiuto riuscirono a tenere impegnato un numero di divisioni italiane e tedesche che, se fossero state scagliate contro l’Unione Sovietica o gli angloamericani, sarebbero state decisive, almeno per un periodo rilevante. Dopo la guerra la Jugoslavia ebbe il merito di far convivere pacificamente e in condizione di parità di diritti nazionalità che, come affermò la narrazione promossa negli anni novanta si erano sempre fatte la guerra (fatto non vero, peraltro). Per questo, ridurre la Jugoslavia, il suo Esercito Popolare di Liberazione e la figura di Tito a dei “boia massacratori di italiani” oltre ad essere falso è un’infamia storica di cui il Parlamento italiano, quasi nel suo complesso, è responsabile.
Ciò nonostante, anche nel resto d’Europa sono presenti movimenti revisionisti, che ad esempio in Germania stanno diventando piuttosto virulenti e potenzialmente pericolosi. Va però detto che su questo filone l’Italia ha “dato il la”, dimostrando che si poteva sdoganare questa narrazione falsa anche a favore di interessi politici attuali. Tajani, presidente del Parlamento Europeo all’epoca e oggi Ministro degli Esteri, nel 2019 alla foiba di Basovizza chiuse il suo discorso dichiarando “Viva Istria e Dalmazia italiane”: questo suscitò reazioni – piuttosto blande, a dire la verità – di Slovenia e Croazia. Una dichiarazione del genere è gravissima.
Immaginiamo cosa succederebbe se l’ultradestra tedesca, oggi molto in crescita, si mettesse a rivendicare i territori persi dopo la Seconda Guerra Mondiale come la Pomerania Orientale. È preoccupante che già da molti anni si registri una collaborazione tra le “associazioni” degli esuli (che promuovono questa narrazione nazionalista) italiani e le controparti tedesche, non è un fatto da sottovalutare. Alla fine qualcuno potrà usare questi strumenti, questo substrato narrativo che è stato costruito negli anni, magari per togliere dei diritti a qualche minoranza nazionale o rimettere in discussione dei confini a fronte dei mutati rapporti di forza tra gli Stati.
Un atteggiamento, quindi, quello della messa in discussione della retorica istituzionale sulle “foibe” e sul “Giorno del Ricordo”, che viene solo pretestuosamente associato a “negazionismo”?
Nella maniera più assoluta. Non si tratta di negare – cosa peraltro che nessuno storico ha mai fatto – che vi siano state persone uccise nella tragica vicenda del confine orientale italiano. Si tratta al contrario di inserire questi fatti nella più grande vicenda della Seconda Guerra Mondiale e della storia del fascismo. Non farlo significherebbe soltanto trasformare quelle vicende in uno scontro fra popoli, da utilizzare strumentalmente a fini politici, oltre a costituire un grimaldello per permettere ai neofascisti di riciclarsi.
L’unico “negazionismo” è quindi quello di quanti omettono di citare o minimizzano il fatto che fosse stata proprio l’Italia ad aggredire un paese, l’allora regno di Jugoslavia, senza neppure dichiarare guerra, ad annettere interi territori provocando la morte, veramente in questo caso, di decine e decine di migliaia di persone. Non riconoscere l’importanza di questa realtà rispetto a quello che è successo su questo confine è semplicemente pretestuoso.
Una delle questioni più contese riguarda i numeri delle vittime e la loro appartenenza. Fa davvero la differenza il mero dato numerico?
Quando si parla del dato numerico le argomentazioni nazionalistiche e revisioniste sul confine italo-jugoslavo cadono persino nel ridicolo. A volte sentiamo dire che il numero delle vittime non conta in quanto “se anche un solo italiano fosse stato ucciso sarebbe comunque stato un crimine”. Evidentemente queste affermazioni non sono vere neanche per quanti le sostengono, visto l’impegno profuso nell’aumentare a dismisura e senza alcuna fonte reale questo conto.
Perché ad esempio non sentiamo mai dire che in Istria il numero di morti documentato si aggira tra i 200 e i 300, mentre a Trieste sono stati solo alcune decine i cosiddetti “infoibati”, mentre altri numeri, dell’ordine di poche centinaia, sono morti nei campi per prigionieri di guerra jugoslavi, mentre ad esempio a Basovizza non ci sono stati infoibamenti?
Perché elevare la foiba di Basovizza a monumento nazionale quando persino alcuni storici come Raoul Pupo, dopo aver partecipato alla propaganda riguardante quel sito, ammettono alla luce dei documenti che smentiscono gli infoibamenti – che in quella misura non sono avvenuti neanche da altre parti – che Basovizza non sarebbe altro che un cenotafio, ossia un monumento che ricorda le vittime ma non contiene corpi? Questo non è però quello che è stato sostenuto dalla propaganda nazionalista dei governi.
A volte gli storici preferiscono rimanere in una sorta di “limbo storiografico” e non esprimersi, lasciando che la propaganda nazionalista citi numeri inverosimili; si arriva dai centomila infoibati citati da Paolo Mieli a un milione di vittime come detto a suo tempo da Gasparri. In questo modo personaggi di questo calibro riescono a indirizzare il dibattito sul tema delle “foibe”.
Il governo Meloni ha recentemente approvato la prossima fondazione di un “museo per il ricordo delle foibe” a Roma, che arriverà a costare ben 8 milioni di euro. Che valutazione dà di questa decisione?
In base a quello detto finora, è chiaro che questa si tratta di un’operazione puramente propagandistica, tramite la quale avranno la capacità di trasmettere questa narrazione fuorviante a decine, centinaia di migliaia di studenti – come succede già alla foiba di Basovizza, dove c’è già il museo – raccontando ai giovani cose che non sono vere: bisognerebbe riflettere sul danno che si fa su intere generazioni. La narrazione sulle foibe diffonde odio, non è neutra non solo dal punto di vista storico, ma anche dal punto di vista emotivo e morale: le foibe ci sono state perché gli slavi odiano gli italiani, stravolgendo del tutto la realtà, poiché era l’esercito italiano a giocare il ruolo dell’invasore della Jugoslavia, obbligando gli sloveni e i croati della Venezia Giulia a italianizzare i nomi, imponendo l’italiano come unica lingua e vietando di frequentare scuole basate sulla loro madrelingua.
A questo faceva seguito una propaganda nazionalista di superiorità e legata al tema dei portatori di civiltà. Il fatto che si continui ad alimentare questa idea del ruolo degli italiani verso le nuove generazioni è un fatto di una gravità enorme, soprattutto rispetto al momento storico che stiamo vivendo in cui sempre più il tema della guerra è quotidiano.
Io penso che questi pensieri che vengono trasmessi preparino un panorama in cui si possa accettare un ruolo nei conflitti da parte dell’Italia più diretto rispetto a quello a cui assistiamo oggi. Come dicevo oltre a questo progetto di museo, c’è già il museo della foiba di Basovizza, c’è il museo del “Magazzino 18”, ci sono già diversi luoghi in cui chi vuole può (dis)informarsi su questo argomento. L’avvio di un nuovo progetto, con 8 milioni che non sono pochi, nella città di Roma – quindi più centrale e raggiungibile dalla comunità accademica, degli storici, anche a livello internazionale – a mio parere è pericoloso dal punto di vista storico.
Uno dei miti chiave della propaganda vecchia e nuova sulle “foibe” è quello legato alla figura di Norma Cossetto, una giovane donna sulle cui circostanze di morte c’è stata negli ultimi anni un’impennata di speculazione. Chi era Norma Cossetto, cosa si sa in modo attendibile e cosa è stato falsificato, come ad esempio nel libro “Foibe rosse” di Sessi e nel film “Red Land”, e che ruolo ha questo specifico mito nella più ampia narrazione sulle vicende al confine istriano?
Di vero c’è che Norma Cossetto è esistita ed è morta, ma cosa lei abbia pensato veramente nella sua vita e su come sia morta è tutt’oggi aleatorio. L’argomento Norma Cossetto è un sovrapporsi di narrazioni che si sono susseguite nel tempo, tant’è vero che – come dimostra Claudia Cernigoi in un suo studio – le teorie sulla sua morte sono 5-6 narrazioni completamente diverse, rispetto alle circostanze, le modalità, le conseguenze.
Quello di Norma Cossetto è uno dei tanti casi che rappresenta il modo in cui oggi si creano quelle che vengono chiamate leggende metropolitane, anche se la sua oggi è ormai leggenda nazionale. Di fronte alla cristallizzazione del mito, qualsiasi analisi storica documentata non ha la forza di scalfirlo in quanto già al di fuori della dimensione storico-scientifica. Alcuni elementi che hanno contribuito al mito sono legati al fatto che si è trattato della figura di una donna, che avrebbe subito una violenza, innestando quindi il mito su di un filone narrativo odierno di sensibilità su questi argomenti.
È una narrazione basata sul nulla: “Red Land” si basa sul libro di Frediano Sessi, uno storico considerato antifascista che ha trattato la Resistenza, ha partecipato insieme ad un grande storico come Enzo Collotti al Dizionario della Resistenza. Eppure, Sessi ha scritto questo volume Foibe rosse sulla storia di Norma Cossetto raccontando alcune cose sulla sua vita in base a documentazione, per poi affermare letteralmente: “fin qua i fatti documentati, adesso invece, dal momento che non c’è documentazione, immaginiamo un suo diario”. In questa seconda parte, racconta di come lei sarebbe stata arrestata, assassinata eccetera: ma l’autore stesso chiarisce che si tratta di un’invenzione, eppure questa invenzione viene citata ormai da tutti, grazie anche al film basato su questa invenzione, trasformandosi in questo modo in verità. Aggiungo che questo film è stato anche finanziato con fondi pubblici, come anche la precedente miniserie Il cuore nel pozzo voluto fortemente proprio da Gasparri che allora era ministro. Quest’ultima produzione sfruttò il meccanismo del coinvolgimento di attori ritenuti e percepiti come antifascisti per dare ulteriore credibilità all’operazione.
Secondo lei il Giorno del Ricordo andrebbe abolito? Rimodulato? Come andrebbe costruita, specialmente tra le nuove generazioni, una corretta consapevolezza sugli argomenti in questione, della barbarie della Seconda Guerra Mondiale e delle politiche criminali del fascismo?
In generale non credo nella proliferazione dei Giorni (della Memoria, del Ricordo, eccetera). La storia andrebbe sempre ricordata nei vari suoi momenti che non sono separabili gli uni dagli altri, valutati nella loro consequenzialità e nel loro intreccio dei fatti. Per quanto riguarda il Giorno del Ricordo, si basa su una narrazione completamente falsa in parte, male interpretata in alcune parti, parziale in altre. L’articolo di legge che lo istituisce infatti fa riferimento ad “una più complessa vicenda del confine orientale”, ma della complessa vicenda non si parla quasi mai.
Anche il rapporto causa-effetto tra le vicende narrate andrebbe sconvolto: la più complessa vicenda infatti viene prima delle foibe e dell’esodo, e questi ultimi sarebbero semmai conseguenze. La più complessa vicenda consiste nel fascismo, nell’avversione alla Jugoslavia, nell’annessione delle province di Lubiana, Spalato e Cattaro, nella repressione terribile subita dai popoli jugoslavi, tutti fatti che non vengono mai ricordati. Sicuramente nonostante non apprezzi i Giorni, come detto prima, questa però sarebbe una storia da insegnare ai giovani ma anche agli adulti nella sua interezza e nella sua concretezza documentale: a scuola invece oggi si insegna altro.
Negli ultimi anni ci sono stati circa 200mila visitatori alla foiba di Basovizza, per la gran parte studenti: accumulando questi numeri di anno in anno viene fuori che moltissimi studenti italiani, in un modo o nell’altro, hanno avuto modo di visitare qualche luogo, qualche monumento legato a questa narrazione. Quando e se le persone riusciranno a sapere come stanno veramente le cose sarà uno shock, talmente grande che si cercherà di fare di tutto per impedire questa presa di consapevolezza: non è altrimenti credibile che documenti come quelli sulla foiba di Basovizza non vengano resi noti a tutti gli italiani.
Il tema quindi è quello della necessità di una nuova consapevolezza, su una narrazione che ribalta volutamente i nessi storici di causa-effetto. Non ci sembra che esista in Italia la consapevolezza reale, e sicuramente non è stata promossa dai governi “antifascisti”, su cosa abbia significato il fascismo in quel periodo e in quei luoghi. Ad esempio il mito del colonialismo italiano “buono” e civilizzatore, cosa ci può dire su quest’altra narrazione che a sua volta fa da “cappello” a quella sulle foibe?
La narrazione che quello italiano sia stato un colonialismo buono presuppone la cancellazione della verità sulle armi chimiche di Badoglio e Graziani in Etiopia, le impiccagioni e i campi di concentramento in Libia, l’aggressione alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica. Si sfrutta il fatto che, facendolo passare come valutazione generale dell’operato dell’esercito italiano, alcuni soldati avessero dimostrato, nei confronti delle efferatezze che venivano ordinate dagli alti comandi, la non condivisione o la volontà di ribellione – e ce ne sono stati tanti -, oppure avessero dimostrato umanità nei confronti delle popolazioni. Ci sono sempre in tutti gli eserciti i soldati che non obbediscono senza farsi domande, specialmente negli eserciti basati sulla coscrizione: ma oggi di quegli ordini dei generali sappiamo tutti i dettagli ed erano ordini criminali.
Sempre sul tema della narrazione sulle “foibe”, abbiamo già pubblicato su L’Ordine Nuovo “Foibe: falsa memoria e falsa coscienza”, “Contro le menzogne della verità ufficiale, intervista a Claudia Cernigoi”, “‘E allora le foibe?’ Intervista a Eric Gobetti”.