Lettere dal fronte: riflessioni di un medico nell’Italia del coronavirus (1/2)
Questo articolo non si concentrerà solo su ciò che è successo durante la pandemia di SARS-Cov2, poiché la gran parte degli eventi che si sono verificati non sono altro che le conseguenze di un fenomeno che da anni ormai è sotto gli occhi di tutti, se si usa uno sguardo attento: lo smantellamento progressivo del sistema sanitario pubblico. La retorica che vuole dipingere l’emergenza COVID-19 come inaspettata, inaffrontabile e imprevedibile è in realtà il tentativo del sistema capitalistico di apporre una pezza sullo squarcio di verità che in queste settimane è emerso.
Sono un operatore della sanità, un medico ospedaliero, di quelli che ci si è affrettati a chiamare “eroi” nella prima ora dell’emergenza; sono nato, cresciuto e mi sono formato nel grande ed efficiente Nord Italia, famoso per la propria sanità, “una delle migliori del mondo” (la retorica, di nuovo…). In questi anni ho avuto quindi la possibilità di vedere dall’interno come funzionano davvero le cose, anche e soprattutto dal punto di vista della forma mentis che permea questo Sistema Sanitario in ogni suo aspetto, creando grandi contraddizioni, che per molti operatori come me sono spesso fonte di frustrazione e dolore.
Il primo punto del Giuramento di Ippocrate recita: “giuro di esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione”. In realtà la vita del medico di un paese occidentale del 21esimo secolo è un continuo barcamenarsi tra ogni tipo di condizionamento, la maggior parte di tipo economico.
Potete chiedere ad ogni amico, parente o conoscente che fa il mio stesso mestiere: le parole d’ordine ricorrenti ruotano tutte attorno alla parte economica o all’efficienza, teoricamente intesa come capacità del sistema di garantire al cittadino un servizio adeguato, ma declinata con parametri come “durata della degenza media” in un dato reparto, “numero di pazienti” seguiti da un ambulatorio che si occupa di una particolare patologia, “budget” (ovvero quanto un reparto costa al SSN), “peso della SDO nel DRG” (in pratica, quanti soldi vengono rimborsati dal Sistema Sanitario al reparto, per un paziente ricoverato, a seconda della diagnosi e delle indagini fatte durante il ricovero).
In pratica, non esistono differenze di ragionamento tra il Sistema Sanitario Nazionale e una normale azienda (non a caso il SSN è composto da “aziende” sanitarie locali).
Addirittura, una parte dello stipendio dei medici è legato al raggiungimento di “obiettivi aziendali”, come appunto l’ottenimento di una durata di degenza media inferiore a un certo numero di giorni, a parità di reparto. Per rispettare gli obiettivi di budget si ricorre inoltre a pratiche come assumere meno personale di quello che va in pensione (un grande classico è non sostituire un Primario, assegnando il reparto rimasto vacante ad un altro Primario in attività, che si trova in questo modo a gestire due reparti).
Soprattutto per quanto riguarda personale infermieristico e OSS, sono inoltre frequenti sostituzioni di contratti a tempo indeterminato che vanno in pensione con contratti a tempo determinato, più facilmente gestibili. Come risultato finale, si cerca di mantenere gli standard di cura uguali nel tempo, ma riducendo sempre di più il personale.
È facile pertanto comprendere per quale motivo nel corso degli anni il Sistema Sanitario è stato progressivamente eroso, in nome della “sostenibilità”, a tutto vantaggio della sanità privata. Questo è tanto più vero prendendo in considerazione che quest’ultima risulta sicuramente più attrattiva per i medici rispetto al pubblico.
Infatti facendo un rapido conto, un medico con uno stipendio di 3000 euro mensili che visita tramite il pubblico 10 pazienti al giorno, ovvero 200 pazienti al mese, percepisce in pratica circa 15 euro per paziente. Se effettuasse tali visite in regime di libera professione, come è chiaro a tutti, per ogni paziente avrebbe un ricavo (lordo) che può andare dai 70 a oltre 200 euro, a seconda del proprio tariffario. In più, anche i medici che esercitano nel pubblico possono in ogni caso arrotondare il proprio stipendio tramite libera professione intramoenia, versando una parte dei loro ricavi all’azienda sanitaria pubblica, di cui utilizzano le strutture.
Ovviamente questo fa comodo ai medici, ma anche e soprattutto al sistema “pubblico”, che può contare sul regime di libera professione (e quindi non “pubblico”) per ridurre le liste di attesa, a tutto discapito del cittadino che mettendo la salute tra le sue priorità è disposto a pagare da 3 a 5 volte la stessa visita con lo stesso medico che li avrebbe visitati nella stessa struttura, ma 3 o 4 mesi dopo. Lo stesso discorso si può fare per gli esami strumentali (ad esempio TAC, ecografie, risonanze magnetiche) per cui i tempi di attesa sono spesso estenuantemente lunghi se eseguiti nel pubblico, accettabili o addirittura fulminei se nelle cliniche private (dove però possono costare al paziente diverse centinaia di euro).
È corretto guadagnare denaro sfruttando lo stato di necessità sanitaria di una persona, costretta a sacrificare una percentuale spesso consistente del proprio salario per la propria salute? Eppure moltissimi miei colleghi, bravissime persone sinceramente devote alla propria professione, e con a cuore la salute delle persone, lo fanno. Perché?
Perché il nostro sistema, universitario prima e sanitario poi, essendo diretta emanazione del sistema capitalista che ha al centro il profitto e non la persona, non spinge a sviluppare alcun tipo di etica di classe.
Tradotto in parole povere, con un esempio, un medico non pensa di fare nulla di male nel chiedere 100 euro per una visita di 30 minuti ad un paziente che magari al mese ne guadagna 900 (e quindi 1/9 dello stipendio). E si badi bene che non sto assolutamente prendendo in considerazione la professionalità del medico né l’accuratezza della visita, perché questi aspetti esulano completamente dall’analisi che stiamo facendo, che è di tipo meramente economico. Il prezzo più alto di questa deriva in termini di impatto sul reddito viene pagato dalla classe dei lavoratori dipendenti, come segnala il rapporto del Censis del 2018; ecco quindi che l’iniquità del SSN mostra il proprio volto classista.
Insomma, qui non si sta puntando il dito sulle scelte professionali individuali ma si va ad analizzare un sistema economico che costruisce le premesse affinché le scelte di privatizzazione della sanità e l’ingresso del privato nelle strutture ospedaliere pubbliche divengano la via più conveniente per tutti tranne che per i pazienti. Non è certo nel biasimo individuale che si sviluppa la mia critica che è, invece, diretta nei confronti verso un sistema economico basato sul profitto che fa da premessa ad una gestione politica della sanità più interessata alla razionalizzazione della spesa pubblica che alla salute della popolazione.
Un altro grande punto dolente della nostra Sanità, in progressivo e rapido peggioramento, è rappresentato dalla sempre maggior difficoltà delle famiglie di farsi carico di familiari anziani, per cui gli aiuti da parte dello Stato sono minimi, e i costi delle strutture residenziali sono astronomici. Le famiglie sono quindi costrette a spendere una gran parte del proprio salario per mantenere i genitori e/o nonni anziani in RSA, oppure affidandosi al lavoro delle badanti. Quest’ultima categoria sta permettendo all’intero sistema di reggersi in piedi tramite un triste schema: si lavora fino ad età avanzata per tante ore al giorno, per cui si è poco a casa, e si impiega una parte del proprio salario, spesso scarso, come salario ancora più scarso ad una persona che ha lasciato il proprio paese per andare ad accudire i genitori di qualcun altro, lasciando la propria famiglia d’origine. Ovviamente queste lavoratrici sono ad altissimo rischio di burn-out.
Ricapitolando, il Sistema Sanitario italiano all’alba del COVID-19 si presentava indebolito da anni di tagli, con personale sotto al numero adeguato (e pertanto più oberato di lavoro), e con larghe fette dei bisogni lasciate al comparto privato sotto varie forme.
Unitamente a questo, sul territorio vi era la presenza di numerosissime strutture piene di anziani (paganti salate rette, spesso utilizzando i risparmi accumulati in una vita) di cui le famiglie non riescono a farsi carico a causa della propria mancanza di tempo e di adeguati strumenti, in quanto l’assistenza ad un anziano non autosufficiente è molto complicata.
La situazione reale della Sanità italiana non era nota ai non addetti ai lavori, mi rendo conto. Questo anche perché la grande famiglia degli operatori della Sanità ha a cuore il proprio lavoro e cerca di sopperire alle mancanze del sistema, andando a tappare i buchi, sempre più grandi, che si vengono a creare, sacrificando il proprio tempo, le proprie energie e spesso anche i propri affetti familiari. Tutto questo agli occhi dei pazienti spesso non è evidente, perché soprattutto in certe zone d’Italia (come il famoso Nord) il servizio al cittadino è effettivamente eccellente, in una situazione di normalità, al netto della frequente necessità di dover ricorrere a pagare visite e/o esami di tasca propria. Un po’ come una bellissima casa la cui facciata ha mantenuto il proprio splendore nel corso degli anni, ma le cui fondamenta e i muri portanti sono stati progressivamente erosi, rendendola fragile e a rischio di crollo in caso di una scossa sismica. Allo stesso modo, come poteva rimanere in piedi il SSN di fronte al “terremoto” COVID-19? (segue)
di Nino Frodisi