La scuola e i bisogni dell’economia: i limiti dell’istruzione piegata alle imprese (2/2)
Segue dalla prima parte.
L’altra autonomia: privati nella scuola
Ad una autonomia intesa nel senso gramsciano si contrappongono concezioni più utilitaristiche dello stesso termine: partendo infatti dal processo di decentralizzazione (voluto dalle leggi L59/97 e L275/99) che ha portato all’autonomia scolastica si evidenzia una nuova concezione di autonomia, non intesa nel suo senso emancipativo, bensì nel suo senso di adattabilità e flessibilità al sistema. Sul tema, Margiotta (2014) sembra profilare due categorie di autonomia non sovrapponibili, l’una formulata dalle riflessioni teoriche della disciplina e l’altra facente parte delle nuove tendenze pedagogiche funzionaliste. Quest’ultima, a parere dell’autore, sembra avere di molto distorto e volgarizzato il significato di ‘autonomia critica’, senza mai raggiungere “la dimensione profonda del soggetto” (p. 17), mentre una teoria che pretende di essere autenticamente pedagogica dovrebbe addirittura porsi la domanda: “Quale filosofia di vita voglio porre alla base delle decisioni?” (Winch in Borelli, 2004, p. 26). Addirittura, essa si sarebbe “ridotta ad una cifra ideologica per designare una forza-lavoro permanentemente a disposizione. Gli ambiziosi obiettivi che avevano guidato l’offensiva delle riforme sociali nel settore dell’istruzione e dell’educazione: il superamento delle disuguaglianze sociali e la creazione di pari opportunità, la democratizzazione, lo sviluppo della coscienza critica – tutti questi obiettivi non sono stati realizzati ed anzi vengono travolti dal quel disastro che sono le attuali strategie politiche di privatizzazione, e dal processo di aziendalizzazione della formazione generale.” (Margiotta, 2014, p. 17)
Secondo l’autore, se l’emancipazione mirava a “superare il carattere privatistico” (ibidem, p. 17), l’elaborazione attuale del principio di autonomia prenderebbe forma a partire dalle categorie moderno-borghesi.
Ad arricchire il quadro di aziendalizzazione della scuola pubblica si trovano poi tutti quegli enti privati i quali, accolti da una scuola che pone come punto fermo la progressiva scomparsa del suo ruolo di finanziatore pubblico, hanno creato un vero e proprio mercato all’interno delle scuole attraverso cui fare ingenti profitti. Dalla Compagnia di San Paolo alla Fondazione CRT, da Coop per la scuola ad Amazon, sono decine le imprese e le banche penetrate all’interno dell’istituzione pubblica a promuovere filantropicamente i propri progetti, salvo poi usufruire di alcune “postille di ritorno” che impongono alla scuola obblighi di collaborazione con le aziende o addirittura corsi di formazione per i docenti, come è accaduto con il progetto “Riconnessioni” della Compagnia di San Paolo, che regala la fibra in cambio di corsi di formazione. Se fino a pochi anni fa i settori tradizionalmente pubblici, come istruzione e sanità, erano rimasti relativamente vergini dai meccanismi del business, ecco che con l’acuirsi della crisi e la saturazione dei mercati, le aziende sono andate progressivamente alla ricerca di nuovi territori in cui investire.
La ripetizione all’unisono di questi chierici delle competenze, ha portato a credere ai più che bastasse innovarsi per svolgere al meglio il proprio lavoro: il buon insegnante non è colui che, attraverso uno studio serio e decennale, non smette di porre in discussione la realtà e che aiuta i propri studenti in questa operazione, non è colui si pone come obiettivo primario l’emancipazione culturale, non è colui che ha deciso che la scuola deve essere il luogo delle pari opportunità e non quello della competizione e che è ben cosciente che il più potente strumento emancipativo per i suoi allievi è proprio la cultura, non è colui che modula e costruisce la propria didattica attorno a queste premesse – non si esagera a definirle – esistenziali e considera le metodologie per quello che sono, degli strumenti, appunto, da utilizzare quando lo si ritiene opportuno in funzione delle finalità predisposte.
Ancora a detta di questi chierici delle competenze, il profilo del buon insegnante di oggi è ben diverso: il buon insegnante di oggi è privo di qualsivoglia spessore culturale, perché quello che veramente gli interessa è di implementare le skills dei suoi allievi, renderli il prima possibile autonomi, svegli, operativi, brillanti, pronti ad affrontare – o meglio, accettare – con flessibilità i cambiamenti repentini del mondo economico; il buon insegnante oggi è colui che divora tutti i moderni corsi di aggiornamento perché è a sua volta divorato da uno spasmodico desiderio di essere “il primo della classe” tra gli insegnanti; e li divora in maniera continuativa, senza un filtro critico, senza provare ad inserire quell’esperienza in un orizzonte più ampio di significato; il buon insegnante oggi è, quindi, colui che è convinto che le nuove metodologie innovative siano la chiave di volta per le sfide del XXI secolo e che dunque debbano essere assolutizzate; è colui che ha deciso che in fondo non occorre essere degli intellettuali organici, dei lavoratori della conoscenza per l’appunto, ma che è più proficuo per i propri studenti essere dei manager della conoscenza con funzioni di governance all’interno di una scuola sempre più burocratizzata e gerarchizzata; è colui che non ha l’obiettivo ultimo di formare l’allievo “riflessivo”, “pensante”, perché egli per primo non è in grado di esserlo.
Cosa significa in questo contesto portare avanti la didattica a distanza? Come si inserisce il dibattito della mutazione genetica delle modalità d’insegnamento in questa situazione di emergenza sanitaria, economica e sociale? La crisi che si sta profilando non avrà alcun tanto sperato esito di miglioramento, in quanto l’attuale crisi sembra costituire una pesante spinta di accelerazione alla privatizzazione dell’istituzione pubblica.
L’aziendalizzazione della scuola è un processo che viene portato avanti da ormai più di vent’anni e che ha visto proseguire nel medesimo solco i vari governi succedutisi e non tutti i docenti si sono ancora sufficientemente resi conto di cosa si stia preparando sul fuoco per loro.
Solo lo scorso 25 ottobre, l’allora Sottosegretaria Lucia Azzolina organizzava il Convegno “Promuoviamo la scuola: Innovazione didattica, un ponte per il futuro” ai quali, per la gioia della Confindustria, presenziavano: Attilio Oliva, presidente e coordinatore delle ricerche e dell’associazione TreeLLLe e membro del board del CERI – OCSE (Centre for Educational Research and Innovation), Antonino Petrolino, chairman TreeLLLe, Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. Un’innovazione che, quindi, passerebbe, come afferma Belardinelli, attraverso le multinazionali della telematica (riferimenti qui e qui). Si può affermare, senza esagerare, che Confindustria e affini non aspettassero altro che l’emergenza Covid-19 per portare a termine quest’opera di privatizzazione della scuola pubblica.
La completa mancanza di riflessione sulle conseguenze della DAD sul modo di fare scuola è già di per sé un dato emblematico che permette di comprendere la portata della violenza con la quale le multinazionali private hanno di fatto imposto le loro tecnologie. Si badi bene, nessuno mette in discussione che in questo momento emergenziale per attuare delle misure atte a mantenere il contatto relazionale e didattico con i propri studenti non si sarebbero dovute utilizzare le nuove tecnologie. Così Carosotti et al. (qui) definiscono a ragione la nuova pratica della DAD:
“Una manifestazione di deontologia professionale, nel rispetto del compito educativo che la nostra Costituzione attribuisce agli insegnanti e, con modalità e profili diversi, alle figure genitoriali, all’intero corpo sociale. Una garanzia per il diritto-dovere all’istruzione, la cui tutela è ancor più necessaria – oggi – a scuola sospesa, costretta al solo spazio virtuale. Anche perché la tecnologia è una “cultura”, che non è in alcun modo neutra, ma che nasce situata e “situa” chi la usa. Come dimenticare poi lo stretto e ormai soffocante legame tra tecnologia ed economicizzazione/aziendalizzazione della scuola, nel regno della quantificazione e della misurabilità?”
Quello che preme ricordare è come queste grandi aziende si siano di fatto imposte su questo governo connivente che, anziché fornire delle piattaforme statali in grado di tutelare la privacy di studenti e lavoratori, ha preferito che queste facessero profitti milionari in poche settimane.
Come se non bastasse, è di poche settimane fa la proposta giunta da tre dirigenti scolastici, definiti dal sito Edu for Innovation “illuminati”, di una riorganizzazione completa della scuola per fare fronte alla riapertura attesa per settembre. Quello che più salta all’occhio sono le “proposte operative di didattica mista per l’avvio dell’anno 2020-2021 in cui di fatto si auspica l’individuazione di contenuti essenziali per ogni disciplina ai quali gli insegnanti dovrebbero attenersi. “L’impostazione generale”, si legge, “potrebbe ispirarsi genericamente alla flipped classroom” istituendo dei gruppi di lavoro “attingendo alle migliori menti didattiche del nostro Paese”, chiaramente senza precisare quali siano i criteri che stabiliscano quali siano le migliori. Si passa quindi al primo gruppo, costituiti da un ristretto gruppo di insegnanti “con il ruolo di content manager (CM)” i quali dovrebbero dedicarsi “all’individuazione e allo sviluppo di una piattaforma di contenuti da rendere disponibili a tutte le scuole, anche con la consulenza di esperti, sulla base di modelli predefiniti di pronto uso. […] Il Ministero potrebbe stipulare apposite convenzioni per regolare i diritti d’autore e/o per lo sviluppo dei contenuti stessi, ferma restando l’opportunità di coinvolgere i docenti del gruppo per la realizzazione delle videolezioni. Potrebbe, infatti, affidare a consorzi di case editrici l’incarico di fornire i contenuti granulari per l’allestimento delle piattaforme. […] Il secondo gruppo di lavoro dovrebbe svolgere il ruolo di instructional designer (ID). Lavorando a stretto contatto con il gruppo CM, basandosi il più possibile sui contenuti sviluppati e facendo riferimento ad alcuni formati standard, la task force ID dovrebbe produrre una serie di UdAD, una sorta di lesson plan utilizzabili dai docenti, naturalmente adattabili ai singoli contesti.”
È in questi passaggi che emerge in modo drammatico la completa perdita del ruolo di avanguardia degli insegnanti la cui figura, con il pretesto di essere agevolati nel loro lavoro, si sta riducendo con sempre maggior forza e spudoratezza a una mera funzione gestionale dell’educazione e del sapere.
La questione qui non si pone poi sul piano dello stabilire dei contenuti essenziali o meno da cui il docente non può prescindere: la centralizzazione delle indicazioni scolastiche è sicuramente preponderante per i comunisti in quanto elemento in grado di garantire pari opportunità in tutte le scuole del territorio. Esattamente il contrario di ciò che è stato fatto con le ultime riforme in cui (emblematiche le Indicazioni Nazionali del 2012 per la scuola e il curriculum del primo ordine di scuola) si è passato dal concetto di “programma”, che con le sue proposte didattiche e contenutistiche garantiva una formazione di qualità a fasce estese di studenti e al contempo salvaguardava la libertà d’insegnamento, al concetto di verifica dei traguardi raggiunti, lasciando libertà ai singoli istituti di decidere di volta in volta le proprie priorità e cristallizzando le differenze di classe esistenti tra istituti differenti. E se i programmi erano il frutto delle rielaborazioni dal basso delle esperienze degli insegnanti, i presupposti con cui si pretenderebbe di centralizzare la didattica sono l’esatto opposto, frutto della decisione di pochi, degni di un nuovo corporativismo del XXI secolo. Il decentramento scolastico è parte della politica di privatizzazione: sempre maggiori poteri al dirigente-manager fanno sì che questi, insieme ad una ristretta cerchia di adepti, detti la linea didattica e hanno come conseguenza sempre minori poteri decisionali agli insegnanti e la riduzione alla collegialità degli stessi all’approvazione acritica di punti all’ordine del giorno.
Di pochi giorni fa, inoltre, è poi la notizia del Ministro Azzolina di voler installare le telecamere in classe, per permettere a metà degli alunni di seguire le lezioni in diretta streaming. Una grande idea, ma per le aziende private che vedranno aumentare ulteriormente i profitti; un’idea meno brillante se si pensa ai bambini, le cui sorti sarebbero quelle, dice Crepet, di diventare dei veri e propri “autistici digitali”. “Un bambino”, spiega lo psichiatra, “ha bisogno di socialità, di carezze, di essere sgridato o lodato. Avere una classe politica che non capisce questo e che manda metà bambini nel solipsismo casalingo per diventare autistici digitali mi fa orrore. Siamo stati pedagogisti straordinari e adesso abbiamo dei burocrati che fanno con la monetina ‘tu stai a casa con il tuo monitor e tu vieni a scuola due orette’.” L’ennesima pezza, questa, per sopperire alla mancanza politica di investimenti reali nella nostra scuola, a scapito, come sempre, dei più vulnerabili.
Conclusioni
L’avvento del Coronavirus rappresenta oggi un potente catalizzatore nel processo di privatizzazione del sistema d’istruzione pubblico italiano. Il dibattito sull’educazione oggi non si gioca su un livello diacronico di opposizione fra tradizione e innovazione, ma sul piano dell’analisi di classe, inserendo i processi che hanno sconvolto l’istruzione pubblica all’interno dei macro-processi economici. Se è vero che nella seconda metà del Novecento in Italia si è raggiunto livelli di formazione d’eccellenza, questo è avvenuto sull’onda delle riforme popolari e dell’influenza delle forze progressiste e comuniste in Italia. Nel momento in cui questa scia è venuta meno, il castello di sabbia è caduto e con esso anche tutto il patrimonio pedagogico di quegli anni. Quello che occorre comprendere è, come oggi, il termine innovazione non coincida con il termine progresso, intenso nel suo senso più emancipativo. Parlare di innovazione didattica oggi significa senza se e senza ma parlare di ripiegamento dell’intera istituzione scolastica agli interessi del grande capitale e tutto quello che oggi viene proposto non ha altro scopo che quello. Il taglio dei fondi pubblici non ha avuto, come unica conseguenza – che già di per sé sarebbe degna di rivolta da parte del personale insegnante –, quella della precarizzazione degli insegnanti, dell’impoverimento delle strutture scolastiche e dell’abbassamento della qualità dell’istruzione. I tagli ai fondi pubblici hanno comportato e stanno comportando una metamorfosi della didattica scolastica, non più frutto della riflessione dell’avanguardia culturale dei docenti, ma di un’applicazione acritica di metodologie svuotate di senso e di spessore culturale. I principali autori di queste politiche non hanno perso l’occasione, in questo periodo di emergenza, di fare i loro profitti sulla pelle di lavoratori e insegnanti, come d’altronde stanno già facendo in grande le imprese e le banche impegnate nell’accaparrarsi nuove fette sul mercato del digitale e delle consegne online, acuendo ulteriormente tale processo di privatizzazione e di costruzione di una scuola che è sempre più di classe.
Sara Mattiello e Giulia Guzzo
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