Proposta di legge PD: lavorare meno con salari da fame
Il peso della crisi conseguente alla pandemia da Covid19, come prevedibile, si abbatte inesorabilmente sul mondo del lavoro: lo spettro della disoccupazione, già ampiamente temuto nel periodo pre-pandemico, si manifesta ora più reale che mai, con decine di migliaia di lavoratori che si troveranno senza occupazione alla mancata riapertura, o alla riapertura sotto-organico, di numerose aziende nei vari scaglioni della fase due, senza tralasciare il fatto che molte aziende hanno letteralmente approfittato della pandemia per mettere in atto la ristrutturazione aziendale che da tempo agognavano, tagliando massicciamente sul personale. Per non parlare della crisi di autunno che già si annuncia che potrebbe portare – un condizionale solo di cortesia – a nuovi sacrifici chiesti ai lavoratori.
Intanto, l’unica categoria che le forze politiche borghesi si stanno prodigando per tutelare nell’imminente crisi produttiva è quella degli imprenditori.
In questa direzione va la proposta di legge 2327 targata PD (a firma dei deputati Stefano Lepri, Maurizio Martina, Andrea Orlando, Debora Serracchiani, Chiara Gribaudo), una versione macerata in salsa aziendalista, ed evidentemente andata a male, del motto “lavorare meno, lavorare tutti”: riedizione che, ovviamente, sacrifica sull’altare degli interessi degli imprenditori la tutela dei diritti dei lavoratori. La proposta storica dei comunisti a riguardo è sempre stata quella della necessità di aumentare i posti di lavoro diminuendo le ore lavorate pro capite, ma a parità di salario! L’ultima parte della proposizione è fondamentale ed è proprio quella non presente del disegno di legge presentato dal Partito Democratico che potrebbe essere tradotto, invece, nel motto “lavorare meno, con salari da fame”!
La proposta di legge prevede contratti stabili meno costosi fino a 30 ore settimanali, incentivi al ricorso volontario al part time dalle venti alle trenta ore con uguale diminuzione del cuneo fiscale, ulteriore tassazione dello straordinario oltre una data soglia, part-time come prassi nel pubblico impiego. Insomma, una riduzione dell’orario di lavoro con corrispondente ridimensionamento salariale.
Cerchiamo di spiegare questa proposta: un’elevata disoccupazione è una condizione necessaria nelle fasi di crisi del capitalismo in cui le aziende devono riorganizzare la produzione, salvaguardare i profitti, limitare le perdite.
Un elevato tasso di disoccupazione è, inoltre, funzionale ad un abbassamento dei salari prodotto dall’acuirsi della competizione tra i lavoratori dovuta allo squilibrio tra domanda ed offerta di forza lavoro.
L’elevata disoccupazione però, oltre ad essere per lo Stato un potenziale “pericolo” sociale è anche un costo economico rappresentato dai – seppur residuali – contributi statali (dal reddito di cittadinanza, alla cassa integrazione). La proposta del Partito Democratico è, dunque, quella di abbattere questi costi riducendo la disoccupazione. Se ciò avvenisse a parità di salario però, il costo dell’operazione ricadrebbe sulla parte datoriale che vedrebbe costretta a pagare un ammontare complessivo maggiore di stipendi. Se invece la ridistribuzione di lavoro avviene insieme ad una corrispondente riduzione del salario si ottiene il risultato di scaricare il costo dell’operazione sui lavoratori e generalizzare ancor di più il precariato, salvaguardando al contempo Stato e imprese.
Ma tutto questo ce lo spiegano senza peli sulla lingua gli stessi deputati PD. “Si parla molto di riduzione di orario di lavoro a parità di salario”, ragiona Stefano Lepri. “Ma l’ipotesi non funziona, si perde competitività. Anche la Francia che aveva introdotto le 35 ore poi è tornata indietro. In attesa che il Pil riparta, non ci resta che fare fette più piccole della torta che abbiamo”, ha detto il deputato del Partito Democratico: intendendo, come pare evidente, la parte della torta che spetta ai lavoratori. Peccato che la fetta più grossa, quella appunto del padronato, rimanga intonsa, ed anzi si allarghi con la diminuzione del cuneo fiscale sul lavoro di ben due punti.
Attenzione, la misura non obbligherebbe la parte padronale a scegliere tra il contratto da trenta o da 38 ore (tetto massimo settimanale previsto dalla pdl, straordinari esclusi) ma permetterebbe loro di approfittare comunque degli sgravi sulle prima trenta ore del contratto.
Maurizio Martina riesce, con le sue dichiarazioni, a chiarire ulteriormente: “L’Italia ha un gap da colmare con la Germania: lavoriamo di più – 180 ore contro 160 al mese – ma con una produttività più bassa. Puntiamo allora a trasformare l’eccesso di straordinario in occupazione aggiuntiva”: sarebbe a dire che dal momento che un’ora lavorata in Italia rende nettamente meno, la soluzione va ricercata in un aumento della produttività e non del monte ore lavorato, ovvero, in termini marxisti, nell’aumento del plusvalore relativo anziché di quello assoluto.
Non esiste in quest’ottica nessuna proposta di redistribuzione del lavoro per tutti, che vada nell’ottica dell’avanzamento dei diritti dei lavoratori nella proposta del Partito Democratico che si riconferma esecutore delle volontà del padronato, sempre in cerca di strumenti legali atti a comprimere i diritti dei lavoratori, soprattutto in tempo di crisi.