Il business delle armi non va in quarantena
È abbastanza noto l’articolo 11 della Costituzione italiana, per cui «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Già questo principio farebbe pensare a un ripudio della stessa vendita di armi all’estero, se non per fini strettamente difensivi. Lo afferma, tra l’altro, la legge 185 del 9 luglio 1990[1], per cui non bisogna esportare armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite[2]», a cui l’Italia stessa ha aderito.
Ma questi rimangono solo dei “buoni propositi”, la realtà è ben differente. L’Italia è uno dei maggiori esportatori di armi nel mondo, come mostra il trend degli ultimi anni. A guardare il periodo 2015-2018, l’Italia si piazza al nono posto fra i 10 più grandi esportatori di armi al mondo, con un fatturato di 36,81 miliardi (due volte e mezzo in più rispetto al periodo 2011-2014, dove le vendite si erano fermate a 14,23 miliardi). I propri prodotti sono stati inviati in più di 80 paesi, con più del 70% diretto a paesi fuori da NATO e UE e, in particolare, oltre la metà in zone di conflitto come il Medio Oriente e l’Africa. Nel mercato delle armi, spicca in particolare l’azienda Leonardo spa, per il 30% detenuta dallo Stato, che copriva nel 2018 quasi il 70% dell’export totale.
Insomma, l’Italia non si trova proprio in regola coi principi costituenti, né con i trattati internazionali firmati, come quello ONU sul commercio delle armi[3], che richiederebbe, tra l’altro, di inviare un proprio rapporto annuale su importazioni ed esportazioni militari.
L’Italia non lo fa dal 2008, con due eccezioni negli anni 2013 e 2014. C’è una certa opacità dunque nella vendita delle armi, per quanto alcuni dati si possano avere grazie al report che lo Stato è obbligato a compilare a livello nazionale riguardo alle «operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento». Grazie a questi dati, si può sapere quanto è stato venduto ad una nazione, non però cosa è stato venduto. Solo nel 2018, si può notare la vendita di armamenti per 362,3 milioni alla Turchia (890,6 milioni nel periodo 2015-2018), che non era di sicuro un paese estraneo a conflitti, specie relativamente a quello con lo Stato siriano, con l’invasione dei territori nel Nord-Est.
Solo nel 2018, col Qatar si sono fatti guadagni per 1923 milioni. Non sono mancati, in questi anni, i rifornimenti anche all’Arabia Saudita: alcune delle bombe sganciate sul popolo yemenita erano della RMW Italia, seconda azienda produttrice di armi in Italia, con sede in Sardegna.
E nel 2019 come sono andate le cose? L’annuale relazione governativa sulla vendita delle armi è stata da poco inviata al governo e Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace sono entrate a conoscenza del capitolo introduttivo della relazione, sulla base del quale si possono conoscere i dati principali. In sintesi, si può con sicurezza affermare non c’è stata nessuna crisi nella produzione militare, la quale ha portato ad un guadagno pari a 5174 milioni, in lieve decremento rispetto al 2018 (-1,38%), ma rimanendo comunque su valori altissimi che confermano il trend al rialzo visibile dal 2015. Si conferma anche la tendenza a vendere fuori NATO e UE (62,7 %) e in zone con situazioni di conflitto. Spicca, quest’anno, fra gli acquirenti, il Regno Unito al terzo posto (419,1 milioni), il Turkmenistan al secondo posto (446,1 milioni) e, vincitore, l’Egitto con acquisti equivalenti a 871,7 milioni, fra cui la spesa principale dei 32 elicotteri prodotti da Leonardo spa.
Proprio sull’Egitto si è mosso il commento della Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace che, di fronte ai dati del 2019, ha affermato di ritenere «gravissimo e offensivo che sia stata autorizzata la vendita di un così ampio arsenale di sistemi militari all’Egitto sia a fronte delle pesanti violazioni dei diritti umani da parte del governo di Al Sisi sia per la sua riluttanza a fare chiarezza sulla terribile uccisione di Giulio Regeni». La “Verità e giustizia per Giulio Regeni” chiesta dagli striscioni su tantissimi immobili istituzionali italiani dovrebbe forse partire dalla contestazione di questa imponente spesa per armamenti. D’altronde non vanno neppure dimenticati i principali motivi per cui l’Italia non ha certamente interesse a rompere i rapporti economici e militari con il Cairo. Non solo vi è già l’interesse agli enormi guadagni per l’esportazione di armamenti, che solo con l’Egitto ha raggiunto cifre verso il miliardo. Bisogna anche ricordare che, nel complesso quadro di interessi geopolitici e per il controllo delle risorse naturali, l’Eni, presente in Egitto dal 1954[4], è il principale operatore con circa 380.000 barili di petrolio equivalente al giorno di produzione netta.
Se da una parte, nel conflitto libico, sembrano porsi su fronti opposti, da un’altra parte Italia ed Egitto hanno tutti gli interessi a favorire buoni rapporti economici, utili per ingrassare le tasche dei propri gruppi capitalisti.
Interessi che hanno spinto, in Italia, per non fermare la produzione militare, nonostante l’emergenza Coronavirus che ancora non è passata. Se i dati del 2019 si sono rivelati così promettenti, si può ben capire l’interesse a spingere in un settore che non risente di alcuna crisi. Bisognerebbe però chiedersi, a questo punto, a beneficio di chi sono questi guadagni, di certo non per i popoli afflitti dalla guerra imperialista né per la maggioranza delle persone che vivono in Italia, che al massimo possono ottenere qualche lavoratore ammalatosi per mantenere, suo malgrado, funzionante la macchina della guerra. Una macchina che genera enormi profitti per i monopoli del settore e per le banche, oltre a costituire un elemento di rilievo nella promozione degli interessi e del ruolo del capitale italiano nel sistema imperialista internazionale. Come al solito, i profitti di pochi guadagnati a discapito di tutti gli altri.
I portuali di Genova hanno già dimostrato come sia la lotta dei lavoratori lo strumento più efficace per bloccare le guerre, rifiutandosi di essere strumento della guerra imperialista che porta fame, morte e distruzione nel mondo perseguendo gli interessi dei grandi monopoli. Un esempio da estendere nel necessario compito di ricollegare la lotta per la pace al movimento operaio.
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[1] http://presidenza.governo.it/UCPMA/doc/legge185_90.pdf
[2] https://moodle2.units.it/pluginfile.php/136610/mod_resource/content/1/CARTAONU.pdf
[3] https://unoda-web.s3.amazonaws.com/wp-content/uploads/2013/06/English7.pdf
[4] http://www.senzatregua.it/2019/12/22/sui-pericolosi-sviluppi-nel-mediterraneo-orientale/