Nei mesi che hanno succeduto i fatti del 7 ottobre 2023 a Gaza, in tutto il mondo è aumentata la consapevolezza dei crimini commessi dallo Stato di Israele, dal suo esercito e dai suoi coloni nei confronti della popolazione palestinese.
Tuttavia, rispetto a passati tentativi di pulizia etnica e politiche di apartheid condotti dai sionisti, questa volta la maggior padronanza dei mezzi di comunicazione di ultima generazione, tra cui i social network, da parte della popolazione palestinese e di quella del resto del mondo ha fatto sì che le immagini degli orrori arrivassero a miliardi di spettatori; proprio la novità introdotta dalla diffusione capillare di immagini e altre testimonianze ha fatto sì che quello a Gaza fosse definito “il primo genocidio trasmesso in diretta”[1]. La possibilità di assistere direttamente alle violenze, ai massacri, alla devastazione ha contribuito fortemente a forgiare le coscienze di moltissimi giovani, lavoratori e militanti politici che hanno scelto anche per questo di mobilitarsi a sostegno della Palestina.
Proprio in virtù dell’importanza del narrare la quotidianità delle vite di milioni di palestinesi, questo articolo intende presentare “No Other Land” (“Nessun’altra terra”), un film documentario di produzione israelo-palestinese presentato in anteprima il 17 febbraio 2024[2] e distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 16 gennaio 2025[3].
Alcune premesse
Il docufilm è ambientato a Masafer Yatta, un’area collinare situata a sud di Hebron, nella Cisgiordania meridionale, costituita da 19 villaggi palestinesi e in cui risiedono, secondo diverse stime, tra 1150 e 2800 persone. Questa zona, sotto occupazione israeliana a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967, si trova nella cosiddetta “Area C” definita dagli Accordi di Oslo del 1993, ossia sotto il pieno controllo militare e civile israeliano[4]. Questa “area” comprende il 60% del territorio della Cisgiordania, le strade strategiche, gran parte delle risorse naturali e le aree dove si trovano gli insediamenti israeliani.
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Una mappa da fonte israeliana (Koret Communication) delle zone di occupazione della Cisgiordania. Si noti come l’Area C sia mostrata dello stesso colore di Israele, mentre le Aree A e B del colore della Giordania
Gli accordi prevedevano il graduale ritiro israeliano dalla Cisgiordania entro un periodo di cinque anni, ovvero entro il 1999. Al contrario, Israele violò (prevedibilmente) gli accordi, con il mancato ritiro dalla regione sfruttando la retorica della “lotta al terrorismo”, e perseguì allo stesso tempo una politica di espansione e consolidamento delle colonie nell’Area C, nonostante Oslo prevedesse l’apertura di negoziati sul futuro degli insediamenti.
Già negli anni Ottanta, prima degli accordi, Israele aveva stabilito la costituzione su un’area di 3mila ettari comprendente 12 dei villaggi di Masafer Yatta della cosiddetta “Zona di Tiro 918”, una zona militare chiusa per l’addestramento, un poligono di tiro per l’esercito, circondata da alcuni avamposti[5]. Tale destinazione d’uso è servita a favorire l’espansione degli insediamenti israeliani, che si sono ingranditi (e continuano a farlo) proprio a discapito dei villaggi e delle terre palestinesi[6].
La giustificazione da parte delle autorità israeliane per la creazione della zona di tiro fa riferimento al fatto che «l’importanza vitale di questa zona di tiro per le Forze di Difesa Israeliane deriva dal carattere topografico unico dell’area, che consente metodi di addestramento specifici per quadri piccoli e grandi, da una squadra a un battaglione»[7]. Questa argomentazione risulta evidentemente pretestuosa, in quanto già nel 1981 Ariel Sharon, che in seguito divenne primo ministro di Israele, propose di destinare alcune aree della Cisgiordania all’esercito con il solo obiettivo di rimuoverne con la forza i residenti cacciandoli dalle proprie case. In particolare, individuò l’area di Masafer Yatta per la realizzazione di un poligono militare al fine di limitare «l’espansione dei residenti arabi di quelle colline»[8].
Dall’istituzione della zona di tiro, le autorità israeliane diedero infatti il via a demolizioni ed espulsioni con l’obiettivo di sfrattare con ogni mezzo i suoi abitanti palestinesi, mentre i militari tolleravano incursioni, violenze e omicidi da parte dei coloni degli insediamenti israeliani. Anche per questi fatti, nei decenni moltissimi abitanti di Masafer Yatta sono stati costretti ad abbandonare la loro terra o a vivere in tende e grotte dopo che le loro abitazioni erano state demolite[9].
L’occupazione e le violenze sulla popolazione di Masafer Yatta sono pienamente compatibili con i principi stessi su cui si fonda lo Stato d’Israele: infatti, la legge israeliana prevede che in Cisgiordania una certa zona possa essere riservata all’esercito nel caso in cui non sia abitata in maniera permanente. Proprio la falsa argomentazione secondo la quale a Masafer Yatta non siano mai stati presenti residenti permanenti, ma solamente pastori nomadi che usavano l’area come pascolo per i propri animali, è stata il grimaldello per giustificare anche secondo il diritto ogni genere di prevaricazione contro la popolazione palestinese.
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La localizzazione di Masafer Yatta all’interno dell’Area C della Cisgiordania
Nel 2000 i residenti di Masafer Yatta diedero inizio a un contenzioso legale, chiedendo e ottenendo una sospensione degli sfratti dopo che nel 1999 l’esercito israeliano aveva sfrattato circa 700 persone proprio sostenendo che non fossero residenti stabili. La sospensione è rimasta attiva fino al 2022, quando, dopo oltre venti anni di processo, la Corte Suprema israeliana ha decretato in via definitiva che i palestinesi che vivevano a Masafer Yatta erano nomadi che abitavano nell’area soltanto occasionalmente, mentre la maggior parte degli edifici nelle 12 cittadine nell’area è stata costruita dopo la decisione presa dall’esercito di costruire un poligono di tiro. Questa sentenza ignora il fatto che persino le già citate dichiarazioni di Sharon riconoscevano la presenza di palestinesi nella zona già prima del 1981 e avviene persino in spregio al diritto internazionale, secondo cui una potenza occupante non può compiere espulsioni e sfratti di massa nei territori occupati[10].
Queste premesse risultano necessarie all’introduzione di quanto mostrato in No Other Land, al fine di comprendere al meglio le dinamiche che il film introduce e che questo articolo esporrà brevemente di seguito.
Una quotidianità di paura, violenza, annientamento
Il film, con la regia di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal, è stato girato nell’arco di cinque anni, dal 2019 al 2023, e mostra il punto di vista proprio di Basel Adra, un attivista palestinese che da anni si oppone e documenta con i limitati mezzi di cui dispone la distruzione dei villaggi di Masafer Yatta. Buona parte delle scene del docufilm sono infatti riprese prodotte dagli stessi Basel e Yuval, e dimostrano non solo le difficoltà quotidiane della vita in un paese occupato militarmente, ma anche la sofferenza di quanti trovano la forza di continuare a sopravvivere sotto un regime razzista e di segregazione pur di non abbandonare la propria terra.
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Basel Adra organizza le proteste contro le demolizioni israeliane a Masafer Yatta
Basel, accompagnato e sostenuto dal giornalista israeliano Yuval Abraham, è nato in una famiglia che, proprio per la loro attività di oppositori alle politiche di occupazione israeliane, rischia ogni giorni violenze, arresti e persecuzioni. Quanto subìto nel film da Basel e da suo padre Nasser mostra quanto rischino i militanti politici palestinesi, e in generale gli oppositori politici, che possono essere, specialmente nelle aree a totale controllo israeliano, arrestati senza alcuna ragione se non la volontà dell’esercito di reprimere ogni possibile ostacolo alle proprie mire espansionistiche.
La figura di Yuval, un giovane giornalista che si è rifiutato per le proprie convinzioni di arruolarsi nell’esercito israeliano, dimostra tutta l’importanza di documentare con i mezzi di comunicazione attualmente a disposizione la barbarie che la popolazione palestinese subisce; al contempo, tuttavia, il suo entusiasmo viene meno quando i suoi articoli non riescono a sfondare la barriera mediatica che relega la contestazione delle politiche del governo israeliano all’irrilevanza. Questa realtà fa riflettere, considerando come anche nei paesi a capitalismo avanzato dell’Europa o del Nord America le notizie, le testimonianze e la cronaca persino di proteste o altro genere di opposizione ai governi vengono censurate o silenziate, tanto più in uno stato che ormai in molti definiscono apertamente fascista[11] come quello israeliano[12].
Tra le costanti del film vi è la palese volontà di annientamento, di negazione di ogni forma di dignità alla popolazione palestinese da parte dei soldati israeliani, oltre alla paura costante legata all’arbitrarietà nel privare una famiglia di ogni bene. Il piano di pulizia etnica della zona non è in discussione, e giustifica la negazione di ogni forma di diritto, come quello ad avere un’abitazione, una scuola, persino dell’acqua o dell’elettricità. Ciò non rappresenta affatto una peculiarità del regime di occupazione in Cisgiordania, ma si collega in maniera drammatica con le politiche di privazione di ogni mezzo di sussistenza alla popolazione di Gaza dopo il 7 ottobre 2023, giustificato dai ministri israeliani con la definizione dei palestinesi come «animali umani»[13].
Un altro elemento che descrive la quotidianità in Cisgiordania occupata è la segregazione razziale. I diversi colori delle targhe automobilistiche tra israeliani e palestinesi («In queste strade vicino a casa mia passano due tipi di auto: targhe gialle e targhe verdi. Le auto israeliane sono gialle, possono circolare liberamente nel territorio, per me è illegale guidarle. Le auto palestinesi sono verdi, non possono lasciare la Cisgiordania. Israele controlla entrambi i colori. Un mondo intero costruito su una divisione: uomo verde, uomo giallo») sono la metafora per cui essere nato di una nazionalità o di un’altra, parlare una lingua o un’altra, determina il diritto alla vita stessa nel regime di apartheid. Un regime che ha reso i palestinesi «stranieri nella nostra stessa terra».
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Immagini delle demolizioni di Masafer Yatta
Il racconto della propria vita da parte di Basel mette in luce un altro aspetto della vita della gran parte dei palestinesi: il fatto che segregazione razziale e sfruttamento capitalistico si intreccino e si rafforzino vicendevolmente. Basel racconta infatti che lui, come molti altri suoi concittadini, pur essendo laureato in legge sia stato costretto a lavorare come manovale in Israele perché i palestinesi non sono altro che «manodopera a basso costo». Sfruttamento e oppressione etnica non sono che strumenti per il profitto di una classe, la borghesia, sulle spalle della classe operaia di ogni nazione.
Un bel messaggio di fratellanza viene dall’amicizia tra Basel e Yuval. Il rapporto tra i due dimostra come, anche nei contesti e nei periodi storici più complessi, nonostante la propaganda delle forze politiche reazionarie e guerrafondaie, nella solidarietà tra popoli e nell’unità nella lotta contro l’oppressione vi sono i semi della convivenza pacifica e di una società priva di discriminazioni e violenza.
Il film si chiude con una profonda riflessione da parte di Basel e Yuval, i quali si chiedono cosa possano fare di più oltre a diffondere il più possibile le testimonianze sui fatti di Masafer Yatta:
«Non convinceranno mai i palestinesi a lasciare questa terra. Penso che le persone debbano trovare un modo per cambiare le cose. Questa è la domanda: vedono le nostre immagini, ne sono colpiti, ma poi? Cosa possiamo fare?»
Queste parole, per quanto spontanee essendo tratte da una scena di vita quotidiana e di dialogo tra i due protagonisti, sembrano voler porre agli spettatori un quesito, ossia se questi possano fare qualcosa di più per la libertà della Palestina, oltre al semplice sgomento o all’indignazione quando si assistono alle ormai consuete immagini di morte, violenza, genocidio. Un discorso di questo tipo, specialmente in un periodo storico in cui sempre più persone si mobilitano in solidarietà con il popolo palestinese, non può che smuovere le coscienze e spingere ad attivarsi in prima persona.
La schizofrenica reazione dei sostenitori del sionismo
No Other Land è sicuramente un prodotto cinematografico di indubbia qualità, al di là del messaggio che si pone di trasmettere. Proprio per questo, ha ricevuto grandi attestati di apprezzamento: solo per citare alcuni esempi, il sito aggregatore di recensioni online Rotten Tomatoes gli ha assegnato una percentuale di gradimento da parte della critica del 100%, basata su 79 recensioni, con una media dell’8,9[14], oltre ad essere stato eletto terza miglior opera cinematografica europea del 2024 da Cineuropa[15] e aver vinto diversi premi internazionali di cinema[16].
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Basel Adra e Yuval Abraham premiati al Festival di Berlino
Tuttavia, agli indiscutibili riconoscimenti che il film ha ottenuto, No Other Land ha visto come contraltare la scomposta reazione di alcune personalità politiche, in particolare in Germania, non a caso un paese secondo in tutto il mondo solo agli USA per vendita di armi convenzionali a Israele (il 47% delle sue importazioni totali nel 2023)[17]. Il documentario ha debuttato infatti alla 74ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, durante la quale ha vinto il premio per il Miglior Documentario e il Premio del Pubblico nella sezione Panorama. In occasione della cerimonia di accettazione del premio da parte di Basel Adra e Yuval Abraham, i due registi hanno voluto denunciare le politiche israeliane contro i palestinesi. In particolare, Abraham ha affermato:
«Io e Basel abbiamo la stessa età. Io sono israeliano, Basel è palestinese. E tra due giorni torneremo in una terra dove non siamo uguali. Io sono sottoposto al diritto civile, Basel al diritto militare. Viviamo a 30 minuti di distanza, ma io posso votare e Basel no. Io sono libero di andare dove voglio, Basel come milioni di palestinesi è rinchiuso nella Cisgiordania occupata. Questa situazione di apartheid tra di noi, questa disuguaglianza, deve finire.»[18]
Nella stessa occasione, si è espresso anche Adra:
«La mia comunità, la mia famiglia hanno filmato la cancellazione della nostra società per mano di questa occupazione brutale. Sono qui che celebro questo premio, ma mi è molto difficile mentre decine di migliaia di persone vengono trucidate e massacrate da Israele a Gaza. Masafer Yatta, la mia comunità, sta venendo rasa al suolo da bulldozer israeliani. Chiedo soltanto una cosa: alla Germania, visto che mi trovo qui a Berlino, di rispettare la volontà dell’ONU e smettere di mandare armi ad Israele.»[19]
A queste parole, frutto non di una particolare visione politica “estremistica” da parte dei registi, ma di una semplice e genuina presa di posizione contro crimini orribili, ha fatto seguito l’isterica reazione da parte della politica borghese tedesca. Tra i primi ad attaccare i registi è stato Kai Wegner, sindaco di Berlino della CDU, che ha parlato di una «relativizzazione intollerabile»[20], affermando inoltre che «l’antisemitismo non ha posto a Berlino, e questo vale anche per la scena artistica. Mi aspetto che la nuova direzione del Festival faccia in modo che tali incidenti non si ripetano»[21]. Se questi discorsi fossero tratti da un’opera satirica, farebbe sorridere la schizofrenia delle parole di un politico (tedesco) che accusa di antisemitismo un film diretto da un registra ebreo e israeliano.
Immediata inoltre la reazione della ministra della Cultura Claudia Roth (Verdi), la quale ha definito le parole dei registi «oltraggiosamente unilaterali e caratterizzate da un profondo odio nei confronti di Israele». La ministra, apparsa in un video nell’atto di applaudire il discorso dei registi al festival, si è inoltre giustificata affermando di aver applaudito solamente il registra israeliano, e non il suo amico/collega palestinese[20].
Agli attacchi pervenuti anche da altri partiti e singoli esponenti politici tedeschi, la direzione del Festival, ricoperta per l’ultimo anno dall’italiano Carlo Chatrian e l’olandese Mariette Rissenbeek[21], ha risposto dissociandosi e definendo l’intervento dei registi «opinioni individuali e indipendenti», che «non rappresentano in alcun modo» quelle del festival[22].
A seguito delle accuse di antisemitismo da parte della politica tedesca, riprese e riportate dai media israeliani, Yuval Abraham ha ricevuto minacce di morte e i suoi familiari sono stati esposti al rischio di rappresaglie da parte delle frange più violente del sionismo: infatti, dopo il suo discorso a Berlino, dei gruppi di militanti israeliani di estrema destra si sono presentati presso l’abitazione della famiglia di Abraham per cercarlo, costringendo i suoi familiari a fuggire in un’altra città nel cuore della notte[23]. Questi fatti dimostrano come le affermazioni mistificatorie dei media contro i sostenitori della causa palestinese non si limitino ad inquinare il dibattito pubblico, ma possano produrre effetti concreti in una fase in cui le violenze da parte dei sionisti rappresentano sempre meno casi isolati.
Conclusioni
No Other Land è un’opera che merita la visione da parte di un pubblico più ampio possibile, in quanto la testimonianza diretta delle politiche di pulizia etnica praticate da Israele rappresenta un corollario di importanza non secondaria rispetto alla mera cronaca.
La qualità di un’opera che vanta numerosi riconoscimenti internazionali viene messa ancora più in luce da un clima politico che, lungi dal valorizzare produzioni che ledano l’immagine di Israele o in generale il pensiero della classe dominante, non renderà mai facile il percorso di artisti che cerchino realmente di cambiare lo stato di cose.
Va inoltre considerato il coraggio degli autori, i quali anche esponendosi a ritorsioni, ostracismo e accuse infamanti, hanno dato un contributo notevole, nel loro piccolo, a formare le coscienze di molte persone.
Spetta ora a tutti gli spettatori di questo notevole docufilm non limitarsi a “rimanere colpiti”, ma a concretamente “trovare un modo per cambiare le cose”.