Dal Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna (PCTE)
16 aprile 2025
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Dichiarazione dell’Ufficio Politico del PCTE in occasione del Primo Maggio
La guerra commerciale tra le potenze
La guerra dei dazi scatenata dal governo statunitense ha scosso il mercato capitalistico globale. Il caos finanziario, il trambusto diplomatico, il rapido inquadramento dei vari attori sociali attorno all’“interesse nazionale” e la corrispondente messa in moto della macchina della propaganda dimostrano che il capitalismo internazionale è entrato in una nuova fase che comporta enormi rischi per la vita dei lavoratori di tutto il mondo.
Se c’è qualcosa che caratterizza la nostra epoca è l’altissimo livello di internazionalizzazione del capitale, ovvero l’intreccio economico tra diversi paesi attraverso i tentacoli dell’interdipendenza economica ineguale. Ciò significa che, sebbene i titoli dei media tradizionali siano essenzialmente le dichiarazioni e i trucchi politici dei leader del manipolo di potenze al vertice della catena, la volatilità in cui è entrato il capitalismo internazionale minaccia inevitabilmente la classe operaia e i popoli del mondo. Le scintille possono divampare ovunque e ognuna di esse può trasformarsi in un incendio generalizzato.
Il capitalismo è, inoltre, un sistema condannato a subire inevitabili crisi cicliche, come sappiamo bene noi lavoratori e lavoratrici, che ne paghiamo le conseguenze con le nostre condizioni di vita e di lavoro. È proprio l’accumulo delle crisi degli ultimi decenni che ha provocato questo apparente riordino in cui, sempre alla ricerca del massimo vantaggio per i capitalisti stessi, si rompono vecchie alleanze ed emergono nuove intese.
Nel caso specifico della potenza che ha determinato questo nuovo scenario, gli Stati Uniti, le tendenze protezionistiche del primo mandato di Trump, lungi dall’essere paralizzate o rallentate, si sono consolidate durante l’amministrazione Biden. La prima potenza mondiale ha visto negli ultimi anni perdere terreno in alcune aree di influenza e settori economici a favore di alcuni dei suoi concorrenti, in particolare del suo più diretto concorrente: la Cina.
La guerra commerciale a cui stiamo assistendo non risponde ai profili psicologici di particolari personaggi, né rappresenta un punto di svolta nelle tendenze che stavano già maturando nelle relazioni internazionali; tuttavia, anche l’istrionismo e la belligeranza con cui Donald Trump ha inaugurato il suo secondo mandato non è una mera teatralità, ma è il riflesso di un’intensificazione e di un inasprimento delle contraddizioni capitalistiche. Che la forma risponda al contenuto è evidente nella foto lasciata dal suo insediamento con tutti i magnati miliardari dei grandi monopoli tecnologici a fianco del nuovo presidente.
Il vero significato del trumpismo, in relazione a una tendenza reazionaria internazionale, non è altro che la necessità dei monopoli della prima potenza mondiale di liberarsi da alcuni ostacoli e di trovare, attraverso mezzi politici, alcune agevolazioni per massimizzare i propri profitti. In questo contesto, lo sviluppo scientifico e tecnico apre nuove e intense lotte tra Paesi e monopoli, poiché genera nuovi bisogni, nuove materie prime e nuovi mercati per cui competere.
La vecchia Europa: più cannoni e meno burro
Una delle caratteristiche della fase imperialista del capitalismo è che l’internazionalizzazione dell’economia porta la competizione tra le grandi imprese a livello globale. La necessità intrinseca del capitalismo di ricercare costantemente un aumento dei profitti porta a lotte ricorrenti per il controllo dei mercati, delle risorse naturali e delle vie di trasporto dell’energia e delle materie prime. Di fronte a un mondo già diviso, nuove divisioni possono essere fatte solo sulla base della forza di ciascun soggetto. Quando la situazione economica richiede con urgenza nuove fonti e tassi di profitto più elevati, i conflitti scoppiano inevitabilmente.
La guerra commerciale è solo un’altra forma di lotta inter-imperialista (lotta tra potenze), ma è una forma che storicamente prelude al conflitto con mezzi militari. Non sorprende, quindi, che l’Unione Europea stia ora optando definitivamente e apertamente per la strada del riarmo. Tutti si preparano alla guerra.
Anche in questo caso, non si tratta di una reazione impulsiva alla guerra dei dazi. Già a settembre, il Rapporto Draghi aveva avvertito con chiarezza cristallina quali dovessero essere le parole d’ordine se l’Unione Europea non voleva subire una “lenta agonia” a causa del declino competitivo nei confronti di Stati Uniti e Cina: rafforzare il mercato unico, aumentare la produttività e promuovere la reindustrializzazione. La prospettiva della crescita della produttività e della reindustrializzazione, che nelle strategie dell’UE comprendeva già i piani di digitalizzazione, l’aumento della flessibilità del lavoro e la transizione “verde”, è fondamentalmente mantenuta, anche se ora, di fronte alla rottura dell’alleanza euro-atlantica, l’ordine delle priorità, cioè la destinazione prioritaria delle risorse e degli investimenti, è leggermente cambiato.
Il piano ReArm Europe è un ambizioso pacchetto di misure volte a fornire agli Stati membri dell’UE risorse finanziarie per aumentare le loro capacità di difesa. Nelle parole di Ursula von der Leyen: “L’era dei dividendi della pace è finita”. L’Europa sta così tornando sulla strada delle armi, una strada che ha lasciato una lunga scia storica di sangue. Nessuno può dubitare che i milioni di euro per finanziare il riarmo riporteranno anche l’ombra nera dell’austerità, cioè la giustificazione del peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia e dei settori popolari a favore del business della guerra. L’enorme sforzo propagandistico delle ultime settimane per cercare di convincere la popolazione che l’aumento delle spese militari non avrà alcuna implicazione sui salari indiretti (pensioni, istruzione, sanità, ecc.) è un sintomo del fatto che la sfida principale del capitale è quella di piegare l’opinione pubblica a favore della guerra.
La Santa Alleanza intorno al capitale
Il governo socialdemocratico spagnolo ha dato prova del suo incrollabile e incondizionato sostegno ai piani di guerra dell’UE, annunciando in parlamento un “grande piano nazionale” per la tecnologia, la sicurezza e la difesa. Il governo, che ha aumentato le spese militari di oltre 10 miliardi negli ultimi cinque anni, punta ora al 2%, il tutto senza approvare nuovi bilanci e sulla base di accordi nella riservatezza e nell’oscurità del Consiglio dei Ministri.
Né ha tardato ad annunciare milioni di euro di finanziamenti pubblici per i monopoli spagnoli colpiti dalla politica tariffaria statunitense. Ancora una volta, un trasferimento massiccio di denaro pubblico, denaro che proviene principalmente dalla classe operaia, che va direttamente in mani private. Così come l’attivazione del meccanismo RED, un meccanismo contemplato nella riforma del lavoro del 2021 che consente alle aziende di sospendere o ridurre l’orario di lavoro dei propri dipendenti, ricevendo un’esenzione fino al 60% dei contributi sociali. Con l’apparente slogan “difendere l’occupazione”, il governo si impegna a finanziare direttamente una maggiore flessibilità della forza lavoro con risorse pubbliche in base alle esigenze dei datori di lavoro.
In alcune dichiarazioni alla stampa, lo stesso Sánchez ha parlato della necessaria “unità nazionale” per affrontare la crisi e difendere gli interessi della Spagna e dell’Europa. Questa sacrosanta unità nazionale non è altro che la richiesta di disciplinare dietro gli interessi del capitale spagnolo e dei suoi principali alleati nel processo di riarmo bellico, finanziamento e facilitazione dello sfruttamento. Non c’è dubbio che i principali partiti politici, che rappresentano diversi settori della borghesia spagnola, stanno e staranno unendo le mani, anche se a volte solo sottobanco, in questa strategia. Le pressioni e i negoziati rispondono per lo più solo agli interessi dei partiti nella lotta elettorale o nell’approccio gestionale, ma non a una sostanziale differenza programmatica. Il PP e il PSOE, essendo i due partiti politici con una reale possibilità di assumere il controllo dello Stato, sono la massima espressione del consenso capitalistico intorno all’offensiva che è stata lanciata.
Questo scenario crudo per la classe operaia e i settori popolari potrebbe far pensare che abbia generato una forte opposizione da parte di coloro che pretendono di essere i loro rappresentanti, dal Sumar alle principali centrali sindacali, CCOO e UGT. Al contrario, le dirigenze sindacali hanno risposto prontamente all’appello all’unità del presidente Sánchez, celebrando la flessibilità del lavoro e il trasferimento di milioni di euro ai padroni colpiti. Soddisfatti dello sforzo retorico del governo, che al posto del riarmo preferisce parlare di “sicurezza”, non sembrano aver bisogno di molto altro per mettere il loro ascendente sulla classe operaia a disposizione delle politiche di guerra e di austerità, per garantire allo Stato, solo a costo di avere un comodo e ricorrente posto ai tavoli delle trattative e del dialogo, la conservazione della pace sociale interna per sviluppare con maggiore tranquillità la guerra esterna.
Da parte sua, il Sumar, nella sua completa subordinazione al “grande fratello”, sta perdendo ogni accenno di “profilo proprio”, diventando una mera spalla la cui funzione si limita a servire su un piatto d’argento aria fritta alle politiche del governo. Ogni accenno di rottura con il PSOE, ogni possibilità di separarsi dal PSOE, è scomparso dall’orizzonte politico della socialdemocrazia a sinistra del PSOE. Per quanto siano già evidenti le politiche reazionarie del governo, sono rintanati nei loro cinque ministeri, in attesa di future elezioni per emettere una sentenza sul loro progetto politico.
Anche Podemos, che sta emergendo in questo contesto godendo della sua “libertà di movimento”, vive in questa attesa. Il finto radicalismo del partito viola mira a far dimenticare all’opinione pubblica che, quando erano al governo, svolgevano lo stesso ruolo remissivo di Sumar oggi; che quando si sono candidati insieme come Unidas Podemos hanno partecipato alla dinamica del “sottobanco” che consiste nell’opporsi pubblicamente all’aumento delle spese militari, ma nel compromettersi privatamente attraverso successive modifiche di bilancio che hanno già raggiunto cifre record.
La tendenza alla reazione in tutte le direzioni
Mentre in Ucraina continua il massacro, il cui futuro è soggetto alle mosse diplomatiche delle varie potenze e blocchi, mentre Gaza è diventata un immenso campo di sterminio, la cui ricostruzione piace ai monopoli dei vari Paesi, tutti gli attori sembrano prendere posizione mentre si accumula il materiale esplosivo. Il paragone con la Prima Guerra Mondiale diventa una profezia la cui realizzazione è inscritta nelle leggi intrinseche del capitale.
L’acuirsi delle contraddizioni inter-imperialiste, il crescente conflitto tra le potenze capitalistiche, sarà pagato dai lavoratori e dalle lavoratrici di tutto il mondo con le nostre tasche, il nostro lavoro e le nostre vite. Nelle loro guerre predatorie non saremo altro che carne da cannone, semplici tributi di morte scambiati, secondo le regole del commercio in epoca imperialista, con tributi di profitto nei loro conti bancari.
Di fronte alla crescente competizione capitalistica a livello internazionale, si assiste anche a una crescente tendenza dei vari Stati a rafforzarsi, richiedendo non solo armamento a oltranza, ma anche coesione nazionale per potersi lanciare in condizioni migliori contro i propri concorrenti. A livello nazionale, ciò implica un aumento dei meccanismi di sorveglianza e repressione, una crescente copertura repressiva della pace sociale, di cui siamo già testimoni nel nostro Paese, e un aumento del nazionalismo.
Tutto questo clima è, inoltre, il terreno ideale per la crescita di forze ultra-reazionarie e fasciste che iniziano ad articolarsi a livello internazionale. Il feticismo dello Stato, il nazionalismo economico, lo sciovinismo più recalcitrante, l’inasprimento repressivo e anticomunista sono alcuni degli elementi ideologici che collegano gli interessi di un settore del capitale, dei “perdenti della globalizzazione”, con la radicalizzazione di alcune classi medie a livello sociale. Il programma dei “pesi massimi” della borghesia di fronte a un momento di crisi prende così forma.
Rovesciare le armi: costruire l’opposizione operaia
È in questo contesto che celebriamo un altro Primo Maggio, un’altra Giornata Internazionale della Classe Operaia. È il momento ideale per fare i conti, valutare lo stato attuale della lotta di classe e rinforzare i nostri ranghi. La verità è che la correlazione di forze è attualmente enormemente negativa per la classe operaia, sia a livello nazionale che internazionale, ma lungi dall’essere scoraggiata, il Primo Maggio dovrebbe essere una data per essere coinvolti, per sporcarsi, per schierarsi, per cambiare la situazione.
Se i capitalisti hanno trasformato in slogan il riarmo, e della flessibilità del lavoro e dell’austerità una bandiera, il movimento operaio deve rispondere con la stessa chiarezza quando si tratta di definire un proprio programma indipendente, articolato su tre assi fondamentali: contro la guerra imperialista, contro il carovita e la flessibilità del lavoro e per l’unità dell’intera classe operaia contro il capitalismo e la reazione.
È attorno a questi tre assi che si può e si deve articolare un’opposizione operaia all’offensiva capitalistica, ricomponendo politicamente e ideologicamente le nostre forze, a partire dall’organizzazione nei luoghi di lavoro e continuando a coordinarla con l’organizzazione nei quartieri, nelle città e nei centri di studio.
Un’opposizione operaia che abbia chiaro che solo le nostre forze organizzate possono cambiare radicalmente la situazione, può far saltare la normalità capitalistica che ci sta portando direttamente alle porte di nuovi e più grandi conflitti bellici.
Un’opposizione operaia che torni a innalzare la bandiera dell’internazionalismo proletario: che risponda alla macchina propagandistica sciovinista sostenendo invece che non esiste una comunità di interessi nella nazione, che l’unica comunità di interessi è quella del proletariato mondiale.
Un’opposizione operaia che sia in grado di dimostrare con i fatti la sua forza crescente, che rompa radicalmente con le pratiche e i discorsi della concertazione e della pace sociale e che sia in grado di rispondere con la militanza, con le vittorie concrete , ai loro piani di guerra e di sfruttamento.
Un’opposizione operaia altamente organizzata, capace di sviluppare la sua lotta in qualsiasi condizione, di rispondere con disciplina e determinazione alla crescente repressione e alla recrudescenza reazionaria.
Un’opposizione operaia che “rovesci le armi”, che riprenda le parole di Karl Liebknecht, che ebbe il coraggio di opporsi ai crediti di guerra e di dichiarare: “Il nemico principale è in casa!” Infatti il principale nemico della classe operaia in ogni paese è la sua stessa borghesia.
C’è molto lavoro da fare per costruire questa opposizione operaia, ma ogni presa di posizione è un braccio che si intreccia, un piccolo ma decisivo avanzamento, e così, passo dopo passo, spalla a spalla e classe contro classe, la bandiera rossa del comunismo tornerà a sventolare come simbolo di speranza e rivoluzione, come unica risposta possibile alla barbarie dell’imperialismo.