INDICE
1. Introduzione
Lo scorso 24 gennaio il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione denominata “La disinformazione e la falsificazione della storia da parte della Russia per giustificare la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina”. Dal testo affiora ancora una volta la vergognosa equiparazione tra fascismo e comunismo, come del resto già avvenuto in un’altra risoluzione dello scorso 2019. Utilizzando delle argomentazioni completamente antistoriche e antiscientifiche, nel lamentare il «il continuo utilizzo di simboli di regimi totalitari negli spazi pubblici» si richiede «un divieto in tutta l’UE sull’uso di simboli nazisti e comunisti sovietici, nonché di simboli dell’attuale aggressione della Russia contro l’Ucraina».

I risultati della votazione all’Europarlamento
Ciò rappresenta l’ennesima tappa di un lungo itinerario costellato di spudorate menzogne, poiché già in occasione del sessantesimo anniversario della fine del secondo conflitto mondiale – era il 2005 – la maggioranza dello stesso Parlamento Europeo si prodigava, previa risoluzione, a condannare l’Unione Sovietica, nel tentativo di cancellare con un colpo di spugna dal quadro generale il suo ruolo determinante nella sconfitta del fascismo nel 1945, la sua difesa della pace e la sua opposizione alla brutalità dell’imperialismo, il suo ruolo negli enormi progressi compiuti a livello di tenore di vita da milioni di lavoratori, la sua solidarietà con i popoli oppressi di tutto il mondo nel loro tentativo di conquistare l’indipendenza e l’autodeterminazione, nonché il suo contributo alla loro liberazione dal giogo del colonialismo. Un volgare esercizio di revisionismo perpetrato ad oltranza fino ad oggi, determinante al fine di giustificare la feroce repressione anticomunista e per disarmare sotto l’aspetto politico-ideologico, quindi organizzativo, la classe operaia.
D’altronde, l’opera di falsificazione costante, oltre a riscrivere il passato, serve a legittimare un presente fatto di recrudescenza della guerra imperialista, che in Ucraina ha causato centinaia di migliaia di morti e costretto milioni di persone a lasciare le loro case e il loro Paese, e di transizione verso un’economia di guerra traducibile in nuovi e ulteriori tagli alla spesa pubblica per la sanità, il welfare e l’istruzione.
In questi tre anni abbondanti abbiamo letto ed ascoltato, nostro malgrado, ogni genere di aberrazione, sia dal versante euro-atlantico (Stati Uniti, NATO, Unione Europea) che da quello russo, caratterizzate da un denominatore comune, ovvero l’ulteriore campagna di calunnie nei confronti dell’esperienza sovietica. Da parte russa si afferma che l’Ucraina non è una vera nazione ed è stata semplicemente “inventata” da Lenin e dai bolscevichi, che l’URSS si è dissolta perché ancora una volta Lenin e i bolscevichi avevano messo una “mina” nelle sue fondamenta; da parte ucraina invece – oltre alla gravissima riabilitazione della peggior feccia collaborazionista parallela alla damnatio memoriae contro il passato sovietico tout court – ci si fa scudo della narrazione europeista ed atlantista, funzionale al regime reazionario guidato da Zelensky.
Ma questi sono soltanto alcuni di quei falsi miti spacciati per verità incontestabili, sui quali si fonda la demonizzazione dell’URSS e la persecuzione dei comunisti nell’UE. In questo articolo confuteremo, dati storici alla mano, i miti antisovietici contenuti nella risoluzione del Parlamento europeo. Soprattutto a seguito della fine della Guerra Fredda e all’apertura degli archivi sovietici, infatti, sono state prodotte nuove documentazioni e nuove ricerche – come, ad esempio, il noto libro di Grover Furr che rivela l’infondatezza del cosiddetto “rapporto segreto” di Chruščëv – che oggi possono essere utilizzate per smentire una narrazione dominante, diffusa per obiettivi meramente politici durante gli anni del maccartismo e che oggi rappresenta lo standard comunemente accettato per leggere determinate decisioni prese dalla dirigenza socialista.
2. Il “genocidio” ucraino
Uno dei capisaldi dell’anticomunismo è senz’altro la leggenda del cosiddetto “Holodomor”, un termine composto che deriva dall’espressione moryty holodom – letteralmente “infliggere la morte mediante la fame”. Nella risoluzione è citato diverse volte.

Robert Conquest, in questa foto nell’atto di ricevere la medaglia presidenziale della libertà da George W. Bush, fu per anni operativo per l’IRD, dipartimento del Foreign Office britannico specializzato nella propaganda anticomunista
In sostanza si imputa alle autorità sovietiche, in particolar modo a Stalin, di aver deliberatamente pianificato la carestia in Ucraina nel 1932 e 1933 per motivi puramente politici, provocando la morte di milioni di ucraini. Rispetto al numero delle vittime effettive di questo presunto genocidio, tuttavia, prevale ancora oggi una notevole confusione: gli storici Wheatcroft e Davies stimano che siano morte 1,5 milioni di persone, Robert Conquest (per anni operativo per l’IRD, dipartimento del Foreign Office britannico specializzato nella propaganda anticomunista) stima 5 milioni di vittime, mentre Borys Ivanovych Tarasyuk, in qualità di ministro degli Esteri del governo ucraino, affermò nel 2006, alla sessantunesima Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ci furono tra i 7 e i 10 milioni di morti. Si consideri che all’epoca la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina contava circa 25 milioni di abitanti.
La leggenda sul genocidio intenzionale ha le sue radici nella propaganda fascista negli anni Trenta. Vediamo come ebbe origine questa lettura delle vicende ucraine.
Dal marzo 1933, Joseph Goebbels avviò una violenta campagna propagandistica contro il governo sovietico in Ucraina, diffondendo notizie false e destituite di ogni fondamento su presunte atrocità sovietiche perpetrate nel territorio della RSS Ucraina; non a caso Hitler nel suo Mein Kampf l’aveva designata come il territorio più importante nell’ambito del famigerato Lebensraum tedesco.
Contribuì notevolmente nella diffusione delle suddette false notizie un giovane giornalista gallese di nome Gareth Jones, le cui vicende saranno d’ispirazione per un film del 2019 – Mr. Jones, nelle sale italiane uscirà col titolo L’ombra di Stalin – che non si discosta affatto per originalità dalle tante pellicole smaccatamente antisovietiche. Il 28 febbraio 1933 Jones fece pubblicare un articolo, sul quotidiano gallese The Western Mail and South Wales News, intitolato With Hitler across the Germany (Con Hitler attraverso la Germania), nel quale descriveva, non senza entusiasmo, la sua esperienza di volo sull’aereo privato di Hitler effettuato pochi giorni prima, il 23 febbraio, assieme ad altre figure di spicco come lo stesso Goebbels. Nel pezzo egli esalta i capi fascisti e le loro idee, giungendo ad affermare che «ci sono due Hitler: l’Hitler naturale e fanciullesco, e l’Hitler che è ispirato da una tremenda forza nazionale, un grande Hitler. È il secondo Hitler che ha risvegliato la Germania». In un successivo articolo, pubblicato sullo stesso quotidiano il 1° marzo 1933 e intitolato Beginning of German Fascism (Origine del fascismo tedesco), Jones si sofferma su un particolare incontro che egli ebbe a Francoforte sul Meno con Joseph Goebbels, che poche settimane più tardi sarebbe diventato ministro della propaganda del regime hitleriano, descrivendolo in termini entusiastici: «Ha una personalità – scrive Jones – straordinariamente attraente, con un senso dell’umorismo e un cervello acuto. Ci si sente subito a casa con lui, perché è divertente e simpatico».
Agli inizi di marzo del 1933 il giornalista partì da Berlino diretto a Mosca, dove già era stato per alcune settimane nel 1930 e nel 1931, e il 7 marzo scomparve improvvisamente dall’albergo della capitale in cui alloggiava per ricomparire a Berlino il 29 marzo, da dove avrebbe rilasciato un comunicato stampa pubblicato da alcuni giornali, tra cui The Manchester Guardian e il New York Evening Post, nel quale affermava di aver viaggiato in tutto il territorio della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina e di avere visto che in quel luogo “milioni di persone stanno morendo di fame”, fornendo numerosi aneddoti di persone non identificate e senza nome le quali, a suo dire, avrebbero fatto affermazioni quali “stiamo aspettando la morte”.
Tuttavia, i conti non tornano, poiché Gareth Jones fino al 6 marzo era senza dubbio nel suo albergo di Mosca (il giorno successivo sarebbe sparito) e il 29 marzo si trovava sicuramente a Berlino, da dove telegrafò il suo comunicato stampa. Dunque, gli restavano 23 giorni, nei quali egli afferma di essersi recato nel territorio della RSS Ucraina – corrispondente a circa due terzi dell’Ucraina attuale – e di averlo girato in lungo e in largo tanto da fornire dettagliate testimonianze sugli effetti della carestia, senza che peraltro vi sia menzione di località, di dettagli, di nomi di persone.

Il giornalista britannico Walter Duranty mise profondamente in dubbio la veridicità delle affermazioni di Gareth Jones sull’Ucraina
All’epoca, per raggiungere da Mosca le più importanti città ucraine erano necessari almeno un paio di giorni di viaggio in treno, ancor di più per viaggiare dall’Ucraina fino a Berlino. Gareth Jones dichiarò che durante il suo viaggio non avrebbe ricevuto alcun ostacolo da parte delle autorità sovietiche (si ricordi che egli era scappato da Mosca senza dare alcuna notizia), dichiarazioni che apparvero da subito equivoche a parecchi corrispondenti stranieri residenti a Mosca, soprattutto al giornalista britannico Walter Duranty, vincitore del premio giornalistico Pulitzer nel 1932 e corrispondente da Mosca del New York Times dal 1922 al 1936. Duranty in una serie di articoli smentì categoricamente la ricostruzione di Jones, mettendo addirittura in dubbio il fatto che egli si fosse effettivamente recato in Ucraina. Con ogni evidenza Gareth Jones era una spia al servizio dei fascisti appena giunti al potere in Germania, incaricato da questi ultimi ad alimentare la campagna mistificatoria sull’Unione Sovietica; tanto che il suo viaggio nell’URSS serviva a dimostrare che comunque lui c’era stato, nondimeno lo smascheramento da parte di Walter Duranty privò i suoi articoli di qualunque autorevolezza. Ancora nel 1987 il ricercatore canadese Douglas Tottle, tramite un saggio intitolato Fraud, Famine and Fascism: The Ukrainian Genocide Myth from Hitler to Harvard (Frode, carestia e fascismo: il mito del genocidio ucraino da Hitler ad Harvard) riuscì a dimostrare con precisione assoluta che la tesi secondo cui la carestia del 1932-33 sarebbe stata pianificata deliberatamente come genocidio degli ucraini da parte del governo sovietico è un falso storico creato già all’epoca della Germania fascista.
Seguendo la ricostruzione di Tottle, in una serie di articoli pubblicati tra il 1935 e il 1936 sui quotidiani statunitensi Chicago American, Chicago Herald & Examiner e New York Evening Journal – tutti di proprietà di William Hearst, magnate dell’editoria, considerato il padre del giornalismo scandalistico negli Stati Uniti, i cui giornali ospiteranno, senza contraddittorio, scritti di Hermann Göring e di Alfred Rosenberg – un sedicente giornalista statunitense, tale Thomas Walker, aveva firmato una serie di articoli sostenendo di avere viaggiato negli anni precedenti per l’Ucraina, nei quali descriveva un’orrenda carestia che aveva investito il territorio della RSS Ucraina tra il 1932 e il 1933, corredate da fotografie impressionanti. In realtà, non è mai esistito un giornalista che si chiamasse Thomas Walker e già nel 1939, come riporta lo stesso autore, alcuni giornalisti investigativi americani, con il supporto di esperti fotografi, dimostrarono che tutte le foto pubblicate dai tre giornali relative alla carestia del 1932 e 1933 erano state scattate, senza eccezione alcuna, in varie aree dell’Europa centrale e orientale dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, mentre altre ritraevano le vittime della carestia che imperversava tra il 1921 e il 1923, durante la guerra civile, nella regione russa compresa tra i fiumi Volga e Ural.

Giovani del Komsomol mentre sequestrano il grano dei kulaki nascosto in un cimitero, RSS Ucraina
Difatti a partire dal XIX secolo, si verificarono periodiche carestie in Russia. Ed in quella del 1933 che colpì, oltre all’Ucraina, anche la regione del Basso Volga e il nord del Caucaso si riscontrarono epidemie di tifo, di dissenteria e di febbre tifoide. Furono in realtà tali malattie, ben più che le conseguenze della denutrizione, a provocare in tutto il territorio dell’Unione Sovietica quasi tre milioni di morti, dei quali meno di un milione nel territorio della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Ma oltre al flagello congiunto dell’epidemia e della carestia, a causare la scarsità di risorse alimentari fu la strenua resistenza dei grandi agricoltori, i kulaki, ai processi di collettivizzazione dell’agricoltura – fatti a beneficio dei contadini poveri e medi – che impedirono il raccolto di grano, cercando di sabotare i macchinari agricoli, incendiando i magazzi, uccidendo gli animali, rifiutandosi di seminare e raccogliere, uccidendo i contadini e i quadri-organizzatori del Partito. È falso che la maggioranza dei contadini ucraini si sarebbe opposta alla collettivizzazione, che la carestia sarebbe stata causata direttamente dalla collettivizzazione forzata, che la stessa carestia sarebbe stata deliberatamente programmata dal governo sovietico se non da Stalin in persona, e che la carestia avrebbe mirato a distruggere il nazionalismo ucraino in quanto, a loro dire, Stalin e il governo sovietico avrebbero avuto l’intenzione di annientare la cultura e la lingua ucraina. Questo insieme di menzogne deliberate fungono oggi da strumento di propaganda al servizio dell’imperialismo di stampo atlantista e del fanatismo antirusso dei governi dell’Europa orientale, Ucraina in primis. Al contrario è provato storicamente che il gruppo dirigente bolscevico si adoperò affinché a tutti i territori sovietici colpiti dalla carestia fosse fornito il massimo aiuto.
Su suggerimento di Stalin, infatti, nel 1932 e nel 1933, il Gosplan (l’organo responsabile della pianificazione economica nell’Unione Sovietica) decise di ridurre le quote di cereali la cui fornitura spettava a Ucraina, Kazakistan, Crimea, Caucaso settentrionale, Basso Volga, Urali, Terre Nere e Siberia orientale in ben nove occasioni, e ciò a causa delle difficoltà dovute all’emergenza sanitaria e alimentare. Al contempo il Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS combatté in maniera risoluta contro l’atavica arretratezza dell’agricoltura, riorganizzando l’agricoltura sulla base di gigantesche fattorie industriali a imitazione di alcune nel Midwest americano, che furono deliberatamente adottate come modello, un’autentica svolta fondamentale nello scongiurare ulteriori carestie. I bolscevichi affrontarono con risolutezza la contraddizione tra i kulaki da un lato e il proletariato e i contadini non agiati (la stragrande maggioranza): la liquidazione dei kulaki come classe, la collettivizzazione dell’agricoltura divennero presto ineludibili, fu il primo grande episodio di concreta prosecuzione della Rivoluzione in regime di dittatura del proletariato e furono all’origine dell’esplosione della produttività agricola che permise di evitare, da allora in poi, il ripetersi delle carestie cicliche e, soprattutto, l’industrializzazione del Paese e la costruzione dell’apparato militare che ebbe la capacità di sconfiggere l’esercito fascista qualche anno dopo.
3. Il patto Molotov-Ribbentrop
Il presunto “accordo tra i Germania e URSS per dividersi l’Europa” è certamente una delle narrazioni più diffuse e comunemente accettate nella retorica anticomunista ed è costantemente presente nella risoluzione di gennaio 2025. Ma già nella risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, proposta due giorni prima a nome del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici di cui fa parte anche il PD, troviamo questo passaggio: «ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l’Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale».
Innanzitutto bisogna partire dal contesto in cui venne firmato il Trattato, un trattato di non aggressione (e non un accordo, o un’alleanza) sulla schiera dei trattati che i vari Paesi, compresa addirittura la Polonia, siglavano all’epoca segnatamente con la stessa Germania. In quel momento la Seconda Guerra Mondiale era de facto già cominciata: dal luglio 1937, divampava un conflitto armato in Estremo Oriente tra il Giappone e la Cina, che poi parteciperanno alla imminente guerra mondiale; mentre in Europa la Germania aveva già invaso il territorio della Cecoslovacchia (Boemia e Moravia) il 14 marzo 1939, violando il Patto di Monaco, che aveva “disciplinato” la cessione alla Germania dei territori cecoslovacchi dei Sudeti. Invero, il Patto di Monaco del settembre 1938 era oltremodo indicativo della volontà dell’Occidente nel suo complesso, e della Gran Bretagna in particolare, di spingere la crisi verso uno sbocco quale quello della guerra fra il Terzo Reich e l’URSS. Mentre Inghilterra, Germania, Francia e Italia decidevano a tavolino i destini di uno stato sovrano, retto da un regime costituzionale-democratico, senza coinvolgerlo nemmeno in via formale, l’URSS era stato l’unico Paese a opporsi confermando l’appoggio al governo di Praga, mettendo in stato di allerta oltre settanta divisioni. Anche dopo lo smembramento della Cecoslovacchia, i sovietici inoltrarono una lunga, dura nota di protesta a Berlino. Al contempo, l’Unione Sovietica, pochi mesi dopo, avviò negoziati per formare un’alleanza antifascista ma sia l’Inghilterra che la Francia lasciarono andare le cose per le lunghe, dando la netta impressione di non voler fare sul serio. Addirittura, da giugno ad agosto 1939 si tennero trattative segrete anglo-tedesche nel corso delle quali, in cambio del rispetto dell’integrità dell’Impero britannico, gli inglesi promisero a Hitler libertà d’azione verso Est. L’URSS provò anche a condurre a termine un accordo militare con la Polonia, per fare in modo che le truppe sovietiche potessero contrastare i tedeschi sul territorio polacco in caso di aggressione. Ma il governo reazionario polacco – che con il patto di Monaco contribuì allo smembramento cecoslovacco, annettendo la Slesia di Cieszyn – rifiutò categoricamente.

«Gran parte della propaganda anticomunista ha denunciato aspramente il trattato tedesco-sovietico del 1939, ignorando però totalmente il fatto che i russi furono costretti a siglare quel patto dai continui rifiuti da parte delle potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, di unirsi a Mosca per affrontare la minaccia nazista, e del resto quelle stesse potenze si erano già rifiutate di accorrere in aiuto del governo spagnolo di ispirazione socialista assediato dai fascisti tedeschi, italiani e spagnoli.» (William Blum)
In altri termini, Inghilterra e Francia erano disposte a sacrificare dopo la Cecoslovacchia anche la Polonia, pur di agevolare la marcia di Hitler contro l’Unione Sovietica; ma il führer, preso atto della scarsa capacità e volontà di resistere da parte delle grandi “democrazie” decise di impadronirsi dell’intera Europa occidentale prima di scagliarsi contro l’URSS. Così il 20 agosto del 1939 propose ai sovietici un patto di non aggressione, che venne sottoscritto tre giorni dopo.
Fu dunque la passività delle potenze occidentali, quando non addirittura diretta complicità, che permise ai fascisti di spadroneggiare nella guerra civile in Spagna, in Cecoslovacchia per l’appunto, in Africa e in Asia, allo scopo di indirizzare verso il paese scaturito dalla Rivoluzione d’Ottobre le mire espansionistiche del Terzo Reich da Occidente e del Giappone da Oriente. Dinnanzi al pericolo mortale i dirigenti bolscevichi, chiaramente consapevoli che prima o poi la guerra con la Germania fascista sarebbe stata inevitabile, riuscirono a guadagnare tempo ottenendo nell’immediato risultati tangibili come la liquidazione pratica degli effetti del Patto anticomintern, isolando il Giappone, potenza in quel momento direttamente impegnata in attività belliche contro l’URSS, avanzando fino a 300 km le proprie difese.
La stipula del patto riempì di sgomento proprio gli alleati della Germania hitleriana, che nel paese socialista vedevano il proprio principale nemico e obiettivo da abbattere ad ogni costo. Secondo la giornalista statunitense Anna Strong infatti:
«La firma del patto nel momento in cui l’Europa, da un’ora all’altra, attendeva l’attacco di Hitler alla Polonia mutò l’equilibrio delle forze nel Continente. […] L’Europa orientale sperava chiaramente che il patto, pur non potendo arrestare l’attacco di Hitler alla Polonia, bloccasse il dilagare della guerra verso oriente. Gli alleati di Hitler erano furiosi. Mussolini e Franco disapprovarono apertamente. Il colpo fu terribile per Tokio, perché il Giappone stava già combattendo contro l’Unione Sovietica sui confini della Mongolia, e si diceva che avesse dichiarato a Hitler che in agosto sarebbe stato pronto ad unirsi al “grande attacco”.»
A spianare la strada al secondo conflitto mondiale fu la miope e spietata politica degli imperialisti inglesi e francesi, caduti nella loro stessa trappola e obbligati a combattere una guerra contro un nemico, il Terzo Reich, che ancora non avevano smesso di elogiare per i suoi meriti nella lotta (quella sì prioritaria) contro il comunismo.
4. Il ruolo dell’URSS nella vittoria sul fascismo
Nella risoluzione europea si sottolinea, in continuità con la denuncia del patto Molotov-Ribbentrop, «il ruolo dell’Unione Sovietica nello scoppio della guerra», mettendola sullo stesso piano dell’espansionismo fascista. È importante, a questo punto, sottolineare che, se da un lato, furono le potenze capitalistiche e non l’URSS ad essere complici dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, dall’altro fu proprio la seconda, e non le prime, a essersi dovuta caricare la maggior parte del peso dello sforzo militare contro il fascismo. Se è vero, infatti, che ben prima dello scoppio della guerra, l’Internazionale Comunista propose costantemente la formazione di un “Fronte antifascista unito” nel 1935 e nel 1936 ai governi e ai partiti socialdemocratici, proposta destinata a cadere nel vuoto, è ancor più vero che senza il pesantissimo tributo di sangue pagato dall’URSS nessuna vittoria e nessuna liberazione sarebbe stata possibile. Potrebbe suonare persino banale questo assunto se non fosse che oggi, al posto dell’eterna gloria e riconoscenza per l’eroismo ed il sacrificio dell’Armata Rossa, prevale una vulgata tesa ad occultare quel contributo decisivo.
Un fattore sempre più spesso trascurato è la natura dell’imponente aggressione fascista nei territori sovietici. Hitler e l’esercito tedesco avevano pianificato la campagna contro l’Unione Sovietica come una Vernichtungskrieg (guerra di annientamento) contro il governo comunista “giudeo-bolscevico” e i cittadini sovietici, specie se ebrei; i generali della Wehrmacht istruirono i soldati a ignorare le regole dei conflitti che prevedevano la protezione dei civili e a trattare tutti i nemici senza pietà. Difatti ai prigionieri di guerra sovietici non veniva applicata la Convenzione di Ginevra. Lo storico Viktor Zemskov offre le stime più accurate e credibili delle vittime tra i prigionieri sovietici: circa 3,9 milioni di morti su 6,2 milioni catturati, inclusi 200.000 uccisi come collaboratori militari. Lo storico tedesco Christian Streit stima i prigionieri russi uccisi nei campi di concentramento a 3,3 milioni, mentre il suo connazionale Dieter Pohl parla di 3 milioni. Al netto delle diverse stime, i tre storici sono concordi nell’affermare che si sono registrati più morti tra i prigionieri di guerra sovietici di qualsiasi altro “gruppo” preso di mira dai fascisti. Solo gli ebrei europei superarono quella drammatica cifra.

“Morte alla feccia fascista!”, manifesto sovietico del 1941
L’antibolscevismo, l’antisemitismo ed il razzismo trovano conferma nella prassi degli omicidi selettivi dei prigionieri di guerra sovietici, evidenziando la stretta collaborazione tra la Wehrmacht e le SS, nonché l’implicazione diretta dei soldati tedeschi che non erano meri combattenti ligi al dovere e rispettosi degli ordini: le vittime principali di questi omicidi erano comandanti politici, soldati ebrei, comunisti, intellettuali e soldati dall’aspetto asiatico. Il processo di identificazione delle vittime avveniva attraverso esami medici, denunce o giudizi basati sull’aspetto fisico. Le esecuzioni di massa avvenivano sia nei campi di prigionia sia nei campi di concentramento, con la collaborazione attiva della Wehrmacht e delle unità dell’Einsatzgruppen. Numerosi prigionieri di guerra furono trasferiti nei campi di concentramento, dove la maggior parte veniva giustiziata; gli omicidi di massa includevano anche i prigionieri feriti e malati, considerati incapaci di lavorare. Il lavoro forzato dei prigionieri di guerra sovietici, in violazione delle convenzioni internazionali, era essenziale per lo sforzo bellico tedesco, con i prigionieri impiegati in una vasta gamma di compiti, dalle costruzioni militari alle operazioni minerarie. Questo lavoro spesso era in condizioni estremamente precarie, numerosi prigionieri vi perirono per le pessime condizioni. A tutto questo si aggiunge il trasferimento dei prigionieri di guerra sovietici nei campi di concentramento fascisti, dove gran parte di essi fu sottoposta a violenze, abusi e omicidi sistematici, o comunque morirono a causa delle condizioni inumane.
Una tesi piuttosto ricorrente nella storiografia borghese è quella secondo cui l’Unione Sovietica non avrebbe potuto vincere i suoi aggressori senza gli aiuti, armi e prodotti alimentari, di Gran Bretagna e Stati Uniti. Si tratta di un maldestro tentativo di sminuire un’impresa titanica, tentativo che comunque non trova alcun conforto nei fatti, poiché le forniture militari degli alleati all’URSS non furono affatto decisive sul piano quantitativo, men che meno nei primi due terrificanti anni di conflitto. Durante l’inverno del 1941-42, i sovietici spostarono le fabbriche ancor più ad est e aumentarono massicciamente la produzione di aerei, carri armati e altre armi, anche perché la fornitura da parte anglo-americana di equipaggiamenti, mezzi ed armi era profumatamente pagata dai sovietici. Le vittoriose battaglie di Mosca e Leningrado, quella epica di Stalingrado che cambiò i destini della guerra, fino a Kursk, portano impresso il marchio politico e organizzativo di Stalin e del nucleo dirigente del PCUS. Non a caso l’URSS divenne un faro nella resistenza dei popoli europei soggiogati dall’occupazione fascista, e in tutta Europa milioni di uomini e donne si schierarono idealmente con l’Unione Sovietica aggredita conducendo una guerra partigiana senza tregua contro fascisti e collaborazionisti. Solo così fu possibile aprire nuove concrete possibilità per l’emancipazione della classe operaia e dei popoli oppressi, lottando anche contro le innumerevoli menzogne già circolanti (come prodromi della “guerra fredda”) nei confronti di un sistema economico, quello socialista, che aveva dimostrato la propria forza e superiorità, pur lasciando sul campo oltre 20 milioni di morti fra militari e civili, nonostante le enormi distruzioni materiali e indicibili sofferenze per la popolazione, superate e vinte grazie alla granitica e commovente unità fra i popoli sovietici.
5. I fatti di Katyn e l’Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale
Nel solco della completa manipolazione storica che presenta la risoluzione rientra anche il massacro di migliaia di prigionieri di guerra polacchi, tra militari e civili, verificatosi nella primavera del 1940 in una foresta adiacente al villaggio di Katyn (non lontano dal confine con la Bielorussia) ed imputato ai sovietici. La risoluzione elenca questi, esplicitamente, tra «le vittime dei crimini sovietici». Secondo la vulgata sarebbe stato proprio Stalin in persona ad ordinare la strage; rafforzando la tesi originaria inerente alle responsabilità equamente condivise tra “potenze totalitarie”, che spartendosi la Polonia avrebbero dato inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Una narrazione così approssimativa necessita della completa rimozione dei contesti oltre che della voluta confusione dei rapporti di causa ed effetto.

Józef Piłsudski, dittatore fascista della Polonia dal 1926 al 1935
La Polonia dei tempi era ufficialmente una repubblica, ma in realtà, dal 1926, era governata da militari con alla testa il leader del movimento reazionario Sanacja, Józef Piłsudski. Tutti i partiti e movimenti politici che si contrapponevano al nazionalismo polacco furono banditi, Piłsudski sottopose le minoranze nazionali a umiliazioni e discriminazioni: ucraini, bielorussi, ebrei e lituani che rappresentavano un terzo della popolazione, erano senza diritti, per poter avere un’istruzione ed un lavoro dovevano adottare il cattolicesimo e cambiare il nome in polacco, pena l’essere perseguitati. Il regime polacco apprezzava le opinioni razziste e militariste di Hitler e, dopo il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni, Varsavia rappresentò gli interessi di Berlino (anche dopo la morte di Piłsudski nel 1935) e sostenne tutte le azioni reazionarie di Hitler quali, ad esempio, l’Anschluss dell’Austria e l’invasione tedesca della zona smilitarizzata del Reno. Il riavvicinamento tra Polonia e Germania negli anni Trenta si basò non solo su strategie interne simili, ma anche su obiettivi in politica estera simili. I due Stati cercavano di distruggere il blocco politico formato da Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania. Varsavia e Berlino avevano rivendicazioni territoriali sulla Cecoslovacchia, che culminarono nel suo smembramento nel 1938 grazie alla campagna congiunta tedesco-polacca. Ma soprattutto avevano grandi piani per l’URSS.
La dottrina militare polacca ufficiale, redatta nel 1938, proclamava: «Lo smembramento della Russia è la base della politica polacca. La Polonia non deve restare passiva in questo straordinario momento storico di spartizione. Il compito è prepararsi con largo anticipo, fisicamente e spiritualmente… L’obiettivo principale è l’indebolimento e la sconfitta della Russia». Per tale scopo furono inviati aiuti materiali alle repubbliche attraverso canali dei servizi segreti per fomentare il separatismo in Ucraina, Caucaso e Asia centrale. Lo stesso Partito Comunista di Polonia, bandito dal 1929, fu oggetto di pesanti infiltrazioni da parte del governo, aventi come unico obiettivo lo smembramento dell’organizzazione. Durante gli anni Trenta la saturazione di spie e provocatori nel Partito fu tale da portare l’esecutivo dell’Internazionale Comunista a scioglierlo ufficialmente il 16 agosto del 1938. L’alleanza tra tedeschi e polacchi s’infranse solo a causa della disputa su Danzica, importante porto sul Mar Baltico. Era amministrata dalla Polonia dalla fine della Prima Guerra Mondiale ed era il punto di congiunzione tra Pomerania e Prussia orientale tedesche. Dopo il rifiuto della Polonia di cedere la Città Libera, Hitler iniziò a prepararsi all’invasione.
Sia chiaro, tra il settembre del 1939 e la primavera del 1940 l’Armata Rossa non partecipò a nessuna spartizione della Polonia con i fascisti tedeschi: a scopo preventivo e per guadagnare tempo sull’ormai imminente e annunciata aggressione e, ancora di più, di fronte all’inaspettata e repentina capitolazione dell’esercito polacco che riuscì a resistere solo poche settimane alle armate hitleriane, tra il 16 e il 17 settembre del 1939, schierò le sue truppe sulla Bielorussia occidentale. Che non si trattò di un’aggressione né di un’occupazione militare lo testimonia il fatto che poche ore dopo lo schieramento dell’Armata Rossa sul confine bielorusso il maresciallo Rydz-Smigly, comandante in capo dell’esercito polacco, diramò l’ordine di non considerare l’Unione Sovietica paese belligerante. Infatti, quasi tutti i 300 mila soldati e ufficiali polacchi rispettarono l’ordine. In continuità col regime reazionario di Varsavia, successivamente durante la guerra le cosiddette “Forze Armate Nazionali” (NZS, Narodowe Siły Zbrojne) agirono a tutti gli effetti come un corpo militare collaborazionista, combattendo e massacrando senza distinzione sia civili, specie se ebrei, che partigiani antifascisti. Invero a lottare per un’autentica liberazione furono i partigiani filosovietici, le unità della Guardia del Popolo (GL, Gwardia Ludowa) da cui nascerà l’Esercito Popolare Polacco sotto il comando di Zygmunt Berling, ambedue sostenuti dall’URSS.

Manifesto di propaganda tedesco del 1943 su Katyn
Il 13 aprile 1943, le autorità tedesche dichiararono di aver scoperto migliaia di corpi di ufficiali polacchi fucilati dai sovietici nel 1940 nella foresta di Katyn, vicino a Smolensk, e ciò spiega perché tutta la vicenda, comprese le esecuzioni vere o presunte di prigionieri di guerra in altre località dell’URSS, abbia preso il nome di “Strage di Katyn”. La propaganda fascista a proposito dei massacri di Katyn tendeva a rendere del tutto impossibili i rapporti fra i sovietici e i polacchi. Il generale Sikorski fece propria e spinse all’estremo la suddetta propaganda, dichiarando a Churchill di avere in mano una “abbondanza di prove”. Non è chiaro come avesse ottenuto queste “prove” contemporaneamente all’annuncio tedesco di quelle presunte atrocità sovietiche, anche se si parla chiaramente di una collaborazione segreta fra Sikorski e i fascisti tedeschi. Nell’architettare questa storia, i tedeschi pensarono addirittura di “abbellirla” con un tocco di antisemitismo asserendo di essere in grado di indicare i nomi degli ufficiali sovietici responsabili del massacro, i quali avevano tutti nomi ebraici.
Chiaramente si trattava di una dozzinale bugia fra le tante, ad ogni modo l’insistenza di Sikorski nell’avallare la propaganda tedesca portò alla completa rottura delle relazioni tra il governo polacco in esilio a Londra e il governo sovietico – che Goebbels così commentò nel suo diario: «Questa rottura rappresenta una vittoria al cento per cento per la propaganda tedesca, e in particolare per me personalmente …. Siamo riusciti a trasformare i fatti di Katyn in un problema altamente politico». Le fonti borghesi asseriscono avventatamente che le prove sovietiche a sostegno della responsabilità dei tedeschi per le atrocità erano o del tutto assenti o basate semplicemente su dicerie di abitanti della regione terrorizzati. Non fanno menzione di una prova che lo stesso Goebbels dovette ammettere essere disastrosa dal suo punto di vista. Egli scrisse nel suo diario l’8 maggio 1943: «Sfortunatamente, munizioni tedesche sono state trovate nelle fosse di Katyn … È essenziale che questa circostanza rimanga segretissima. Se dovesse venire a conoscenza del nemico, l’intero affare di Katyn dovrebbe essere lasciato cadere». Persino la stampa britannica condannò l’intransigenza del governo polacco in esilio. Il Times del 28 aprile 1943 scrisse: «Sorpresa e rincrescimento proveranno tutti coloro che hanno avuto sufficienti motivi per comprendere la perfidia e l’abilità inventiva della macchina propagandistica di Goebbels e sono caduti essi stessi nella trappola che è stata loro tesa. I polacchi difficilmente avranno dimenticato un libro ampiamente diffuso nel primo inverno di guerra, che descriveva con ogni dettaglio di prove circostanziate, inclusa quella fotografica, le presunte atrocità dei polacchi contro i pacifici abitanti tedeschi della Polonia».
Tra il 2011 e il 2012 un gruppo misto di archeologi polacchi e ucraini condusse scavi parziali in un luogo in cui erano state compiute esecuzioni di massa nella città di Volodymyr-Volyns’kyj in Ucraina. I bossoli trovati nella fossa comune dimostrano che le esecuzioni non potevano essere anteriori al 1941, ma soprattutto nella fossa furono ritrovati i distintivi di due poliziotti polacchi che prima si pensava fossero stati ammazzati dai sovietici nell’aprile-maggio del 1940 a Katyn, a diverse centinaia di chilometri di distanza. Nei territori dell’ex Unione Sovietica sono numerosissimi i luoghi in cui i tedeschi compirono stragi di massa, tuttavia il sito presso Volodymyr-Volyns’kyj fu prescelto per gli scavi in quanto gli storici polacchi e ucraini pensavano celasse le vittime di un massacro perpetrato dai sovietici. Proprio dietro le atrocità sovietiche vere o presunte si tende a nascondere il collaborazionismo e i relativi massacri compiuti nel corso della Seconda Guerra Mondiale dai fascisti polacchi e ucraini. Probabilmente se ci fosse stato il minimo dubbio sulla possibilità che le nuove scoperte avrebbero potuto smentire la vulgata attorno alla “strage di Katyn”, e magari far emergere le responsabilità dei fascisti tedeschi e ucraini rispetto agli eccidi di massa compiuti in quei territori, le ricerche non sarebbero mai avvenute. D’altro canto, è lo stesso archeologo ucraino Oleksij Zlatohors’kyj, interpellato sulla relazione degli archeologi sugli scavi, ad esprimersi in questi termini: «Affermazioni incaute degli archeologi polacchi circa gli oggetti ritrovati sui resti riesumati nella campagna del castello di Casimiro il Grande a Volodymyr-Volyns’kyj potrebbero far sorgere dubbi sui crimini famosi del NKVD contro ufficiali polacchi». Da queste parole si evince l’esigenza di prescindere dalla verità storica, per non intaccare il mito in tutta la sua purezza. Tant’è che sempre Zlatohors’kyj rimprovera ai colleghi polacchi di far menzione dei soli “oggetti ritrovati” che abbiano attinenza con Katyn. È altresì vero, però, che i distintivi dei poliziotti polacchi Jósef Kuligowski e Ludwik Małowiejski sono di gran lunga i reperti più importanti emersi dagli scavi, e non deve stupire che la relazione di parte ucraina abbia ignorato totalmente il ritrovamento di ambedue i distintivi. In pratica gli archeologi ucraini sono pronti ad insabbiare la verità nel caso questa smentisse falsità anticomuniste. Con ogni probabilità ci saranno altre spoglie di prigionieri polacchi, attualmente contati tra le “vittime di Katyn”, massacrati dai fascisti tedeschi e ucraini a Volodymyr-Volyns’kyj e sepolti in quelle fosse comuni ma, se anche ce ne fossero altri, non lo verremmo a sapere. In questo senso, il riconoscimento del massacro operato dal governo russo post-sovietico (altro cavallo di battaglia degli anticomunisti per rimarcare una sorta di ammissione di colpe) unisce in una comunione di intenti anticomunisti russi e occidentali.
6. I rapporti economici e commerciali tra URSS e i paesi del Patto di Varsavia
Nella risoluzione del Parlamento europeo, per corroborare la tesi dell’equivalenza tra sistema sovietico e regime fascista, si dà anche spazio all’idea secondo cui l’URSS avrebbe “occupato gli stati baltici e soggiogato l’Europa centrale”. Questa idea riflette ed è, in generale, un corollario della tesi per la quale l’Unione Sovietica, negli anni dopo il secondo conflitto mondiale fino al crollo del Muro di Berlino, corrispondesse a una sorta di impero finalizzato a sfruttare e sottomettere i suoi “Stati satelliti” per metterli in funzione di presunte “mire espansionistiche” di Mosca. Per smentire questo ennesimo falso storico vale la pena, quindi, analizzare nello specifico il tipo di rapporto economico sussistente tra URSS e Paesi aderenti al Patto di Varsavia che, ricordiamo, era un trattato di mutua assistenza e un’alleanza militare stipulata nel 1955 tra gli Stati socialisti del blocco orientale nata come reazione al riarmo e all’entrata nella NATO della Repubblica Federale Tedesca nel maggio dello stesso anno. Non approfondiremo, qui, vicende come quelle che riguardano l’intervento sovietico in Ungheria o in Cecoslovacchia, non perché non sarebbe facile dimostrare quanto essi corrispondessero ad interventi decisi contro il pericolo concreto di due controrivoluzioni reazionarie (come viene ben spiegato qui e qui), ma per concentrarci sugli aspetti economici e sociali di lungo periodo e strutturali.

Mappa dei paesi membri, associati e osservatori del Comecon
Partiamo subito col dire che difficilmente gli storici hanno trovato prove concrete di sfruttamento da parte dell’URSS verso gli Stati dell’Europa Orientale, mentre vi è un ampio consenso tra di essi sul fatto che l’Unione Sovietica accettasse enormi costi economici proprio per sostenere i suoi alleati. All’interno del Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), l’organizzazione economica e commerciale tra Stati socialisti, istituita nel 1949 e sciolta nel 1991, innanzitutto il commercio non si svolgeva ai prezzi del mercato mondiale capitalista, ma sulla base di un complicato sistema di determinazione dei prezzi stessi. Questo sistema ha sempre favorito i prezzi dei beni industriali trasformati e ha spinto al ribasso i prezzi delle materie prime e delle fonti energetiche. E l’Unione Sovietica importava soprattutto prodotti industriali dall’Europa dell’Est, mentre esportava verso questi Paesi soprattutto materie prime e fonti energetiche. La composizione del suo commercio estero aveva, in altre parole, una struttura esattamente opposta ai profili del commercio estero tipici dei Paesi imperialisti.
In secondo luogo, i prezzi commerciali all’interno del Comecon erano generalmente allineati alla media dei prezzi commerciali mondiali dei cinque anni precedenti: le fluttuazioni dei prezzi a breve termine avevano un effetto attenuato e avvenivano in ritardo. Ciò significa, ad esempio, che l’Unione Sovietica beneficiò in misura molto limitata dei rapidi aumenti del prezzo del petrolio del 1973 e del 1979-1980 nei suoi scambi commerciali con l’Europa orientale, mentre ai Paesi dell’Europa orientale è stato risparmiato gran parte dell’onere dell’alto prezzo del petrolio. Ciò è stato particolarmente vero per la Repubblica Democratica Tedesca e la Repubblica Socialista Cecoslovacca, che hanno continuato a ricevere petrolio a basso costo ai prezzi invariati precedenti al 1975 grazie agli accordi conclusi nel 1966-1967. L’Unione Sovietica perse gli enormi profitti delle esportazioni che avrebbe realizzato se avesse invece venduto il petrolio sul mercato mondiale capitalista: un elemento che, secondo i principi socialisti, favoriva le economie più bisognose di sviluppo e che risulta clamorosamente contrario alla tesi della sottomissione dei “Paesi satellite”. Ma questo non significa, forse, che dopo qualche anno gli aumenti dei prezzi del petrolio sono scattati a favore di un “lucro” dell’URSS? O, anche, non significa che ci sono stati altri prodotti la cui variazione di prezzo ha potuto favorire i sovietici? In realtà, secondo varie ricerche, la formula dei prezzi mobili descritta sopra avrebbe dovuto garantire all’URSS un miglioramento del 40% del commercio estero nel 1975-1980, mentre il miglioramento reale è stato solo del 21%. Nel periodo precedente (1955-1974), in ogni caso, il commercio estero dell’Unione Sovietica si era deteriorato del 20% a causa dell’andamento dei prezzi di vari gruppi di prodotti di base, cosicché l’aumento del prezzo del petrolio ha ripristinato solo approssimativamente l’ordine di grandezza precedente.
Passando alla bilancia commerciale in generale, ovvero alla differenza tra beni esportati e importati, l’Unione Sovietica ha avuto enormi eccedenze commerciali con i Paesi dell’Europa orientale per molto tempo. Infatti, mentre nel periodo 1966-1970 il deficit sovietico è stato di 2,5 miliardi di rubli, e nel 1971-1973 si è registrato un deficit di circa 1,7 miliardi di rubli per l’URSS, nel 1975-1980 vi fu un enorme surplus di quasi 6 miliardi di rubli. Nel 1981, il surplus sovietico aveva superato i 3 miliardi di rubli, pari al 13% delle esportazioni sovietiche. Tuttavia, queste eccedenze non erano affatto espressione del dominio economico sovietico a spese di altri Paesi, come nel caso dei Paesi imperialisti: infatti, i trasferimenti di merci dall’URSS verso gli altri Paesi socialisti non hanno portato a un trasferimento di valore dall’Europa orientale all’Unione Sovietica. Gli scambi commerciali nel Comecon erano regolati in una valuta non convertibile, motivo per cui le eccedenze commerciali sovietiche al di fuori del Comecon erano prive di valore. Pertanto, finché i partner commerciali dell’Europa orientale non ridussero a loro volta le eccedenze sovietiche accumulate con eccedenze commerciali – cosa che non avvenne mai – le eccedenze commerciali sovietiche non furono altro che trasferimenti economici di enorme portata agli altri Paesi del Comecon.
Un altro meccanismo che favorì economicamente i Paesi dell’Europa orientale a spese dell’Unione Sovietica fu quello dei prestiti in rubli sovietici. Di norma, sono stati concessi a lungo termine e a tassi di interesse molto bassi. Spesso il rimborso era negoziabile, esteso a periodi ancora più lunghi o annullato del tutto. Il volume di questi prestiti, di cui approfittarono soprattutto i Paesi beneficiari a spese dell’Unione Sovietica, aumentò rapidamente: da un totale di circa 4 miliardi di rubli di prestiti sovietici in essere all’Europa orientale nel 1977 a 14,6 miliardi di rubli nel 1983. La Repubblica Democratica Tedesca e la Repubblica Popolare Polacca ne trassero particolare vantaggio. Infine, a causa dell’aumento delle attività anticomuniste nel Paese, nel 1981 la Polonia ricevette un ingente prestito in valuta estera dalle banche del Comecon e dall’Unione Sovietica. Poiché l’Unione Sovietica stessa doveva guadagnare questa valuta estera attraverso le proprie esportazioni, questo fu un caso particolarmente notevole di sostegno economico.
Sebbene il Prodotto Interno Lordo dell’Unione Sovietica fosse inferiore a quello degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica fornì aiuti economici all’Europa orientale e a Cuba attraverso condizioni commerciali e creditizie favorevoli che superavano in modo significativo, sommando solo queste due aree, tutti gli aiuti economici statunitensi nel mondo. Nel periodo 1971-1983, un totale equivalente a 153,6 miliardi di dollari è passato attraverso questo canale dall’Unione Sovietica ai suoi alleati dell’Europa orientale e a Cuba, rispetto ai soli 109,83 miliardi di dollari in aiuti economici dagli Stati Uniti a tutti i suoi alleati. Anche altri Paesi socialisti, come il Vietnam del Nord, hanno beneficiato degli aiuti economici dell’Unione Sovietica.
Diversi politici durante la Guerra Fredda hanno accusato l’Unione Sovietica di esportare capitali nei Paesi che avrebbe “sottomesso” attraverso progetti di investimento congiunti. In questo si crede di vedere la prova che l’Unione Sovietica si comportava come i Paesi imperialisti (la famosa tesi del “socialimperialismo”). In realtà, l’Unione Sovietica non ha esportato capitali: partecipava a progetti di investimento realizzati in collaborazione con Paesi alleati, ma gli impianti produttivi così creati diventavano di proprietà del Paese in cui erano stati costruiti al termine del progetto.
Infine, una tesi molto diffusa circa i presunti rapporti “asimmetrici” tra URSS e Paesi del Patto di Varsavia è che l’Unione Sovietica “costrinse” i suoi alleati a specializzarsi in determinati beni, mentre essa stessa sviluppò un’economia nazionale equilibrata e completa. Anche questa tesi è insostenibile. In primo luogo, i Paesi dell’Europa orientale del Comecon non sono stati costretti da nessuno a specializzare la loro produzione: esistevano accordi di specializzazione non vincolanti che avrebbero dovuto facilitare una più efficiente divisione del lavoro. In secondo luogo, questa divisione del lavoro non ha portato a una “economia nazionale a tutto tondo” per l’Unione Sovietica, ma piuttosto alla specializzazione nella fornitura di petrolio, gas e altre materie prime. In terzo luogo, un accordo per la divisione del lavoro non è per forza sinonimo di “sfruttamento”, soprattutto quando, come nel caso del Comecon, va a vantaggio di tutte le parti. Tra i Paesi socialisti non è necessariamente auspicabile o possibile che ogni Paese sviluppi ogni ramo della produzione in modo indipendente. Al contrario, ciò comporterebbe costi elevati e una perdita di efficienza.
In conclusione, le relazioni economiche tra l’Unione Sovietica e i Paesi alleati si sono risolte in un bilancio fortemente a favore di questi ultimi e a scapito dell’URSS, non in una sottomissione dei Paesi del Patto di Varsavia. La leadership sovietica era in gran parte disposta a sostenere questi costi per far progredire economicamente e politicamente i suoi alleati e poter così costruire una grande economia socialista. Il cambiamento avvenne, piuttosto, negli anni Ottanta, a ridosso della presidenza Gorbačëv, quando le leggi del mercato negli scambi commerciali hanno prevalso definitivamente e durante i quali l’ammontare degli aiuti ai Paesi alleati fu percepito sempre più come un fardello insostenibile. Tanto che, al vertice del Comecon del 1984, la delegazione sovietica dichiarò di voler cambiare le relazioni economiche con l’Europa orientale, di voler modificare le relazioni di scambio molto sfavorevoli e di ridurre le eccedenze commerciali sovietiche.
7. I campi di prigionia sovietici
La vicenda dei campi di lavoro sovietici (il nome “Gulag” significa, per la precisione, “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”) è sicuramente una delle più citate e gettonate quando si tratta di accomunare il Paese del socialismo e il regime hitleriano. La risoluzione ne parla come un esempio delle “sofferenze che i crimini dell’Unione Sovietica hanno apportato agli europei durante il Ventesimo secolo”. Di fronte a questa affermazione antistorica e arbitraria occorre, in questa sede, fare emergere intanto la realtà storica e il significato dei Gulag rispetto a come sono descritti nelle pubblicazioni di propaganda antisovietiche e, soprattutto, approfondire la differenza sostanziale tra l’approccio sovietico alla rieducazione dei prigionieri (comuni e politici) e quello repressivo e di sterminio utilizzato dai fascismi e dai Paesi imperialisti nella stessa epoca.

L’opera di Aleksandr Solženicyn “Arcipelago Gulag” è basata quasi interamente su voci, speculazioni, opinioni di terze parti e interpretazioni di opinioni dello stesso Solženicyn piuttosto che su fonti e dati credibili
Va innanzitutto notato che, ancora oggi, l’opera principale di Aleksandr Solženicyn, “Arcipelago Gulag”, è più o meno considerata la fonte informativa principale sull’universo dei campi di lavoro. È significativo che l’autore dell’opera più importante sul tema coincida con un riconosciuto scrittore conservatore, da sempre anticomunista e antimodernista: coloro che celebrano Solženicyn tendono a dimenticare che la sua condanna del 1946 a otto anni di prigione in URSS fu il risultato della sua attività controrivoluzionaria e filofascista. Egli, in effetti, non nascose mai i suoi sentimenti filofascisti; tra le altre cose accusò Stalin di aver spinto l’URSS in guerra invece di stipulare un vero accordo con il Terzo Reich.
C’è, in ogni caso, un problema fondamentale nell’opera del profondamente reazionario Solženicyn: “Arcipelago Gulag” è un libro completamente antiscientifico, basato quasi interamente su voci, speculazioni, opinioni di terze parti e interpretazioni di opinioni dello stesso Solženicyn. L’argomentazione di Aleksandr Solženicyn sui 60 milioni di morti nei campi di lavoro sovietici può essere considerata un prodotto della sua fantasia profondamente anticomunista. Dopo la vittoria della controrivoluzione e il rovesciamento del socialismo in URSS, infatti, il governo borghese di Boris El’cin decise di aprire gli archivi ufficiali dello stato sovietico, sperando di trovare prove sul “milione di vittime dell’era stalinista”. Ma quello che rivelarono gli archivi ufficiali dello stato sovietico fu che il numero effettivo di coloro che furono condannati a morte durante il periodo della leadership di Stalin, dal 1923 al 1952, un periodo di quasi costante stato d’assedio in URSS, di varie forme di guerre civili, senza contare tutti i fenomeni connessi alla Seconda Guerra Mondiale (spionaggio, tradimenti, eccetera) è compreso tra 776.000 e 786.000 persone – in un Paese che conteneva, come media annuale in quel periodo, 170 milioni di abitanti. Il “milione di vittime dello stalinismo” di cui scrissero Solženicyn, Robert Conquest e altri propagandisti anticomunisti, coincide con favole propagandistiche.
Robert Conquest, autore notissimo di altri testi di riferimento sull’argomento, propone invece i seguenti dati: 5 milioni di internati nel Gulag all’inizio del 1934. Nel 1990, tuttavia, gli storici sovietici Zemskov e Dugin pubblicarono le statistiche reali dei Gulag attingendo agli archivi ufficiali: nel 1934, si contano in realtà tra 127.000 e 170.000 detenuti; il numero esatto di tutti i detenuti nei campi di lavoro, politici e di diritto comune, era 510.307 e i prigionieri politici costituivano solo il 25-35% dei detenuti: ai circa 150.000 detenuti, Conquest ne aveva aggiunti arbitrariamente 4.850.000. Conquest, inoltre, sostiene che nel biennio 1937-1938, durante la cosiddetta Grande Purga, i campi si siano gonfiati di 7 milioni di detenuti politici e ci siano stati 1 milione di esecuzioni e 2 milioni di altri morti. In realtà, dal 1936 al 1939, il numero di detenuti nei campi è aumentato di 477.789 persone (passando da 839.406 a 1.317.195). Un fattore di falsificazione di 14. C’è da aggiungere che nel 1951, l’anno del maggior numero di detenuti nei Gulag, c’erano 579.878 detenuti politici, la maggior parte dei quali era stata collaborazionista dei fascisti: 334.538 erano stati condannati per tradimento. Un ultimo elemento da considerare è che la grandissima parte delle pene comminate nei campi di lavoro era inferiore a 10 anni, mentre la pena di morte, (allora presente in quasi tutto il mondo), fu abolita al decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e lasciata in vigore soltanto per i crimini di natura politica e per le rapine a mano armata. La credibilità di determinate pubblicazioni prodotte sull’onda del maccartismo nella seconda metà del Novecento è dunque ormai messa seriamente in discussione.
Passiamo ora ad un’analisi nel merito della funzione dei campi di lavoro sovietici. Vi è da dire, innanzitutto, che il lavoro forzato come tipo di pena era un fenomeno diffuso in tutto il mondo ancora tra gli anni Trenta e Cinquanta del Ventesimo secolo, non era certo una peculiarità del socialismo. Fino all’immediato secondo dopoguerra, quando la pratica iniziò gradualmente ad essere abbandonata ovunque, URSS compresa, i campi di lavoro caratterizzavano nazioni che oggi vengono considerate tra le più “civilizzate” del mondo, come Nuova Zelanda, Scozia, Irlanda, oltre i Paesi ex coloniali. La prima differenza sostanziale tra i Gulag sovietici e le prigioni di questo tipo nel mondo capitalista era che, mentre in quest’ultimo caso, come accade ancora oggi, ad essere condannati alla detenzione erano in maggioranza membri della classe proletaria, autori di reati dettati da esigenze primarie, o di minoranze svantaggiate, in URSS la maggioranza dei detenuti era costituita da simpatizzanti fascisti, ex zaristi, spie, controrivoluzionari e persone colpevoli di reati gravi. Una seconda differenza era lo scopo stesso dei Gulag rispetto a quello dei campi di lavoro dei Paesi capitalisti. In quest’ultimo caso, infatti, l’obiettivo della detenzione era la repressione del prigioniero e il suo sfruttamento per nutrire i fini imperialistici delle borghesie delle rispettive nazioni, il che includeva una serie di maltrattamenti e torture fini a sé stesse. Un esempio clamoroso è quello della colonia penale francese di Cayenne, che a cavallo tra Ottocento e Novecento aveva un tasso di mortalità del 95%. Facciamo notare che tale trattamento dei detenuti è ancora una pratica comune in alcuni paesi del cuore imperialista. L’obiettivo sociale e politico dei Gulag era, invece, la formazione della cultura, la rieducazione e l’integrazione del prigioniero all’interno della società socialista. Questo si rifletteva, innanzitutto, nella qualità della vita degli stessi detenuti, che venivano inquadrati in una logica di educazione alla cooperazione e alla cosiddetta “competizione socialista”.
Come scrivono storici come Domenico Losurdo, in effetti, nei primi anni Trenta i prigionieri erano relativamente ben trattati e liberi. La dirigenza del Gulag mostrava “una certa tolleranza religiosa” e accoglieva addirittura le richieste di una dieta vegetariana avanzate dai membri di alcune “sette religiose”. Come riporta un verbale di alcune colonie penali nell’estremo nord nei primi anni Trenta, «essendoci bisogno di ospedali, gli amministratori del campo li costruirono e introdussero sistemi per formare farmacisti e infermieri prigionieri. Avendo bisogno di cibo, costruirono le proprie fattorie collettive, i propri magazzini e i propri sistemi di distribuzione. Avendo bisogno di elettricità, costruirono centrali elettriche. Avendo bisogno di materiali da costruzione, costruirono fabbriche di mattoni. Avendo bisogno di lavoratori istruiti, formarono quelli che avevano. Gran parte della forza lavoro degli ex kulaki si rivelò analfabeta o semianalfabeta, il che causò enormi problemi quando si trattava di progetti di relativa sofisticatezza tecnica. L’amministrazione del campo istituì quindi scuole di formazione tecnica, che richiedevano, a loro volta, più nuovi edifici e nuovi quadri: insegnanti di matematica e fisica, nonché “istruttori politici” per supervisionare il loro lavoro». Una conseguenza fu che negli anni Quaranta, Vorkuta, una città costruita nel permafrost, dove le strade dovevano essere riasfaltate e le condutture riparate ogni anno, aveva acquisito un istituto geologico e un’università, teatri, teatri di marionette, piscine e asili nido.
Nei Gulag sovietici, in effetti, i migliori lavoratori venivano rilasciati in anticipo: per ogni tre giorni di lavoro al 100% di adempimento della norma, ogni prigioniero riceveva un giorno di riduzione della sua condanna. Quando il canale del Mar Bianco, al quale lavoravano dei detenuti, fu completato, in tempo, nell’agosto del 1933, furono liberati 12.484 prigionieri. Molti altri ricevettero medaglie e premi. L’obiettivo era dunque quello di trasformare i detenuti in cittadini e stacanovisti pronti a partecipare con entusiasmo allo sviluppo del Paese. Leggiamo cosa scrive Anne Applebaum, storica americana del Gulag e non certo simpatetica del sistema sovietico: «Come nel mondo esterno, anche nei campi si continuavano a tenere “competizioni socialiste”, gare di lavoro in cui i prigionieri dovevano competere tra loro, per aumentare al meglio la produzione. Onoravano i lavoratori del campo, per la loro capacità di triplicare e quadruplicare la produzione. Non è un caso che, fino al 1937, quando si rivolgevano ai prigionieri, le guardie li chiamassero “compagni”. La prigionia nel campo di concentramento non escludeva la possibilità di promozione sociale». A questo bisogna aggiungere che negli anni Quaranta, la Sezione educativa e culturale di ogni campo aveva almeno un istruttore, una piccola biblioteca e un “club”, dove venivano messi in scena spettacoli teatrali e concerti, dove venivano organizzate lezioni politiche e si tenevano dibattiti.
Risulta evidente da questa panoramica che non solo i Gulag sovietici fossero imparagonabili ai lager fascisti, tedeschi o italiani che fossero, – la cui funzione era fin dall’inizio la cruenta repressione su base etnica, politica o di minoranze, oppure l’eliminazione fisica di alcune categorie di persone – o ai lager costruiti da molte altre nazioni capitaliste, ma che possedessero proprio una funzione opposta rispetto a questi. Gli alti tassi di mortalità di certi anni nei campi sovietici, in effetti, riflettevano in parte gli eventi che si svolgevano all’esterno: nell’inverno del 1941-42, quando un quarto della popolazione del Gulag morì di fame, quasi un milione di abitanti di Leningrado, intrappolati dal blocco tedesco, morirono di fame, e carenze e malnutrizione imperversavano in gran parte dell’Unione Sovietica. D’altro canto, persino in una situazione così disperata, nel gennaio 1943 il governo sovietico istituì uno speciale “fondo alimentare” per il Gulag e la situazione alimentare migliorò mentre le sorti della guerra volgevano a favore dell’Unione Sovietica.
8. La nozione antiscientifica di totalitarismo

Il concetto di totalitarismo, lungi dall’essere oggettivo e neutrale, fu al contrario un’espressione sul piano ideologico e culturale dello scontro mondiale fra capitalismo e socialismo del secondo dopoguerra, e sembra spesso essere stato creato su misura per l’URSS più che per il Terzo Reich. A distanza di decenni, la categoria del totalitarismo appare ancor più infondata storicamente.
Il concetto di totalitarismo è sicuramente uno dei più utilizzati per argomentare che l’URSS possedeva caratteristiche comuni con il fascismo tedesco e la risoluzione europea ne fa largo uso lungo i suoi paragrafi. Abbiamo in passato affrontato l’argomento, spiegando come questa nozione nasca in piena Guerra Fredda in ambienti filosofici (Hannah Arendt) e politologici (Friedrich e Brzezinski) del blocco occidentale, con un chiaro intento politico, sebbene possieda uno scarso rigore scientifico. In particolare, nell’opera di Friedrich e Brzezinski, i due autori citano, fra gli elementi che dovrebbero caratterizzare il totalitarismo, la presenza di una “ideologia totalizzante” e del controllo pianificato e centralizzato dell’economia, entrambi elementi di cui il Terzo Reich fu sostanzialmente privo (essendo la sua economia saldamente controllata dai grandi monopoli industriali e dal grande capitale, e la sua ideologia strettamente legata al Mein Kampf e priva di una propria coerenza sistemica se confrontata con il marxismo). A riprova di quanto questo concetto sia intrinsecamente strumentale alla condanna del comunismo e tutt’altro che neutrale, basti pensare che Zbigniew Brzezinski, co-autore della principale opera che ha sistematizzato questa categoria, è stato Consigliere per la Sicurezza Nazionale negli USA durante la presidenza di Jimmy Carter, fautore del sostegno al regime cambogiano di Pol Pot in funzione antisovietica, sostenitore dei mujaheddin (jihadisti) in Afghanistan contro il governo socialista del Partito Democratico del Popolo Afghano, nonché teorizzatore nel 1997 dello smembramento della Russia post-sovietica.
Ma il problema maggiore del concetto di “totalitarismo” è che esso non tiene assolutamente conto del carattere di classe del monopolio del potere. C’è differenza se la “totalità” del potere viene detenuta dalla classe lavoratrice, stragrande maggioranza della popolazione, e dalle organizzazioni espressioni delle sue istanze o se viene detenuta dalla minoranza della popolazione, costituita dalla classe sfruttatrice e dai suoi bracci armati. Il concetto di “dittatura del proletariato”, d’altronde, si riferisce proprio alla fase del socialismo nella quale i lavoratori, costruendo le proprie istituzioni e negando temporaneamente l’agibilità politica agli ex membri della borghesia e a chi intende ristrutturare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, realizzano una democrazia ben più profonda nella quale la maggioranza della popolazione può emanciparsi e ottenere i propri diritti, negati sotto la democrazia formale dei regimi liberali. Quello che era in vigore in Unione Sovietica era letteralmente questo, un sistema nel quale funzionava una democrazia operaia con diversi apparati e strumenti democratici per i lavoratori e in cui il Partito Comunista, come in altri sistemi socialisti, deteneva la funzione di guida ideologica del Paese ma non partecipava alle elezioni, che non avevano la forma di competizione tra partiti.
Durante la Rivoluzione russa e gli anni che seguirono, l’Unione Sovietica era stata legalmente governata da una gerarchia di Soviet (che significa “consigli operai”), dal livello locale al livello nazionale, con il Soviet Supremo come corpo legislativo nazionale, il Consiglio dei Commissari del Popolo come organo esecutivo, e il Presidente di questo Consiglio come Capo dello Stato. A tutti i livelli, in questi anni critici di invasioni e guerra civile, un costante stato d’eccezione, la scelta di questi funzionari era sempre stata mediata dal PCUS, in nome appunto della dittatura del proletariato. Negli anni seguenti, la dirigenza staliniana si preoccupò di meglio impostare il ruolo del Partito in questa nuova fase del socialismo, sollevando la lotta contro il “burocratismo” con grande vigore fin dal suo rapporto al XVII Congresso del Partito nel gennaio 1934. D’altronde, un documento declassificato della stessa CIA risalente al 1955 riconosce che durante la leadership di Stalin il governo del Paese era gestito, in realtà, secondo una “direzione collegiale” e che la retorica occidentale circa il ruolo da “dittatore” assunto dal Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS era in realtà “un’esagerazione”. In questa fase più matura, con la Costituzione del 1936, furono meglio impostati vari organi statali di rappresentanza, come il Soviet dell’Unione e il Soviet delle Nazionalità, che erano al vertice del sistema sovietico.
Ma la scelta dei rappresentanti nelle istituzioni non aveva quindi un riscontro nel consenso delle masse, come vorrebbero coloro che paragonano il socialismo reale ai fascismi? In realtà, innanzitutto, c’era un elemento di co-determinazione nel processo elettorale stesso, perché se è vero che nella fase finale del percorso elettorale c’era un solo candidato da approvare alle urne, era ovviamente possibile votare anche contro un candidato. Se la maggioranza degli aventi diritto al voto avesse respinto un candidato, questo non sarebbe stato eletto e la carica doveva essere ricoperta da un altro candidato in un nuovo processo elettorale. Nel 1965, 208 candidati ai soviet locali furono respinti in questo modo. Ma soprattutto, le elezioni nazionali erano solo l’ultimo passo di un processo di selezione molto più lungo. I candidati venivano selezionati durante le riunioni dei lavoratori e delle loro organizzazioni di massa, dopo aver presentato le loro posizioni politiche e affrontato la discussione. Tutti i partecipanti a queste riunioni avevano il diritto di proporre candidati. Le elezioni dei soviet, inoltre, erano solo uno dei tanti meccanismi di controllo democratico. Un meccanismo centrale di controllo dei lavoratori era rappresentato dai sindacati: l’iscrizione ai sindacati non era obbligatoria, eppure circa il 95% dei lavoratori era iscritto al sindacato. Il comitato sindacale, eletto dai lavoratori, aveva ampli poteri: i lavoratori potevano essere licenziati solo con il suo esplicito consenso. Il comitato organizzava assemblee dei soci, consultazioni sulla produzione e conferenze in cui i lavoratori discutevano gli aspetti della vita sul posto di lavoro. La direzione era obbligata a prendere in considerazione le critiche e le proposte delle varie assemblee dei lavoratori entro un periodo di tempo limitato e a riferire sui cambiamenti attuati.
In conclusione, se da un lato la nozione di “totalitarismo” è antiscientifica perché non fa emergere il carattere di classe del potere detenuto in un Paese, dall’altro la stessa accusa, rivolta all’URSS, di essere una sorta di “monolite” nel quale il potere veniva esercitato da un ceto politico autoreferenziale senza il controllo o il contributo della popolazione – accusa spesso implicita nella nozione di totalitarismo – è da rigettare.
9. I crimini dell’imperialismo: chi somiglia davvero al Terzo Reich
L’identificazione del socialismo reale con le pratiche tipiche dei fascismi europei si rivela, quindi, essere frutto di iniziative culturali ed editoriali puramente politiche portate avanti soprattutto nell’epoca del maccartismo e diventate egemoni della narrativa anticomunista. Vogliamo, nel paragrafo finale di questo articolo, dimostrare come questa esigenza di sovrapporre ideologia socialista e pratiche fasciste sia dovuta anche alla necessità di occultare la vera origine storica di quelle pratiche: ovvero il fatto che ciò che avvenne in Germania durante il Terzo Reich non fu altro che l’efficientamento e la trasposizione, nel contesto dell’Europa centrale, di modus operandi tipici delle potenze coloniali e imperialiste, soprattutto europee e del nord America, che erano stati praticati prima dell’avvento di Hitler e continueranno dopo la sua morte.

L’ex re Edoardo VIII del Regno Unito ospite di Adolf Hitler nel 1937
Che la Germania hitleriana abbia espressamente tratto ispirazione, sotto alcuni aspetti riguardanti principalmente le politiche repressive, razziali e coloniali, da Stati Uniti e Gran Bretagna traspare direttamente da testi e discorsi di Adolf Hitler. Nel Mein Kampf egli scriveva sugli USA:
«Oggi c’è uno Stato in cui si notano almeno deboli inizi verso una concezione migliore [su “razza” e cittadinanza; NdR]. Naturalmente non mi riferisco al modello della nostra Repubblica Tedesca, ma all’Unione Americana [gli Stati Uniti; NdR], in cui si cerca di consultare almeno parzialmente la ragione. Rifiutando per principio l’immigrazione di elementi in cattive condizioni di salute, escludendo semplicemente determinate razze dalla naturalizzazione, si sta avviando in maniera modesta verso una visione che è propria del concetto di Stato etnonazionalista.»
Nello stesso testo, Hitler esprimeva ammirazione per la capacità degli USA, le cui popolazioni consistevano allora per la maggior parte, almeno per quanto riguarda la classe dirigente, di elementi di origine germanica, di evitare la mescolanza razziale con indigeni e “nazioni colorate inferiori”, limitando l’afflusso di latini, slavi e asiatici.
Persino l’impianto legislativo tedesco, che sanciva la divisione della società su base etnica, fu profondamente influenzato dalle leggi statunitensi. In particolare, dal giugno 1934 i più eminenti giuristi del Reich si riunirono per progettare quelle che in futuro sarebbero diventate le Leggi di Norimberga. Tali riunioni furono caratterizzate dalla profonda attenzione con cui vennero discusse e recepite alcune leggi degli USA. Infatti, l’aspetto che aveva più positivamente impressionato i fascisti tedeschi erano le leggi anti-immigrazione (che colpivano asiatici, malati, omosessuali, “idioti”, delinquenti, anarchici e, poi, comunisti) e le leggi contro la mescolanza razziale, e in particolare quelle che criminalizzavano i matrimoni “misti”. Come affermò Roland Freisler, futuro presidente del tribunale supremo del Reich per i delitti politici, «se solo avessero esteso il trattamento dei non bianchi e meticci anche agli ebrei, la loro legislazione si attaglierebbe alla perfezione a noi».

La segregazione razziale negli USA, abolita solo nel 1964, fu fonte di ispirazione per la Germania hitleriana
Inoltre, Freisler considerava la legislazione razziale americana “primitiva” per la sua mancanza di una definizione legale precisa dei termini “black” o “negro”. Tuttavia, sosteneva che, nonostante questa imprecisione, i giudici americani fossero in grado di identificare le persone di colore ai fini delle leggi che proibivano la mescolanza razziale e codificavano la segregazione razziale. Pertanto, riteneva che le leggi tedesche potessero similmente prendere di mira gli ebrei, anche senza una definizione legale precisa del termine “ebreo”.
È risaputo inoltre come Hitler abbia preso a modello l’efficienza dello sterminio dei nativi americani da parte degli Stati Uniti per la sua “soluzione finale”. Secondo lo storico John Toland, Hitler ammirava i campi di concentramento per gli indiani nel selvaggio West, lodando l’efficienza dell’eliminazione dei “selvaggi rossi” da parte degli americani attraverso la fame e combattimenti impari. Hitler era molto interessato al rapido declino della popolazione indiana a causa di epidemie e fame quando il governo degli Stati Uniti li costrinse a vivere nelle riserve. Considerava le migrazioni forzate degli indiani su grandi distanze verso terre aride come una politica deliberata di sterminio. Hitler considerava l’espansione verso ovest degli Stati Uniti e il trattamento dei nativi americani come un modello per la sua politica di espansione verso est (Lebensraum). Egli vedeva gli slavi come “indiani d’Europa”, destinati a essere soggiogati o eliminati per fare spazio ai coloni tedeschi.
Anche l’Impero Britannico rappresentò un riferimento per gli hitleriani. Oltre a definirla come composta e governata da persone di “eccellente stirpe germanica”, Hitler proclamò che “la nazione inglese dovrà essere considerata l’alleato più prezioso al mondo” oltre che “un alleato naturale per la Germania”. Il progetto del Lebensraum era inoltre ispirato dai precedenti imperiali britannici, in particolare nel modo in cui i britannici avevano governato le colonie senza concedere diritti alle popolazioni indigene. Il dominio britannico in India e in Africa serviva quindi da modello per la gestione della futura “colonia” tedesca in Europa orientale. La vicinanza, quantomeno ideale e con le rispettive politiche militari o razziali, con gli angloamericani è quindi un elemento assodato e comprovato dalle reciproche “simpatie” tra i fascisti hitleriani e alcuni ambienti della politica e dell’economia in USA e Regno Unito.
Vi sono poi le continuità tra gli elementi concreti di politica che sono stati applicati dal Terzo Reich e dagli imperi coloniali europei in precedenza. Gli esempi di campi di concentramento, torture, pregiudizi e trattamenti basati sulla razza e a scopo di profitto lungo la storia del colonialismo e del capitalismo sono talmente numerosi che non basterebbe una collana di saggi per enumerarli tutti: la tratta degli schiavi di cui hanno beneficiato per secoli i padroni americani, il genocidio dei nativi dal quale gli stessi Stati Uniti d’America sono nati, il massacro degli abitanti del Congo perpetrato per più di vent’anni dal re Leopoldo II del Belgio, il massacro di decine di migliaia di militanti comunisti in Indonesia per mano dell’esercito indonesiano e gli squadroni della morte incoraggiati dagli Stati Uniti, l’utilizzo delle bombe nucleari a Hiroshima e Nagasaki al solo fine di ammonire e spaventare i sovietici, fino agli esempi più recenti e contemporanei del massacro di civili in Iraq e del genocidio palestinese. Ci sarebbe poi da fare un discorso a parte sulla forte simpatia e vicinanza di idee che molti leader liberali, tra i quali soprattutto Winston Churchill, esprimevano nei riguardi di Mussolini e lo stesso Hitler.
Ci limiteremo a citare, quindi, alcuni esempi paradigmatici, cominciando col dire che l’idea stessa di rinchiudere in dei campi grandi di tortura masse di soggetti “potenzialmente ostili” sia venuta al generale spagnolo Valeriano Weyler y Nicolau, impegnato nel 1896 a reprimere la rivolta di Cuba. L’opinione pubblica inglese e americana (ostile alla Spagna) non esitò a definire Weyler “un macellaio”. Tuttavia, gli americani utilizzarono a loro volta i campi nelle Filippine (nel 1898), mentre gli inglesi li utilizzarono su scala ancora maggiore in Sudafrica, contro i boeri, quando il conflitto si trasformò in una guerra contro una vera e propria nazione in armi. L’idea di costruire dei campi in cui internare le famiglie dei guerriglieri boeri maturò nell’estate del 1900; in settembre, furono realizzati i primi laagers, come vennero chiamati dai boeri, in lingua olandese. Nell’estate del 1901, erano rinchiusi nei concentration camps 109.418 bianchi, mentre altri 38 campi erano stati istituiti per africani sospettati di collaborare coi boeri. Secondo le stime più recenti, il sistema provocò tra i boeri 27.900 morti, di cui 26.250 tra donne e bambini. Per quanto riguarda la Francia coloniale, abbiamo già citato tra gli esempi più clamorosi la colonia penale di Cayenne (1852-1953), che in tempo di pace aveva un tasso di mortalità sbalorditivo del 95% – il Gulag sovietico, per fare un confronto, aveva un tasso di mortalità del 3-4% in tempo di pace.
Abbiamo citato la tratta degli schiavi verso gli Stati Uniti, ma ovviamente la condizione di subalternità e le violenze subite dagli afroamericani non terminarono con l’abolizione della schiavitù: come riporta Losurdo, dopo la guerra civile, i prigionieri neri (che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione carceraria) venivano spesso affittati a società private e tenuti in «grandi gabbie mobili che seguivano i campi di costruzione e la costruzione delle ferrovie». In questo contesto, i detenuti venivano puniti in modo eccessivo e talvolta crudele; erano mal vestiti e mal nutriti; i malati venivano trascurati, tanto che non erano stati forniti ospedali. Un’indagine della giuria popolare sull’ospedale penitenziario del Mississippi riferì che i detenuti «portano tutti sulla loro persona i segni dei trattamenti più disumani e brutali. La maggior parte di loro ha la schiena tagliata a pezzi, cicatrici e vesciche, alcuni con la pelle che si stacca a pezzi a causa di gravi percosse… Giacevano lì morenti, alcuni di loro su assi nude, così poveri ed emaciati che le loro ossa quasi uscivano dalla pelle, molti si lamentavano per la mancanza di cibo… Abbiamo visto parassiti vivi strisciare sui loro volti, e il poco giaciglio e i vestiti che avevano erano a brandelli e rigidi per la sporcizia».
Negli Stati Uniti nel XIX secolo, siamo in presenza di un sistema che fa uso di «catene, cani, fruste e armi da fuoco» e che «produce per i prigionieri un inferno vivente». Il tasso di mortalità era altamente significativo. Tra il 1877 e il 1880, nel corso della costruzione delle linee ferroviarie di Greenwood e Augusta, quasi il 45% dei lavoratori forzati lì impiegati morì, e si trattava di giovani «nel fiore degli anni». Si potrebbe citare un’altra statistica, relativa allo stesso periodo: «Nei primi due anni in cui l’Alabama diede in affitto i suoi prigionieri, circa il 20 percento di loro morì. L’anno seguente, la mortalità salì al 35 percento. Nel quarto, circa il 45 percento fu ucciso».

«Avendo al suo attivo mezzo secolo di crimini al servizio dell’Impero britannico, Churchill è senza dubbio il solo politico di questo secolo paragonabile ad Hitler» (Ludo Martens)
Torniamo alla Gran Bretagna: pochi ricordano la carestia, ostinatamente negata da Churchill, che nel 1943-44 causò tre milioni di morti nel Bengala per via delle politiche commerciali inglesi, che seguì la carestia che si era verificata qualche decennio prima, sempre nell’India coloniale. In quel caso, venti o trenta milioni di indiani avevano perso la vita, spesso costretti a dispensare “lavori duri” con una dieta insufficiente per vivere. In quell’occasione, la componente razzista era stata esplicita e palese. I burocrati britannici ritenevano che fosse «un errore spendere così tanti soldi solo per salvare un sacco di ragazzi neri».
Espressioni o intenzioni palesemente in continuità con quella che sarà, dopo, l’ideologia del fascismo europeo si possono ritrovare spessissimo nella storia dell’occidente liberale. Dopo la rivoluzione haitiana a Santo Domingo, temendo l’effetto contagio del primo paese del continente americano ad abolire la schiavitù, Jefferson si dichiarò pronto a «ridurre Toussaint alla morte per fame». A metà dell’Ottocento Tocqueville ordinò di bruciare i raccolti e svuotare i silos degli arabi in Algeria che osavano resistere alla conquista francese. A fine secolo, con questa stessa tattica di guerra, condannando un intero popolo alla fame o alla morte per fame, gli Stati Uniti soffocarono la resistenza nelle Filippine.
Ma passiamo al XX secolo. I metodi tradizionalmente usati a danno dei popoli colonizzati si rivelarono utili anche nel corso della lotta per l’egemonia tra le grandi potenze capitaliste. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Gran Bretagna sottopose la Germania a un mortale blocco navale, il cui significato Churchill spiegò come segue: «Il blocco britannico tratta l’intera Germania come una fortezza assediata e cerca esplicitamente di far morire di fame la popolazione, costringendola così alla capitolazione: uomini, donne e bambini, vecchi e giovani, feriti e sani». Il blocco continuò a essere imposto anche dopo la fine dell’armistizio, per mesi, e fu ancora Churchill a spiegare la necessità, nonostante il silenzio delle armi, del continuo ricorso a questa «arma della fame, che ricade principalmente sulle donne e sui bambini, sui vecchi, sui deboli e sui poveri». Nel corso del Novecento, poi, negli Stati Uniti (in particolare nel sud) il regime di discriminazione, umiliazione, oppressione razziale ed emarginazione sociale continuava a funzionare. Stupri, linciaggi, esecuzioni legali ed extralegali non erano cessati e la violenza della polizia imperversava (nel 1963 Martin Luther King parlerà ancora degli “orrori indicibili della brutalità della polizia”).
Giungendo a cavallo del secolo, nel giugno 1996, un articolo-intervista del direttore del Centro per i diritti economici e sociali sottolineava le terribili conseguenze della “punizione collettiva” inflitta dal regime di sanzioni al popolo iracheno nella prima guerra del Golfo: già «più di 500.000 bambini iracheni» erano morti di fame e malattie. Per quanto riguarda la seconda guerra del Golfo, sono quasi 500.000 i civili iracheni rimasti uccisi dall’invasione americana, dal 2003 al 2011, secondo quanto emerge da uno studio pubblicato negli Stati Uniti e realizzato da ricercatori di università di Stati Uniti, Canada e Baghdad, in collaborazione con il ministero della Sanità iracheno. Peraltro, secondo alcune ricerche, le sole guerre imperialiste degli Stati Uniti hanno causato fino a 30 milioni di morti dal 1945 ad oggi.
Chiudiamo questa triste disamina mettendo in evidenza un paradosso: non solo i regimi del socialismo reale non possono essere accusati dei “crimini” per i quali sono spesso additati, ma è proprio la loro caduta ad aver provocato un’emergenza umanitaria, nell’area dell’ex Patto di Varsavia, come non si vedeva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Secondo uno studio condotto dall’Università di Oxford e pubblicato da una delle più autorevoli riviste mediche internazionali, “The Lancet”, è stato dimostrato che a causa delle politiche di privatizzazione di massa condotte nei Paesi dell’Est europeo dopo il crollo del comunismo, tra gli anni dal 1991 al 1994 morirono circa un milione di persone. La tremenda cifra, può essere direttamente associata a un preciso atto politico: è la trasposizione di quel 12,8 % di aumento della mortalità che lo studio su Lancet ci mostra essere direttamente legato, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, all’aumento della disoccupazione dovuta all’applicazione ortodossa delle politiche di liberalizzazione. Gli studiosi sono arrivati a tale cifra attraverso elaborati calcoli matematici basati sui dati demografici dell’UNICEF dal 1989 al 2002. In riferimento allo stesso periodo l’agenzia ONU per lo sviluppo, l’UNDP, nel 1999, arrivò a calcolare una cifra ben più gravosa: 10 milioni di persone scomparse, mentre la stessa UNICEF parlò di 3 milioni di vittime. Un altro studio stima addirittura che tra il 1989 e il 2014 il passaggio dal socialismo reale al capitalismo ha causato circa 18 milioni di morti aggiuntive nei paesi dell’Est – di cui 12 milioni in Russia -, in prevalenza uomini tra i 15 e i 59 anni. Un enorme aumento di mortalità legato soprattutto a disoccupazione, precarietà, disuguaglianze.
10. Conclusioni
Il documento della risoluzione del Parlamento Europeo di gennaio 2025, al fine di delegittimare, tra le altre cose, la sola esperienza storica che mise realmente in difficoltà la supremazia del modello capitalista, usa degli argomenti che sono una completa mistificazione di avvenimenti passati. Innanzitutto, vi è il sottinteso parallelo tra l’Unione Sovietica, stato federale con un sistema economico collettivizzato che possedeva un’egemonia politica all’interno dell’area socialista basata anche su un approccio commerciale solidarista, e la Russia capitalista di oggi, la quale partecipa alla spartizione e allo sfruttamento delle risorse e della forza lavoro del mondo a beneficio della sua classe imprenditoriale e utilizzando, a seconda dell’opportunità e delle esigenze, la forza politica o militare. Legato a questo c’è, quindi, la totale proiezione delle attuali pratiche imperialiste e repressive della Russia sulle politiche che l’URSS metteva in atto durante la costruzione del socialismo, una strategia favorita dalla narrazione storica distorta che, fin dall’inizio di quell’esperienza, ha mirato a delegittimare la costruzione di un sistema alternativo al capitalismo. Soprattutto dall’apertura degli archivi sovietici e dalla pubblicazione di ricerche non legate al clima di demonizzazione della Guerra Fredda, molte delle quali sono state citate in questo articolo, abbiamo gli strumenti per abbattere quella catena di pregiudizi circa una delle esperienze più importanti della storia recente, il primo tentativo di costruzione di un sistema socialista su larga scala, che ha avuto un impatto non quantificabile sulle lotte per l’emancipazione degli esseri umani anche al di fuori di quel perimetro geografico. Analizzare e valutare sotto questa nuova prospettiva gli anni cruciali della storia sovietica, soprattutto quelli sotto la presidenza di Stalin, è fondamentale anche perché l’attacco odierno al comunismo e ai comunisti e ai tentativi di dimostrare che una società non fondata sul profitto possa essere realizzata si basa quasi sempre, in primo luogo, sul falsificare o celare – con degli strumenti, abbiamo visto antiscientifici – i risultati raggiunti durante quel periodo storico.
Roger Sawadogo e Domenico Cortese