Smart working: sfruttamento e riduzione dei diritti
In questo periodo emergenziale è sempre più comune ormai l’utilizzo della pratica dello “smart working”, e lo stesso governo ipotizzando una prossima riapertura (la famosa fase 2) incentiva e incentiverà sempre di più questa pratica. Tolto il settore centrale della produzione, in cui evidentemente non trova applicazione, tutti quei processi che possono essere controllati da remoto diventano potenzialmente trasformabili: dai servizi pubblici sul territorio alla contabilità aziendale, dall’analisi e controllo ai settori più strettamente commerciali. E se è evidente che in alcuni casi si deve fare di necessità virtù non è purtroppo raro imbattersi in quel parossismo per il “nuovo”, l’affascinazione per la tecnologia risolutrice di ogni problema.
È il caso per esempio delle lezioni on-line, della cosiddetta didattica a distanza, con cui si stanno cimentando obtorto collo centinaia di migliaia di docenti di ogni ordine e grado. Senza entrare nel merito, come ha già fatto “l’Ordine Nuovo”, è evidente l’intento del Ministero nel portare avanti la retorica del “nuovo”, del “bello e moderno”. Il ribaltamento della realtà a cui purtroppo tanti lavoratori prestano il fianco, convinti che il loro lavoro sia una “missione” e che, proprio per questo, tutto sia accettabile per un bene superiore. Puntuali a tale proposito erano arrivate le parole di uno noto e stimato professore universitario, Alessandro Barbero su queste nuove modalità a distanza: “Com’è bella. Dato che ci siamo accorti che possiamo farla, allora dovremmo usarla sempre: no. Queste sono solo frottole e fanfaluche, l’insegnamento online è molto più scadente di quello in presenza: il contatto diretto è insostituibile. Nella cultura di oggi c’è la tendenza a infatuarci della tecnologia e della innovazione del giorno”.
Ci si trova così di colpo costretti dal pensiero comune, che in fondo altro non è che il pensiero della classe dominante, ad accettare ogni stortura, ogni sopruso e allo stesso tempo a sentirsi in colpa per denunciare la situazione che inizia però a essere sempre più definita e chiara agli occhi di chi è costretto al “lavoro agile”. Che non è certo, per usare un eufemismo, idilliaca.
Per iniziare può essere utile dare una dimensione e una definizione di legge di questo tipo di attività prevista dall’ordinamento italiano, perché già da questo passaggio è chiaro quali siano i rischi connessi che non sono certo marginali. Lo “smart working” è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante un accordo tra dipendente e datore di lavoro ed è disciplinato dalla legge 81 del 22 maggio 2017 che fa immediatamente chiarezza: lo scopo è incrementare la competitività e al contempo, aiutare il lavoratore a conciliare i tempi di vita e di lavoro.
Il concetto è abbastanza semplice e crudo: attraverso la competizione tra lavoratori, seppure a distanza, si deve aumentare la produttività. A tutto vantaggio del padrone naturalmente che riesce a spremere così in modo più efficace il lavoro del dipendente (a cui non spetterà alcun frutto della sua aumentata efficienza) e aumentare così i profitti: tagliando una parte importante del capitale fisso, dai costi di gestione ai costi di impianto, ma anche rispetto al capitale variabile su cui non peseranno più indennità di trasferta, di chilometraggio, per la mensa o per i buoni pasto.
Meno persone fisiche in azienda e meno consumi insomma: dalla corrente elettrica alla cancelleria, tutto è conveniente per abbassare i costi. In molti casi è addirittura il dipendente che si deve procurare l’attrezzatura per il lavoro da casa: al lavoratore smart occorre una connessione internet, un dispositivo elettronico per interfacciare con colleghi e responsabili – sia questo un telefono, un tablet, un computer portatile – e, fattore non certo scontato e per giunta costoso: una casa.
A fronte di un lavoro potenzialmente più efficiente, quasi tutti i vantaggi sono vantaggi del padrone: chi assicura, tra l’altro, che l’ambiente casalingo del lavoratore sia idoneo a svolgere l’attività? Chi è costretto a condividere spazi, anche ristretti, con altre persone (magari bambini) conosce benissimo le difficoltà di poter conciliare lavoro e ambiente familiare.
In una società in cui non si è ancora raggiunta una completa parità dei ruoli di genere nell’organizzazione della vita familiare, non è inusuale che la questione riguardi in modo particolare le donne lavoratrici, su cui il più delle volte ricadono con maggior peso le attività familiari di cura, in un momento in cui non sono garantiti i servizi scolastici di asili nido e scuole materne, servizi diurni per anziani e disabili.
Un altro passaggio fondamentale del testo di legge è quello infine in cui si menziona in modo esplicito l’orario di lavoro: «entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva». Con il passaggio alla modalità smart del processo lavorativo viene ridiscusso uno dei limiti fondamentali rispetto al grado di sfruttamento in ciascun rapporto di lavoro. Quando si fa riferimento all’assenza di vincoli orari o spaziali, il paradosso viene a palesarsi proprio rispetto al luogo e all’orario di lavoro, che da limiti entro cui rinchiudere il lavoratore per esercitare il dominio, diventano ora una forma di tutela nella misura in cui impediscono al capitalista di sfruttarlo al di fuori di quel ruolo e di quell’orario. Lo smart working si presenta, per sua stessa definizione, come una modalità smart di sfruttamento, promossa e incentivata per la sua funzione specifica di estendere il rapporto di dominio, potenzialmente, a qualunque momento della giornata e qualunque luogo del mondo a seconda delle necessità del capitalista.
Gli effetti sono tutti sul tavolo, già ora, e la tendenza verso cui le modalità di lavoro si stanno spostando è sempre più chiara. Sostituire i contratti di lavoro subordinato con collaborazioni esterne, titolari di partita IVA, più flessibili e meno costose. Non è un caso che negli ultimi anni siano state varate misure volte a incentivarne l’apertura, soprattutto per i regimi minimi che sono stati innalzati per esempio da un limite di 30.000€ a 65.000€, più del 200%!
Nel corso del 2019 sono state aperte infatti circa 545.700 nuove partite Iva (+6,4% rispetto all’anno precedente) di cui il 48,2% sono appunto in regime forfettario[1].
Il titolare di partita Iva resta però solo formalmente un libero professionista, se si considerano i vincoli che è tenuto a rispettare in termini di orari, consegne, scadenze – pena l’interruzione, molto agilmente raggiungibile, del rapporto di collaborazione. La ‘falsa partita Iva’, vale a dire il lavoratore che si interfaccia con il padrone eseguendo le disposizioni che riceve senza la possibilità di organizzare le sue mansioni a propria discrezione, come fosse un dipendente a tutti gli effetti, è diventata una figura che negli ultimi anni è venuta a costituire una specifica categoria di lavoratori senza tutele che di fatto può considerarsi come precorritrice delle forme di sfruttamento a cui assistiamo ora con lo “smart working”.
Lavoratori sempre più alienati, sfruttati e isolati, con un contatto umano minimo (con gli altri lavoratori) che non siano quelli delle esigenze familiari da far coincidere con il monitor illuminato che richiama all’ordine. Lavoratori che così perdono sempre più coscienza di essere classe fisica, reale e tangibile: quando a chi alzerà la voce per difendere i propri diritti e quelli di tutti basterà togliere l’audio, o la connessione internet, cosa succederà?
Prima che la realtà si trasformi in un prossimo futuro distopico bisogna allora agire, in primo luogo sulla nostra coscienza, sulla coscienza dei lavoratori. Non esiste un interesse comune nazionale, non esistono i discorsi del “siamo sulla stessa barca” e dei “dobbiamo accettare i sacrifici”.
Esiste la grande borghesia nazionale e internazionale (mentre la piccola borghesia sta scomparendo a fronte della potenza dei grandi monopoli in una crisi sempre più evidente) ed esiste la classe lavoratrice, l’enorme maggioranza della popolazione: ciascuna con i propri interessi, tra di loro inconciliabili.
La necessità di lucrare sulla salute delle persone da una parte, il diritto alla salute di tutti i cittadini, di cui l’attualità sta dando triste esempio, dall’altra; il diritto di negare dignità e diritti al lavoro per aumentare i profitti da una parte (leggiamo tutti i giorni le lamentele degli industriali piangere miseria sui loro bilanci milionari) e la necessità di sopravvivere e autorealizzarsi anche attraverso il frutto della propria fatica dall’altra. Per questo dobbiamo rigettare l’idea di “sacrificarci” sull’altare dell’unità nazionale e non arretrare di un passo sui nostri diritti, anche in situazioni d’emergenza. Non ci si può nuovamente riproporre di uscire da una crisi economica a spese dei lavoratori.
Perché l’unico lavoro che davvero sarà intelligente sarà quello svolto secondo le nostre capacità per garantire a tutti quello di cui hanno bisogno.
Non ci resta che conquistarcelo.
di Emiliano Cervi e Giordano Nardecchia
[1] https://www1.finanze.gov.it/finanze3/osiva/contenuti/Sintesi_annuale_dati_2019.pdf?d=1581521400