Competizione imperialista e problema ambientale
È noto che il modo di produzione capitalistico asservisce ogni cosa all’obiettivo della produzione di plusvalore, indipendentemente dal valore intrinseco che la cosa stessa possa rappresentare per le funzioni di riproduzione vitale che sono proprie della specie umana.
Un esempio illuminante di questo modo di agire può essere riscontrato agevolmente nella maniera in cui il capitalismo imperialista ha gestito e sta gestendo a livello internazionale il problema ambientale.
La gestione avviene ovviamente inserendo il problema all’interno della categoria illusoria delle “Scienze”.
“Le scienze più investite di una responsabilità ideologica nel senso che sono deputate dal sistema a fornire le giustificazioni necessarie a mantenere un sufficiente livello di credibilità verso il sistema stesso nel momento in cui questo livello accenna ad abbassarsi, sono quelle che presentano un più immediato impatto sociale, configurandosi come settori di punta della ricerca complessiva o come veicoli ideologici di grande efficacia”[1]
Queste parole, scritte all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso da uno scienziato marxista, possono servire adeguatamente ad introdurre l’argomento in discussione, che riguarda l’uso indiscriminato di alcuni ben specifici temi scientifici nella competizione tra potenze mature e nuove potenze economiche emergenti.
Il tema di cui vogliamo trattare riguarda l’apertura del cosiddetto “Buco dell’Ozono” (Ozone Layer Depletion); è un tema passato oramai di moda, ma che ha risvolti scientifici e -soprattutto- politici paradigmatici.
Attenzione: non stiamo affermando che questo sia un fenomeno inesistente: esiste, è stato accertato ed è di una certa gravità. Vogliamo solo dimostrare come nel tempo sia stato usato come una clava contro i concorrenti economici, in un’ottica di competizione interimperialista.
Il Buco dell’Ozono riguarda la diminuzione localizzata di questo gas (l’Ozono è Ossigeno con molecola triatomica) soprattutto nelle regioni della stratosfera (lo strato superiore dell’atmosfera). Il compito dell’Ozono è quello di filtrare le radiazioni solari con il più elevato contenuto energetico e impedire che raggiungano la superficie terrestre, esponendo tutti gli organismi viventi a danni cellulari e a un’accentuata mutagenesi.
“L’anno è il 2065. Quasi due terzi dello strato di ozono sono spariti, non solo sopra i poli, ma dovunque. Il famigerato Buco nell’Ozono sopra l’Antartide, scoperto negli anni ’80 è una realtà familiare, con un gemello sopra il Polo Nord. La radiazione ultravioletta che colpisce le città a latitudini mediane, come Washington, è sufficientemente forte da causare scottature in cinque minuti. Gli ultravioletti mutageni sono aumentati del 500% con probabili effetti dannosi su piante, animali e sull’insorgenza del cancro della pelle negli esseri umani.”[2]
Questo si scriveva negli anni ’90, anche se oggi sembra che questo (descritto come) tremendo evento desti meno interesse che qualsiasi pettegolezzo giornalistico.
Eppure questa scoperta non fu fatta negli anni ’90, ma il fenomeno fu per la prima volta descritto da Rowland e Molina nell’anno 1974[3]; essi avanzarono l’ipotesi che la causa del buco nello strato di Ozono fosse dovuta al rilascio nell’atmosfera di molecole appartenenti alla famiglia dei Clorofluorocarburi (CFC).
I CFC si trovano nei gas che sono utilizzati nell’industria della frigoristica (frigoriferi, condizionatori d’aria) e nei solventi che vengono utilizzati per il lavaggio delle piastre di circuito elettronico.
Il colosso chimico DuPont, all’epoca, manteneva la posizione dominante nel campo della produzione di Clorofluorocarburi (CFC).
La sua prima reazione fu di difesa: la rivista Chemical Weekly, nel numero di luglio 1975, pubblicò una dichiarazione del presidente del CdA della DuPont, che si esprimeva in questo modo riguardo alla scoperta della (ancora) presunta azione dei CFC sull’ozono atmosferico: “un racconto di fantascienza…un sacco di scemenze…una totale assurdità”.[4]
La potenza imperialista (USA) nel cui territorio si trovava la sede della DuPont, nonostante dall’ipotesi scientifica si fosse passati alla certezza scientifica dell’azione dei CFC sullo strato di ozono, sancita da uno studio dell’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense pubblicato nel 1976, si limitò a bandire l’uso di un composto alogenato (Freon) nelle bombolette di aerosol domestico; questo avvenne nel 1978, ma fu possibile solo per il fatto che il brevetto sul composto scadeva di lì a pochi mesi.[5]
In realtà l’uso dei CFC nella grande industria (elettromeccanica e -soprattutto- elettronica) non subì alcuna limitazione
Ricordiamo che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del secolo scorso l’industria elettronica statunitense compi l’ultimo “miracolo” di cui fu capace: lo sviluppo e la messa in commercio del personal computer come lo intendiamo ora (Apple II :1977; IBM PC: 1981).
Si aprivano enormi mercati, nel mondo, per i prodotti elettronici USA e l’uso del Clorofluorocarburi nella produzione delle schede elettroniche era indispensabile, nonostante ci fosse la certezza che gli stessi provocavano danni ambientali potenzialmente gravissimi.
Per il momento quindi il problema del bando dell’uso dei Clorofluorocarburi nell’industria elettronica fu abbandonato.
Quando si passò dal totale disinteresse all’argomento a far sì che il problema scientifico divenisse “veicolo ideologico di grande efficacia.” secondo la già citata definizione di Di Siena?
Questa fase partì nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, con la creazione di un movimento mondiale per la messa al bando dei CFC (Convenzione di Vienna per la protezione dello strato di Ozono – 1985); cosa avvenne in quel periodo?
Due potenze economiche di nuova formazione entrano nel campo dell’industria elettromeccanica e dell’elettronica: l’India e la Cina (compresi i Territori).
L’espansione dell’industria elettronica indiana nel ventennio tra il 1970 e il 1990 fu notevolissima: nel 1970 il fatturato dell’industria elettronica indiana ammontava a 1,8 miliardi di INR (Indian Rupees), nel 1980 saliva a 8,1 miliardi INR, con un aumento del 450% e a 123 miliardi di INR nel 1992, con una crescita tumultuosa che stava togliendo mercato ai concorrenti esteri che esportavano su quel mercato.
Per quanto riguarda la produzione dei personal computer: l’India ne produceva solo 7.500 unità nel 1982, 60.000 unità nel 1985 e più di 200.000 unità nel 1992, insieme a 5 milioni di televisori, 6 milioni di radio, 140.000 videoregistratori, 5 milioni di registratori a cassette e 5 milioni di orologi elettronici.[6]
Riguardo alla Cina e al Territorio di Hong Kong la crescita fu ancora più considerevole.
A partire dal 1980 il Giappone, approfittando della politica cinese di sviluppo dell’industria elettronica, trasferì in Cina una serie di tecnologie destinate alla produzione di consumo (produzione di circuiti stampati per elettronica, produzione di tubi catodici TV, di motori, di trasformatori, di circuiti integrati a transistor, ecc.) che sarebbero serviti a creare una subfornitura a basso costo per la produzione elettronica a marchio giapponese, avendo come principale interfaccia il Territorio di Hong Kong, allora non ancora incorporato nella Repubblica Popolare.
Il basso costo della manodopera cinese favorì gli investimenti di Hong Kong, per cui le esportazioni di semilavorati da PRC verso Hong Kong (che assemblava vendeva i prodotti finiti) crebbero da 5,7 miliardi di USD nel 1981 fino a 26,7 miliardi di USD nel 1991.[7]
La minaccia alle quote di mercato delle aziende dei tradizionali Paesi imperialisti era reale (soprattutto la minaccia per le quote di mercati in crescita, quali i PC e i videoregistratori), inoltre l’uso dei CFC in questa industria a rapido sviluppo era notevolissimo, per cui si decise di usare il tema ambientalista quale barriera di accesso per ridurre le capacità produttive dei Paesi in rapida crescita competitiva.
L’amministrazione Reagan, insediata nel 1981, in un primo tempo sostenne le ragioni dell’industria nell’uso indiscriminato dei CFC pur arrivando a sottoscrivere -in maniera assolutamente ipocrita- la già citata Convenzione di Vienna per la protezione dello strato di Ozono insieme ad altri 196 Stati sovrani. Una formalità puramente cosmetica, ovviamente, dal momento che la Convenzione era solo una dichiarazione di intenti, senza alcuna clausola sanzionatoria.
Quando il momento fu maturo, ovviamente, i governi dei principali Paesi occidentali prepararono una strategia di consenso intorno al blocco dell’uso dei CFC nell’industria e si arrivò alla firma del Protocollo di Montreal (1987) per la messa al bando effettiva dei Clorofluorocarburi.
È interessante conoscere peraltro le ragioni nascoste dietro questo repentino cambio di rotta, riporto quindi di seguito la dichiarazione di Mostafa Tolba, responsabile del Programma Ambientale delle Nazioni Unite, citata nel numero di giugno 1990 della rivista New Scientist:
“…l’industria chimica appoggiò il Protocollo di Montreal nel 1987 perché stabilì un programma di eliminazione progressiva dei CFC che non erano più protetti da brevetto. Ciò permise alle imprese un’opportunità per immettere sul mercato nuovi e più redditizi prodotti”[8]
Due piccioni con una fava: da un lato si rivestiva di verde (greenwashing) una politica aziendale predatoria e dall’altro si avanzava nella competizione interimperialista, mettendo i bastoni tra le ruote ai Paesi in crescita che non disponevano dei nuovi brevetti.
A conferma, ecco la dichiarazione a ruota dell’allora Direttore di divisione della DuPont “Quando vendi CFC per un valore di tre miliardi di USD nel mondo e il 70% di essi deve essere tolto dal commercio, è evidente che si crea un immenso potenziale di mercato”.[9]
Il quadro è chiaro, ma l’uso del tema -oramai ben collaudato- per la competizione interimperialista non passa mai di moda col passare degli anni.
Ancora nel 2006 un documento del Programma Ambientale delle Nazioni Unite, intitolato Illegal Trade in Ozone Depleting Substances (2006) comunicava che negli anni ’90 si contrabbandarono illegalmente nei Paesi in via di sviluppo tra le 7.000 e le 14.000 tonnellate di CFC all’anno e tre Paesi detenevano (al 2006) il record della produzione di CFC. Quali erano questi tre Paesi ? Cina, India e Corea del Sud (come volevasi dimostrare).
La mossa di mettere sul banco degli accusati di crimini contro l’ambiente i diretti competitori industriali era nuovamente utilizzata.
Arriviamo all’oggi: il buco nello strato di ozono si sta richiudendo[10], grazie anche alla politica adottata, ma il frame di colpevolizzazione sui temi ambientali ai fini della competizione tra i Paesi imperialisti o ai fini della lotta di classe non passa mai di moda; il tema del Climate Change insegna, ma questa è un’altra storia.
Di Paolo Caviglia
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[1] Giuseppe Di Siena “Biologia, darwinismo sociale e marxismo” – Quaderni di Critica Marxista – n° 6/1972
[2]https://www.earthobservatory.nasa.gov/features/WorldWithoutOzone
[3]Molina M.J. And F.S. Rowland “Stratospheric sink for chlorofluoromethanes: Chlorine atom catalyzed destruction of Ozone” Nature 249 ; 810-812 – 1974
[4]AA.VV. “DuPont: a case study in 3D corporate strategy” Greenpeace position paper , prepared for 9th meeting of the parties of the Montreal Protocol – 1997
[5]EI DuPont de Nemours “Process for fluorinating halohydro-carbons” US Patent n° 3258500A
[6]https://www.indianmirror.com/indian-industries/electronics.html
[7]http://www.wtec.org/loyola/em/03_04.htm
[8]AA.VV. “DuPont: a case study in 3D corporate strategy” Greenpeace position paper , prepared for 9th meeting of the parties of the Montreal Protocol – 1997
[9][ibidem]
[10]https://www.euronews.com/2020/04/24/largest-ever-hole-in-the-ozone-layer-above-arctic-finally-closes