Ambrogio Donini a trent’anni dalla morte (2/2)
Riceviamo e pubblichiamo la seconda parte del contributo di Antonio Catalfamo al dibattito su Interstampa avviato sul nostro sito il 2 maggio scorso. Si tratta dell’ultimo contributo al dibattito, che concluderemo prossimamente. Leggi la prima parte.
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È trascorso un trentennio dalla morte di Ambrogio Donini, avvenuta precisamente il 10 giugno 1991. La sua opera di storico delle religioni continua magari ad essere ricordata in aree ristrette del mondo accademico, ma viene, comunque, “imbalsamata”, considerata una delle tappe seguite dalla disciplina nella sua evoluzione nel tempo, ma ampiamente ed irrimediabilmente superata dal punto di vista metodologico. La sua Breve storia delle religioni, nella versione aggiornata ch’egli volle darle prima della morte (rivedendo i Lineamenti di storia delle religioni del 1959), per i tipi di una casa editrice a larga tiratura, come la Newton Compton, è ancora in vendita ed è acquistata da quanti si interessano di questa materia a livello specialistico o amatoriale, in quanto coniuga semplicità espositiva e rigore scientifico.
Ma il pensiero e l’azione di Donini in campo politico sono stati completamente dimenticati. Sarebbe bene che venissero ripresi ed approfonditi, soprattutto a beneficio delle giovani generazioni.
E’ difficile delineare in breve le fasi della sua lunga e travagliata esistenza. Ci limitiamo ad alcuni momenti fondamentali. Nato a Lanzo (Torino) nel 1903 nell’ambito di una famiglia di alti ufficiali e di prelati appartenenti ai gradi superiori delle gerarchie ecclesiastiche, decide di dedicarsi allo studio della Storia delle religioni, sotto la guida di Ernesto Buonaiuti. Consegue brillantemente la laurea nel 1925 all’Università di Roma. Il suo maestro viene defenestrato dall’insegnamento accademico in quanto è fra i pochi docenti (in tutto 11 o 12) che si rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al fascismo e, inoltre, a causa delle sue idee di stampo modernista, è inviso ai vertici del Vaticano, che pongono la sua esclusione dall’insegnamento fra le condizioni per la firma dei Patti Lateranensi. Così Donini gli succede con i corsi liberi di Storia del cristianesimo che tiene presso l’Università di Roma nel biennio 1926-’28. Dal 1927 è iscritto al Partito comunista clandestino. Perciò nel 1928, con l’Ovra alle calcagna, è costretto ad abbandonare l’insegnamento universitario e a rifugiarsi in America. Qui ottiene un dottorato presso la Harvard University at Cambridge (Massachussets) e si specializza in ebraico e siriaco, auspice Giorgio La Piana, anch’egli prete d’indirizzo modernista, al pari di Buonaiuti. Insegna Storia del cristianesimo in varie Università americane. Conosce Olga Jahr, che diventerà sua compagna per tutta la vita.
Inizia, indi, un lungo periodo di peregrinazioni, funzionali all’attività propagandistica a favore del partito e dell’antifascismo militante, che conosce diverse tappe: Belgio; Francia, dove è redattore-capo de «La voce degli italiani»; Tunisia, dove fonda «Il giornale», quotidiano antifascista; Unione Sovietica. Rientra più volte clandestinamente in Italia, travestito da turista inglese, con un paio di occhiali scuri, per nascondere l’occhio menomato sin dalla prima giovinezza, e l’inseparabile pipa in bocca. L’Ovra è sulle sue tracce e cerca ripetutamente di smascherarlo. Ma egli è sempre accorto, dotato di una flemma invidiabile in ogni circostanza. In più, la crassa ignoranza dei funzionari di polizia italiani li porta a tradurre il termine «clerk», che indica un impiegato di grado inferiore, segnato sul passaporto laddove si specifica la professione (in questo caso di copertura), come «prete» (naturalmente anglicano), e a trattarlo conseguentemente con tutto il rispetto che merita un vero prelato.
Nel 1938, assieme ad Emilio Sereni, si reca in treno in Svizzera, dove incontra monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, esponente degli ambienti vaticani progressisti, nel tentativo di allargare il fronte antifascista.
Nel 1939, ancora negli Stati Uniti, dirige il settimanale antifascista in lingua italiana «L’Unità del Popolo». Nella redazione del giornale, mentre Donini è assente, piomba Ezio Taddei, anarchico espatriato clandestinamente in America, il quale, spazientito dall’attesa del direttore, che tarda a tornare, scaricando le tensioni che si sono accumulate tra «L’Unità del Popolo» e «Il Martello», giornale anarchico diretto da Carlo Tresca, poi assassinato misteriosamente, al quale Taddei collabora attivamente, distrugge con furia inaudita arredi e macchine da scrivere. Interviene la polizia, ma Taddei, da lì a poco, viene scarcerato, perché Donini non ha presentato denuncia contro di lui. Da qui inizia una lunga amicizia, durata fino al secondo dopoguerra, dopo il rientro di entrambi in Italia. Taddei ritorna nella sede de «L’Unità del Popolo», questa volta con intenti pacifici: rivela a Donini che è in corso una manovra poliziesca per far ricadere sui comunisti (in particolare su Vittorio Vidali) l’assassinio di Carlo Tresca. Il vecchio antagonista gli è riconoscente e diviene amico fraterno per tutta la vita. I comunisti, comunque, vengono scagionati dall’accusa di essere responsabili dell’uccisione di Tresca. Donini, nel corso della polemica giornalistica, aveva accusato Taddei di aver offeso in passato Gramsci, sostenendo sulla stampa anarchica che il capo dei comunisti italiani in carcere godeva di privilegi attribuitigli con generosità dal regime fascista. In effetti, Taddei si era macchiato di simili insinuazioni. Da qui ad affermare ch’egli fosse una spia fascista ce ne corre.
Luciano Canfora si è incamminato, in uno dei suoi saggi (Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno, Roma, 2012) su questa via accidentata, ma, attraverso un percorso farraginoso, è riuscito a dimostrare solo che Taddei era stato un individuo “eterodiretto”, nel senso che la polizia fascista, conoscendo l’odio che opponeva gli anarchici ai comunisti, metteva spesso la pulce nell’orecchio ai militanti anarchici, fornendo informazioni calunniose sui dirigenti comunisti e, quindi, sfruttando il loro fanatismo ed anticomunismo viscerale. Lo stesso aveva fatto, nella fattispecie, con Taddei, facendogli pervenire notizie calunniose su Gramsci e altre informazioni contro i dirigenti comunisti, affinché egli se ne facesse divulgatore sulla stampa anarchica. Altra cosa è dimostrare che Taddei fosse al servizio diretto del regime fascista e, quindi, una spia. Canfora, nonostante i “voli pindarici” del suo ragionamento e il suo “filologismo” forzato, a nostro modesto avviso, non arriva a dimostrare quest’ultima ipotesi e si perde nei meandri della fantasia da giallo poliziesco.
Ezio Taddei, nel secondo dopoguerra, fu intellettuale organico al Pci, pubblicò diversi libri con le case editrici vicine al partito, fu impegnato in campagne elettorali e in servizi giornalistici pubblicati da «L’Unità», fino alla sua morte, avvenuta nel 1956, mentre si accingeva a partecipare ad un ricevimento organizzato in onore di artisti e scrittori cinesi. I servizi segreti sovietici e il Pci avrebbero avuto, a un decennio dalla fine della guerra e a qualche lustro in più dagli avvenimenti contestati, tutto il tempo per smascherare Taddei e per isolarlo. Invece, fecero di lui uno degli intellettuali di punta dell’area comunista. Ambrogio Donini fu sempre sponsor di Taddei e delle sue opere letterarie. Fu grande amico dello scrittore e si fece tramite dell’amicizia di quest’ultimo con altri comunisti e amici intimi, come Nino Pino (anch’egli intellettuale di estrazione anarchica, poi parlamentare del Pci dal 1948 al 1963), il quale, ricordando il legame con Taddei in uno scritto dedicato a Donini, così descrive l’ex anarchico approdato al comunismo: «Ezio Taddei (Livorno 2 ott. 1895 – Roma 16 mag. 1956) è un anarchico arrivato clandestinamente negli Stati Uniti dopo inverosimili vicissitudini, col suo spaventoso fardello di anni e anni di galera e di confino, sempre a tu per tu con la vita errabonda, miseria, sofferenze incredibili, quasi ai limiti di ogni umana resistenza. Ha temperamento leonino, dolcezza e altruismo più unici che rari, fresca spontaneità di fanciullo, nella sua persona mingherlina c’è qualcosa di titanico. Essere povero, vivere l’esistenza dei reietti è per lui elezione, scelta, integrazione coerente di vita e di fedeltà ai propri ideali. E’ un personaggio alla Gorki: autodidatta, si è già rivelato scrittore, poeta, giornalista» («Zootecnia e Vita», anno XV, n. 1, gennaio-marzo 1972). Chi ha conosciuto personalmente Ezio Taddei sa quanto questo ritratto delineato da Nino Pino sia veritiero. Il resto è pura fantasia. Nino Pino, che conobbe Taddei attraverso Donini quand’era parlamentare a Roma e che lo ospitò più volte a casa sua, a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), assieme alla sorella Tirrena, così come ospitò lo storico delle religioni, convalescente, assieme alla moglie Olga, descrive in termini eroici la condotta dello scrittore anarchico volta a scagionare i comunisti durante il processo seguito all’assassinio di Carlo Tresca: «Sul caso Tresca, il ruolo decisivo svolto da Ezio Taddei ha qualcosa di grandioso, di veramente epico. Non esagero affatto. Solo un uomo indomabile, coraggioso ed eroico come lui, ha potuto farlo. Non solo sostenne l’accusa davanti al giudice, ma la sostenne pubblicamente nel discorso che tenne allorché fu commemorato Carlo Tresca nel trigesimo della morte. Era stato irremovibile. Elementi della malavita gli avevano posto l’ultimatum al “banchetto della morte”. E alla morte scampò per miracolo». Taddei, nel commemorare pubblicamente Tresca, accusò dell’omicidio la mafia, che per questo voleva ucciderlo, e queste sue accuse sono contenute in un libretto pubblicato in America, che suscitò all’epoca un certo scalpore. Il “filologismo” capzioso non può cancellare e sostituire questi fatti di dominio pubblico.
Ambrogio Donini, durante il lungo esilio antifascista, è uno dei dirigenti di punta del centro estero del Pci.
Nel corso della guerra di Spagna (1936-’39), mentre gli aerei antirepubblicani bombardano, invece di andare nel rifugio, assieme a Palmiro Togliatti legge le prime pagine dei Quaderni del carcere gramsciani che arrivano in copia da Mosca e che sarà possibile pubblicare nella loro interezza solo nell’immediato secondo dopoguerra, dal 1948 al 1951, presso l’editore Einaudi di Torino. Donini, inoltre, è protagonista di un tentativo di liberare Gramsci, attraverso la mediazione vaticana, nonché del governo sovietico, e lo scambio del capo dei comunisti italiani con alcuni prelati cattolici prigionieri di Stalin. Il tentativo fallisce all’ultimo momento per l’opposizione diretta di Mussolini, che impedisce a monsignor Pizzardo, inviato del Vaticano, di visitare Gramsci nel carcere di Turi. Di queste trattative sono state trovate tracce negli archivi vaticani, nel dopoguerra, da Giulio Andreotti.
Nel 1945, a guerra finita, Ambrogio Donini rientra in Italia, dopo 17 anni di esilio. E’ fortemente impegnato sul piano politico e culturale. Consigliere comunale a Roma; ambasciatore italiano a Varsavia, nel 1947, successivamente defenestrato, a causa della rottura tra le forze antifasciste che avevano dato vita all’esperienza del governo di unità nazionale; senatore del Pci dal 1953 al 1963; dirigente di primo piano del partito, come tale presente negli organismi nazionali; direttore della Fondazione Gramsci; vice-direttore della rivista del partito, «Rinascita», diretta da Togliatti.
Donini può essere considerato l’«uomo di Mosca» in Italia. Qualche anno fa è emerso («La Stampa», 20 maggio 2018, p. 23) che nel febbraio del 1952, in piena Guerra fredda, egli fu incaricato da Stalin di avviare colloqui informali col Vaticano al fine di un riavvicinamento tra le parti, che potesse preludere all’apertura di una sede diplomatica sovietica presso lo Stato della Chiesa e ad una mediazione della Santa Sede tra Urss e Usa al fine di un allentamento della tensione tra le due superpotenze. Gli incontri ufficiosi avvennero nella residenza di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, con l’interessamento del re esiliato Umberto II, e ad essi parteciparono in rappresentanza di Stalin Ambrogio Donini, per l’appunto, e per il Vaticano il gesuita padre Giacomo Martegani, direttore della «Civiltà Cattolica», che incontrava papa Pacelli due volte al mese per ragioni d’ufficio. Un verbale di tali incontri, lungo 40 cartelle, è stato rinvenuto da Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Molise. La trattativa si protrasse fino agli inizi di marzo 1953, poi cadde nel nulla a causa della sopravvenuta morte di Stalin.
Rispettivamente nel 1956, nel 1968 e nel 1979, Donini approva gli interventi sovietici in Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan. Entra in rotta di collisione col gruppo dirigente del Pci. Nel 1979, a causa della posizione ostile assunta nei confronti del «compromesso storico», viene defenestrato dalla Commissione Centrale di Controllo, senza che possa difendersi.
Sul piano prettamente scientifico, è impegnato come docente di Storia del cristianesimo presso l’Università di Bari e nella pubblicazione di alcuni volumi preziosi: Lineamenti di storia delle religioni (Editori Riuniti, Roma, 1959); Storia del cristianesimo dalle origini a Giustiniano (Teti editore, Milano, 1975); Enciclopedia delle religioni (Teti editore, Milano, 1977). Dopo essere stato allievo di Buonaiuti, Donini si è formato alla scuola antropologica sovietica, facendo propria una visione del marxismo non dogmatica, che individua sì il nesso fondamentale fra «struttura» e «sovrastruttura», ma evidenzia anche l’autonomia acquisita dalla seconda rispetto alla prima, una volta che si è costituita.
In occasione degli avvenimenti polacchi del 1981, è il maggiore animatore della rivista «Interstampa», che raccoglie i «filosovietici» italiani.
Armando Cossutta scalpita, vuole assumere la guida incontrastata dei comunisti che in Italia guardano con simpatia all’Unione Sovietica. Nel 1985 nasce il quindicinale «Orizzonti», diretto da Italo Avellino, una figura che deve garantire l’immagine di un giornale indipendente aperto a contributi esterni. Ma anche ad una prima lettura la rivista appare legata al nuovo gruppo dirigente sovietico. E’ di stretta osservanza gorbacioviana, gli articoli sull’Urss inneggiano alla «perestrojka» e sono firmati perlopiù da Carlo Benedetti, già corrispondente da Mosca de «L’Unità» e successivamente direttore de «La Rinascita della sinistra», rivista del Partito dei Comunisti italiani fondato da Armando Cossutta. Evidentemente quest’ultimo è l’ispiratore di tutta l’operazione, che deve garantirgli, per l’appunto, l’assunzione della guida indiscussa dell’area «filosovietica» in Italia. Cossutta si è convertito al «gorbaciovismo», si è posto in sintonia col nuovo gruppo dirigente sovietico, in linea con l’opportunismo che ha contraddistinto tutta la sua carriera politica. Ma «Orizzonti» non decolla (anche se è distribuito nelle edicole, a differenza di «Interstampa»), dura soltanto un anno, dal giugno 1985 al giugno 1986, allorquando cessa le pubblicazioni, lasciandosi dietro una scia di debiti, che vanno estinti.
Cossutta, a questo punto, è il capo consacrato dei «filosovietici» italiani. Aspetta il momento opportuno per far valere questo suo ruolo ai fini della carriera personale. E’ ormai chiaro che nel Pci non ha futuro. Si tratta di stabilire il momento e il modo in cui venirne fuori, sfruttando le circostanze più favorevoli per sé. Allorquando Occhetto vara la «svolta della Bolognina», Cossutta medita come dosare la reazione e come traghettare i suoi in un altro partito. E’ indeciso se costituirlo subito come partito autonomo, oppure come federato con quello che ormai si approssima a divenire l’ex Pci (poi denominato Pds). Ma la reazione della massa dei militanti comunisti, che si affollano davanti a Botteghe Oscure per protestare contro quello che ormai è lo scioglimento del Pci, gli forza la mano. Egli è costretto a fare subito un nuovo partito. Ma non vuole che venga etichettato come «filosovietico». Perciò imbarca il gruppo dell’ex Pdup, quello di Democrazia Proletaria, gli ingraiani di Sergio Garavini, ed altri spezzoni dell’area extraparlamentare (Lotta Continua).
Allorquando nasce, con un bagno di folla in un teatro, il Movimento della Rifondazione comunista, è lui il capo della fazione «filosovietica». Ambrogio Donini, ormai semicieco, viene lungamente applaudito dai presenti, ma, assieme a Ludovico Geymonat, anch’egli presente alla manifestazione, è ormai considerato un «grande vecchio», più che altro un «padre spirituale». Muore di lì a poco, nel 1991, così come Geymonat. Intorno alla sua figura cala il silenzio. Nessuno ha interesse a ricordare la sua opera e il suo pensiero, men che mai Armando Cossutta ed i suoi epigoni. L’oblio attorno a Donini dura a tutt’oggi. E’ necessario che i giovani approfondiscano il suo pensiero e la sua opera e che intraprendano iniziative per rilanciarli, come punto di riferimento per l’azione politica presente e futura dei comunisti. Il trentesimo anniversario della morte di Donini cade il 10 giugno del prossimo anno. E’ necessario preparare sin d’ora il terreno ad una commemorazione grandiosa, che non sia solamente oleografica, ma miri a fare della sua opera prodigiosa un esempio per tutti coloro che vogliono ricostruire il Partito comunista in Italia su basi solide.
Cossutta, dopo l’errore fondamentale di dar vita ad un partito come Rifondazione comunista, tanto eterogeneo da non poter assumere una linea univoca e da sgretolarsi come un biscotto nel corso di qualche lustro, ne compie un altro altrettanto grave: collocare alla segreteria Fausto Bertinotti, che si apprestava ormai ad andare in pensione come sindacalista della CGIL, dopo una vita all’insegna del carrierismo, dell’opportunismo, della demagogia.
Bertinotti arriva sempre quando la tavola è già apparecchiata. Aderisce al Psiup nel 1966, due anni dopo la scissione dal Psi, quando questo partitino ha conseguito una posizione ben solida all’interno delle gerarchie della CGIL, in quanto viene ricompensato dal Pci, maggioritario nel più grande sindacato italiano, per il distacco dai social-riformisti ed è, quindi, in grado di imporre nei posti chiave propri uomini come Bertinotti, che fino a quel momento è rimasto prudentemente nella corrente lombardiana del Psi, in attesa che maturassero gli eventi e si vedessero gli effetti concreti della scissione “socialista-proletaria”. Il Fausto poi passa al Pci e, persino, al Pds. Si iscrive a Rifondazione direttamente come segretario nazionale, dopo che Cossutta gli ha offerto il boccone ghiotto della guida del partito. Il “grande manovratore” ha bisogno di qualcuno che “buchi lo schermo” e crede di poter manipolare il Fausto. Ma s’illude: questi, con la sua capacità di maneggione, capovolge la maggioranza interna e costringe Cossutta ad una scissione di minoranza, dando vita ad un partito (Pdci) che nasce, oltre che per suoi interessi personali, per appoggiare un governo di centro-sinistra.
Se, alla luce di tutta questa esperienza, potessi dare alcuni consigli ai giovani, suggerirei loro di ricostruire il Partito comunista dal basso, non come sommatoria di spezzoni eterogenei, e di garantire il dibattito e la partecipazione permanente, ai vari livelli, per impedire che riemergano i vecchi sistemi, imperniati sui giochi di potere e sulla concezione della politica come intrigo, nonché la figura del “padre-padrone”, che pretende di decidere per tutti e di orientare il partito in direzione dei propri interessi personali e di cricca. Inoltre, consiglierei di non accettare nessun tipo di alleanza, a nessun livello, con il centro-sinistra, seguendo l’esempio del Partito comunista greco (KKE). E’ questa una strada difficile da percorrere, ma, nel contempo, è l’unica che possa dare risultati utili per la collettività.
Antonio Catalfamo
Docente universitario
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina)