“Ripartire dal turismo” è uno degli auspici che più spesso abbiamo ascoltato provenire da politici, associazioni e amministratori borghesi in Italia, sia nelle regioni carenti di distretti industriali sia in quelle più avanzate nello sviluppo economico. Alla completa destagionalizzazione delle attività turistiche che hanno interessato i luoghi di mare e le città d’arte negli ultimi tempi ha fatto il paio, in parallelo, un riferimento al turismo “buono per tutte le stagioni”, sia al fine di promuovere il rilancio economico di aree strutturalmente depresse in un’epoca in cui, nel nostro Paese, i servizi e i settori a bassa innovazione sono quelli più in crescita, sia al fine di dare prestigio alle metropoli.
Quello che viene a mancare, nel dibattito corrente, è un’analisi di classe, dal punto di vista dei lavoratori, del fenomeno turistico, che illustri come il modello produttivo capitalista definisca inesorabilmente i caratteri dell’economia e dell’esperienza turistica in funzione del profitto sotto diversi aspetti: la qualità del lavoro nel settore, le modalità esperienziali, l’impatto del fenomeno sul territorio. Un’analisi che, in altre parole, spieghi il perché di così tanta attenzione attribuita al turismo dal capitale oggi.1
Su questo giornale abbiamo parlato in passato delle condizioni dei lavoratori stagionali del turismo nello specifico. Quello che intendiamo fare con questo articolo è estendere e approfondire la questione, esaminando lo studio portato a termine in Calabria da Franco Capalbo, cultore della materia del corso Turismo, Formazione e Occupazione presso l’Università della Calabria. Con il suo primo libro pubblicato, “Perché la Calabria non dovrebbe campare solo di turismo” – dal quale i dati e le analisi di questo articolo provengono – Capalbo ha saputo mettere a nudo le contraddizioni che il turismo in una cornice capitalistica esprime, a discapito di chi ci lavora e dei territori che devono assorbire il fenomeno del turismo di massa.
La parola ai lavoratori del turismo
Iniziamo questa disamina dall’analisi delle condizioni dei lavoratori del turismo, tema al quale l’autore del libro ha dedicato una grande mole di ricerche sul campo. Quello che si nota immediatamente è la crescita esponenziale del carattere precario e insufficiente del lavoro nell’ambito del turismo: nel 2022, nel settore turistico italiano, più di 4 lavoratori dipendenti su 10 avevano un contratto a tempo determinato (44,8% del totale, dato in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2021), mentre, in riferimento alla modulazione dell’orario di lavoro, la tipologia più ricorrente era quella parziale, in cui confluiva il 52% dei lavoratori. Un report di Federalberghi in collaborazione con Ebnt e Incipit sull’economia turistica del 2022 sottolineava che dei circa 944.000 dipendenti previsti in entrata il 71% era a tempo determinato (6% apprendisti; 10% a chiamata; solo il 12% a tempo indeterminato, percentuale crollata di 10,5 punti percentuali rispetto al 2019). Tale logica di frammentazione e precarizzazione delle occupazioni è adottata dalle imprese turistiche per massimizzare le entrate, riducendo i costi fissi del lavoro.
Riportiamo ora alcuni dei dati scoperti dall’autore tramite sondaggi effettuati su scala nazionale: «il 30% dei lavoratori turistici dichiara di non godere di alcun giorno libero settimanale (al contrario di quanto previsto all’interno del CCNL). Circa l’80% dei rispondenti afferma di lavorare per un minimo di 7 ore al giorno fino a un massimo di 11, il 12% anche 12 o più. Al 13% è capitato di non ricevere il compenso pattuito per il lavoro svolto. [Per quanto riguarda] le eventuali discriminazioni e gli abusi subiti sul posto di lavoro, poco meno del 30% denuncia di esserne stato vittima (nel 2022, in un questionario simile, la percentuale era del 36,5%). Il 64% di chi denuncia abusi o discriminazioni subiti è di sesso femminile. Al 25% è capitato di abbandonare il posto di lavoro nel pieno della stagione estiva, e ben 8 lavoratori su 10 hanno pensato di lasciare in via definitiva l’impiego da stagionale per motivi di sfruttamento, precarietà contrattuale, schiavismo, stress psicofisico e altro ancora. Fare lo stagionale, infatti, comporta seri rischi per la propria salute fisica e mentale. Il 75,5% dei rispondenti ammette di soffrire di patologie legate al lavoro svolto».
Le organizzazioni sindacali faticano a fornire un supporto reale ai lavoratori del turismo, e molte di esse, a causa di carenze organizzative e arretratezza politico-sindacale, sono meno propense a radicarsi in un settore che difficilmente può fornire con piccoli sforzi un grande introito sul piano economico e del tesseramento. I sindacati confederali, meglio organizzati e con più risorse (e quindi più presenti sul territorio) sono spesso visti dai lavoratori come fornitori di servizi amministrativi e fiscali, e non come l’arma per l’auto-organizzazione dei lavoratori nella lotta per il salario, l’orario, eccetera. Infatti, un questionario elaborato e somministrato dall’autore del libro a settembre del 2023 circa il sostegno ricevuto dai sindacati riporta che il 56,6% dei rispondenti totali (177 risposte) ha valutato in modo negativo la propria esperienza diretta con essi. In una scala di valutazione del grado di soddisfazione, il 21% ha dato voto 0 (esperienza del tutto insoddisfacente).
Se guardiamo i contratti del settore turistico, infine, sempre Franco Capalbo scrive nel suo libro che, in una rilevazione da egli stesso fatta, il 75% degli intervistati dichiara di averne stipulato uno, mentre una ridotta percentuale dichiara di lavorare in nero e il 10% di aver stipulato un falso part-time per quello che è un lavoro full-time a tutti gli effetti, tranne che per l’aspetto retributivo. Proseguendo, 4 lavoratori su 10 dichiarano di percepire uno stipendio mensile che rientra nella fascia € 1.000-1.500, mentre il 10% dichiara di percepire meno di € 1.000. Rispetto alla stagione estiva del 2022, il salario medio è rimasto invariato per il 51% degli intervistati, mentre il 33% dei rispondenti dichiara di averne percepito uno inferiore anche del 15-20%. Solo il 15%, invece, ha riscontrato un aumento della retribuzione del 5-10%. 7 lavoratori su 10 percepiscono da € 5 a € 10 all’ora, mentre il 12% dichiara di ricevere una retribuzione inferiore a € 5 all’ora.
Il quadro generale che esce fuori è quello di un settore economico nel quale la concorrenza si gioca molto sulla repressione salariale più che su forme di innovazione, con salari sempre più bassi rispetto al costo della vita e inquadramenti sempre più precari. La caratteristica frammentazione delle unità produttive, che raramente presentano grossi agglomerati operai, e la diversificazione contrattuale dei lavoratori rendono a loro volta molto difficile l’organizzazione sindacale e le lotte conflittuali.
Gentrificazione e mercificazione
Un secondo carattere che la ricerca di Capalbo ha messo in luce è la tendenza alla gentrificazione dei centri urbani e l’estrattivismo al quale il turismo sottopone i territori. Il tutto, secondo l’autore, va inquadrato in una logica di sviluppo e di investimento sempre finalizzata al turista (e al mercato) e, ovviamente, mai al residente. L’estrattivismo – lo sfruttare in maniera intensiva l’ambiente e le risorse del territorio senza, peraltro, apportare alcuna innovazione organizzativa o tecnologica – amplifica il fenomeno di gentrificazione per cui la popolazione residente è espulsa dalle zone in cui si era insediata. Un fenomeno del genere è «riscontrabile nell’area tirrenica superiore calabrese, in particolare in località turistiche come Scalea e San Nicola Arcella, mete che, nel corso degli anni, hanno subìto una vera e propria invasione da parte di cittadini provenienti perlopiù dalla Campania. Questi, col passare del tempo, hanno iniziato a interessarsi all’acquisto degli immobili e delle attività commerciali del posto; perciò, anno dopo anno, si è assistito a una sorta di spodestamento della comunità locale in favore di quella turistica. Ciò ha modificato i connotati stessi delle due località, diventate ormai delle vere e proprie colonie estive».
In tale contesto, le città, con i propri territori, modellano gli spazi attraverso una massiccia mercificazione di risorse non tanto per il benessere dei propri abitanti, quanto piuttosto per attirare quanti più turisti possibili. Da ciò deriva un vero e proprio stravolgimento delle città stesse, che «diventano luoghi di passaggio sempre meno abitabili in cui la popolazione da stanziale diventa intermittente». Tutto questo causa un crollo della qualità della vita per i proletari residenti, che si trovano ad abitare una città pensata non per loro, ma per un flusso di turisti di passaggio. Questo porta a una mancanza di strutture di consumo, a problemi di accessibilità economica, culturali e di stile di vita, alla privatizzazione dello spazio pubblico.
A tutto ciò si collega una interessante riflessione sulla mercificazione delle esperienze, la cui natura viene trasformata radicalmente dagli stessi meccanismi di un capitalismo che predilige il consumo fine a sé stesso e continuo. Il viaggio, infatti, è diventato «un’attività ossessivo-compulsiva in cui l’economia predatoria ed estrattiva del capitalismo affonda le sue radici. I paesaggi fungono solo da contorno, e vengono messi in secondo piano in favore di esperienze da consumare in breve tempo. La cosa importante, nel turismo moderno, non è la scelta della meta ma il muoversi, fare, essere da qualche parte, ovunque, ma non qui». Nella società dei consumi, anche i turisti diventano viaggiatori-consumatori al banchetto delle mete turistiche, che rappresentano le portate da mangiare una dopo l’altra. Il turista moderno, perciò, ha carattere colonialista e predatorio. Il mondo deve appartenergli: «non importa ciò che visita, ma il non restare fermo. Il sistema capitalista non accetta la lentezza, e l’esperienza turistica non ne è immune».
Come si riflette tutto questo sulla cura dell’ambiente? Nella cementificazione selvaggia delle coste, ad esempio. Nel 2021 la Calabria era al secondo posto in Italia per numero di reati in riferimento al ciclo illegale del cemento nelle regioni costiere (nel 2022 sarebbe scesa al quinto, ma i reati denunciati sarebbero stati ancora tanti: ben 1.086, ovvero il 13,4% del totale nazionale; oltre mille persone sarebbero state denunciate o arrestate e ci sarebbero stati 467 sequestri, il numero più alto tra le regioni della penisola). Uno dei casi di illecito citato nell’edizione 2022 del report di Legambiente è quello di Stalettì, comune in provincia di Catanzaro, dove nel 2020 sono state sequestrate 71 villette abusive che erano state edificate a pochi metri dalla battigia, in un’area a vincolo paesaggistico. Tale attività rientra all’interno di quelle strategie di sviluppo turistico che ebbero luogo in Calabria tra il 1970 e il 1980 e che riguardavano proprio la costruzione abusiva e la cementificazione distruttiva di paesaggi costieri. Basti pensare che «quasi il 30% del suolo entro i 300 metri dalla costa è occupato, mentre la media italiana si attesta attorno al 22% (sempre in riferimento ai comuni entro i 300 metri dalla costa). Tali costruzioni sono edificate a ridosso delle coste al fine di spingere i turisti a comprare o ad affittare. Non a caso, nel 2019 il settore degli alloggi in affitto gestiti in forma imprenditoriale è cresciuto di quasi il 10% rispetto agli anni precedenti». La devastazione ambientale e l’inquinamento, ovviamente, vanno soprattutto a discapito della classe lavoratrice che non può permettersi resort di lusso e viaggi costosi, dovendo “accontentarsi” di usufruire, per il proprio tempo libero, dell’ambiente circostante.
Perché tanta enfasi sul turismo?
Il turismo è un settore che negli ultimi anni, come abbiamo detto, ha acquisito un tale “prestigio” nel dibattito economico da diventare quasi una panacea per la crisi economica e per tutti i mali dell’Italia: «Il turismo volano dell’economia nazionale lo è davvero, con un minimo di organizzazione possiamo passare dal rappresentare il 13% del Pil al 20%» (da Massimo Garavaglia, ex Ministro del Turismo). Qui non interessa tanto schierarsi con uno o l’altro dei settori economici nella guerra intestina fra padroni e capitali, interessa più che altro capire quali interessi di classe ci celano dietro una tale propaganda circa le capacità “terapeutiche” del turismo.
In realtà, infatti, come scrive ancora Franco Capalbo nel suo libro, la famosa percentuale del 13% citata da Garavaglia altro non è che un misto di attività connesse al turismo e altre da esso slegate, senza distinzione alcuna tra la reale incidenza e l’appartenenza al settore delle attività economiche. Il Centro Satellite del Turismo (CST), partendo da un’analisi della tipologia dei prodotti, evidenzia alcuni coefficienti turistici delle attività economiche (definiti come la quota di produzione destinata alla domanda turistica). I prodotti più caratteristici del turismo hanno coefficienti maggiori: 98,7% per gli alberghi; 99,3% per le agenzie di viaggio; 99,5% per il trasporto aereo. Mentre nei settori in cui la mescolanza tra spesa turistica e non turistica è più evidente l’incidenza è minore: servizi di ristorazione 23,3%; shopping 13,2%. L’analisi fatta nel 2017 dal CST ha, quindi, delimitato le attività connesse al turismo, misurandone l’effettivo peso sul PIL. A tal proposito: «Il valore aggiunto turistico, derivante dalla sola quota turistica sia delle industrie strettamente turistiche, sia di tutte le altre che compongono l’intera economia, si attesta sui 93 miliardi di euro, con un aumento del 6,2% rispetto al 2015 e un peso del 6% sul valore aggiunto totale dell’Italia».
Perché tanta spinta politica e mediatica sugli investimenti e le agevolazioni sul settore turistico, quindi, nonostante, si sappia che in realtà conti ben poco nel computo del prodotto interno del Paese? Una delle ipotesi credibili, stando ai dati che abbiamo osservato, è che si tratta di uno degli ambiti in cui la crisi di redditività del capitale delle imprese può più facilmente essere risolta scaricandola, senza impegnarsi in troppi investimenti e innovazione, sulla semplice estrazione di valore dall’ambiente e sul costo del lavoro, anche a causa della minore organizzazione dei lavoratori del turismo. Molti padroni ambiscono ai guadagni facili del settore turistico, del turismo intensivo, di massa, che sfrutta e spolpa l’ambiente e la forza lavoro, probabilmente perché non riescono a fare la stessa cosa allo stesso grado in altri settori.
Infine, non bisogna dimenticare l’impatto che sulla questione possiede l’intreccio tra economia e politica borghese. Il turismo è, infatti, uno dei settori più rappresentati nelle istituzioni: vi sono 242 aziende in cui i membri del parlamento e/o del Governo hanno interessi privati. Più di metà di esse (125) ha un fatturato che va dai 250.000 ai 2.000.000 di euro. I tre principali settori in cui queste aziende operano sono immobiliare (13,62%, 35 aziende), finanza (8,95%, 23 aziende), turismo e ristorazione (8,95%, 23 aziende).
Conclusioni
Del turismo vengono di solito percepiti soltanto gli aspetti positivi, che innegabilmente ci sono: ormai, sul piano psicologico, economico e culturale, la maggior parte della popolazione in Italia vuole e può permettersi almeno una o due settimane di vacanza all’anno fuori dal luogo di residenza o attività. L’industria del turismo ha permesso a molti luoghi, soprattutto nelle regioni meridionali, di passare da un’economia asfittica e stagnante a un’economia più dinamica, con investimenti sempre più massicci in edilizia, decoro urbano e attività legate al settore, alcune volte realizzabili anche a partire da capitali limitati.
L’altra faccia della medaglia sta nel fatto che i vantaggi del turismo nella cornice capitalistica si fermano qua. Il turismo di massa produce valore per chi trae profitto da esso perché estrae massicciamente questo valore, oltre che dal lavoro dei lavoratori stagionali, dalle risorse ambientali di un territorio, che vengono alterate – da questo punto di vista un’analisi interessante da fare sarebbe quella delle acque, inquinate dai rifiuti delle strutture turistiche, dei fiumiciattoli che sfociano in mare, mare che spesso si è costretti a dichiarare “non balneabile”, salvo poi ritirare questa precauzione proprio per via delle pressioni dell’industria del turismo. Si estrae valore dall’ambiente attraverso la cementificazione, legittimata dalle necessità turistiche, dalle strutture costiere che provocano la ben nota erosione del litorale (negata nelle sue radici dagli operatori turistici), dalla qualità della vita dei residenti dei centri turistici, compromessa per massimizzare gli spazi per i turisti. In alcuni casi, come quello di Venezia e delle città d’arte, si estrae valore dalla sostenibilità sempre più precaria degli oggetti d’arte.
Questo carattere estrattivo del turismo, che viene emblematicamente paragonato al “petrolio” (industria estrattiva per eccellenza), fa sì che esso sia un settore molto regressivo sul piano sociale, soprattutto dal lato della sua produzione: come abbiamo detto, lo scarsissimo peso delle innovazioni tecnologiche rende la competitività di un’azienda turistica particolarmente dipendente dall’intensificazione dello sfruttamento dell’ambiente e dei ritmi di lavoro dei salariati, i quali vedono repressa la loro capacità organizzativa e la loro voglia di lottare (si tratta, forse, del settore meno sindacalizzato d’Italia). Se l’obiettivo della società è quello di incrementare la qualità della vita e la sostenibilità dell’ambiente in cui viviamo, il turismo di massa sembra remare in direzione opposta e incontrare innumerevoli contraddizioni. Infine, la “monocultura del turismo”, come ogni altra monocoltura, è fortemente attaccabile da eventi negativi avversi: si pensi al crollo del settore dovuto al Covid. Per tutto questo, puntare “tutto sul turismo” per una provincia, una regione o, addirittura, una nazione (c’è chi lo vorrebbe) costituirebbe un freno alla modernizzazione dell’economia e della vita di tutti, a vantaggio immediato di pochi, cioè solo degli imprenditori del turismo.
1 – In un precedente articolo ci eravamo occupati nello specifico dell’impatto dell’afflusso turistico nella città di Roma con particolare riferimento al Giubileo 2025. Vedasi Giubileo 2025: il paradiso per padroni e preti, l’inferno per gli strati popolari.