Sanità Lazio. Non siamo “eroi”: paghiamo il prezzo di tagli e privatizzazioni
Al termine della Conferenza Stato-Regioni dello scorso gennaio a Roma, il governatore della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha dichiarato l’uscita dal commissariamento per la sanità regionale. Ma a quale prezzo?
Durante gli anni in cui ha ricoperto incarichi locali, Zingaretti si è reso fautore di una scellerata politica di tagli alla sanità. In nome della cosiddetta “razionalizzazione” delle spese, la giunta Zingaretti ha effettuato tagli di strutture, personale, posti letto, reparti, primariati e distretti sanitari, nonché alle spese relative a beni e servizi sanitari. Negli ultimi 8 anni (di cui va però ricordato che i primi 3 afferiscono alla presidenza di Renata Polverini) la Regione Lazio ha perso 16 ospedali (tra i più grandi il Policlinico Casilino, privatizzato proprio dalla giunta di centrosinistra), 3600 posti letto e il 14% del personale. Buona parte di questi tagli sono stati effettuati applicando pedissequamente le indicazioni della spending review dei governi succedutisi negli anni, dimostrando una netta continuità politica tra le forze di centrodestra e centrosinistra.
Alla luce di tutte queste considerazioni abbiamo intervistato una giovane infermiera di Roma, che presta servizio presso un’azienda ospedaliera della capitale, per capire come viene affrontata l’emergenza Coronavirus in un contesto di forte ridimensionamento della sanità pubblica che stiamo vivendo da diversi anni a questa parte.
Vorremmo chiederti innanzitutto se, in un contesto di continuo ridimensionamento della sanità pubblica, esistono ancora le condizioni per garantire la giusta assistenza a chi necessita di cure?
Per rispondere alla tua domanda, è necessario premettere una distinzione da operarsi prendendo in considerazione le singole regioni. Ricordiamo infatti che il Sistema Sanitario Nazionale in realtà è basato su un modello decentrato che lo suddivide e spezzetta in Sistemi Sanitari Regionali sul territorio italiano, ognuno con pieni poteri e autonomia organizzativa e gestionale.
Le regioni del Nord, le più colpite dalla pandemia di Covid-19, sono quelle che esprimono i “migliori” Sistemi Sanitari Regionali, con un budget positivo e notevoli fondi destinati alle risorse umane e materiali. Nonostante queste regioni siano partite in “vantaggio” rispetto alla solidità dei servizi, in questo momento di forte crisi stanno soffrendo pesantemente la carenza di materiali e personale indispensabile a fronteggiare l’epidemia; in questa fase i colleghi che prestano servizio in queste regioni faticano estremamente a garantire la giusta assistenza ai pazienti. Le regioni del centro sud, che da anni si confrontano quotidianamente con tagli e commissariamenti sono fortunatamente state meno colpite dal coronavirus e per il momento sussistono ancora le condizioni per garantire la giusta assistenza all’utenza.
Il paradosso è che questa emergenza nazionale ha portato improvvisamente ad accendere i riflettori mediatici, dell’opinione pubblica e del governo, sul comparto sanità, mettendo in luce tutte le mancanze determinate dai tagli alla sanità pubblica e dagli investimenti sulla sanità privata operati dai vari governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Solo attraverso una tragedia di dimensioni epocali sono arrivati fondi, assunzioni e presidi. Ma c’è da sottolineare che purtroppo, a proposito di assunzioni, queste si stanno effettuando solo attraverso il ricorso a formule contrattuali precarie come quelle dei contratti di collaborazione occasionale o attraverso agenzie interinali o con appalto a cooperative.
Tu che vivi quotidianamente l’esperienza ospedaliera puoi illustrarci la situazione presso l’ospedale in cui svolgi la tua attività di infermiera?
La situazione dell’Azienda Ospedaliera in cui lavoro è stata completamente modificata. Siamo stati trasformati in un hub della rete Covid e due delle nostre cinque rianimazioni sono state adibite al trattamento di questi pazienti. A questo si va a sommare la trasformazione di un intero padiglione per la cura dei casi clinicamente più stabili, che non necessitano quindi di trattamenti intensivi.
Il personale già in servizio è stato integrato attraverso l’assunzione di 100 nuovi colleghi con appalto ad una cooperativa e contratto di tipo interinale con scadenza a tre mesi, senza alcun tipo di garanzia sulla proroga; i colleghi neoassunti sono spesso giovani e privi della formazione specialistica necessaria a lavorare nei settori intensivi e infettivologici a cui sono stati assegnati. L’unico sostegno è la presenza di colleghi esperti e con elevata anzianità di servizio che possono indirettamente formarli, supplendo a corsi di formazione che dovrebbero essere organizzati e gestiti dall’azienda.
Vengono garantiti agli operatori sanitari tutti i mezzi per lavorare in sicurezza?
I dispositivi di protezione individuale, ovvero camici, mascherine di vario genere, visiere e occhiali, ormai divenuti tristemente famosi, sono merce rara, scarseggiano in tutta l’azienda, in tutta la regione e in tutta Italia, vengono centellinate dai coordinatori e ci viene richiesta la firma per il ritiro e l’utilizzo su paziente infetto o sospetto tale.
Il risultato pratico di tutto questo è che moltissimi colleghi si stanno via via contagiando: ad oggi in Italia siamo a quota 10.000 sanitari contagiati e le direttive aziendali, ma ancor più nazionali, sono di eseguire il tampone solo su persone sintomatiche, anche in caso di contatto accertato.
Sento di poter parlare a nome di tutti i colleghi d’Italia se dico che abbiamo paura e che non ci sentiamo sufficientemente tutelati sul nostro luogo di lavoro. Ogni giorno lavoriamo insieme 8, 10, 13 ore consecutive e viviamo nella costante paura del contagio e ancor più con il senso di colpa legato al terrore di infettare i nostri cari con cui conviviamo.
Il clima lavorativo è estremamente teso, siamo uniti ma estremamente spaventati, siamo stanchi, le ferie e i congedi sono stati sospesi, sappiamo benissimo di non essere tutelati abbastanza, sia in termini di assenza di tamponi di screening a tappeto, sia in termini di carenza di DPI, sia in considerazione del fatto che non abbiamo soluzioni alternative al dover tornare a casa con la possibilità, appunto, di infettare le persone con cui viviamo.
Ci sentiamo presi in giro dal mondo politico e sociale che, fino a ieri, ci minacciava in pronto soccorso, ci muoveva contro denunce ed oggi invece ci chiama “eroi”.
Ci tengo a sottolinearlo perché urge abbattere la concezione secondo cui i professionisti sanitari scelgono una “missione”, non siamo missionari o ancora meno “eroi”, la nostra scelta non è mossa da una spinta religiosa: è mossa dalla passione, profonda, per l’essere umano, siamo professionisti e come tali dovremmo essere tutelati, al pari di qualsiasi altro lavoratore, in quello che è un luogo di cura per tutti e, per noi, un luogo di lavoro.
Fino a quando ritieni che la struttura in cui operi, così come le altre strutture ospedaliere romane possano sostenere questa criticità?
Credo innanzitutto che se le strutture sanitarie della Regione Lazio, depauperate di risorse umane e materiali dai tagli operati negli ultimi anni di commissariamento, si fossero trovate a dover rispondere a un livello di emergenza simile a quello avvenuto in Lombardia, Veneto e Piemonte, non avrebbero retto neanche una settimana. Fortunatamente questo, finora non è avvenuto. Se la situazione dovesse rimanere tale, con tutti i posti letto aperti all’improvviso per rispondere all’emergenza, credo che potremmo sostenere ancora qualche mese questa criticità.
A parer mio il problema veramente grande sarà la “coda” di quest’emergenza, legata al contagio dei sanitari, inevitabile se consideriamo la scarsità di DPI, che ci vedrà presto “passare dall’altro lato della barricata”.
In un contesto in cui i tagli alla sanità hanno colpito anche il numero del personale sanitario sapresti darci una panoramica sul mondo contrattuale tuo e dei tuoi colleghi?
A livello contrattuale siamo spezzati a metà: chi già lavorava prima dell’emergenza è vincitore di concorso pubblico, a tempo determinato o indeterminato ed ha un contratto diretto con l’azienda; i colleghi assunti per l’emergenza Covid-19, invece, sono stati assunti come detto in precedenza, con contratto a tre mesi tramite appalto a cooperativa, senza alcun tipo di tutela di malattia, maternità, ecc.
In base alla tua esperienza quotidiana in reparto, quali pensi debbano essere i provvedimenti più urgenti in materia di sanità, non solo nell’ottica di breve periodo dell’emergenza, ma più in generale per riqualificare la sanità pubblica? Qual è l’esigenza più sentita dai lavoratori della sanità?
L’esigenza comune a tutti i professionisti sanitari è che si torni veramente ad investire sulla sanità pubblica, tagliando i fondi alla sanità privata, in termini di aumento delle risorse umane e materiali disponibili, dalle assunzioni dirette di personale, all’acquisto di macchinari tecnologici utili a dimezzare le liste d’attesa per procedure diagnostiche e terapeutiche, passando per un corretto approvvigionamento dei presidi (per fare un esempio: siamo stati settimane senza avere camici, anestetici e deflussori perché era bloccata o rallentata la gara d’appalto regionale).
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Per riqualificare la sanità è inoltre necessaria la più assoluta trasparenza delle scelte di appalto che devono muoversi su criteri etici oltre che economici e l’impegno a rinforzare e rendere omogenee e capillari le reti dei percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali, in tutte le province della regione, fino alle periferie più estreme.
Investire e riqualificare oggi vuol dire essere pronti a sostenere le criticità, sempre maggiori che ci troveremo ad affrontare domani.