Cinema ritrovato. La notte, di Michelangelo Antonioni, 1961
Antonioni stimola nel pubblico sensazioni ed emozioni contrapposte: adorato dai suoi fan, precocemente invecchiato per molta critica. Di certo oggi appare, tra i grandi autori, il più datato. Il regista più invischiato nei problemi morali ed esistenziali di una stagione culturale rapidamente superata, e con essa un linguaggio e un orizzonte incapace di parlare a un presente diverso dagli anni Sessanta. Di questo linguaggio e di questo orizzonte di problemi, La notte si ritaglia una posizione privilegiata: tra i suoi film, è forse il più anacronistico, l’opera che più di tutte non ha retto allo scorrere del tempo e della realtà.
Proprio in virtù di questa incomunicabilità (curioso destino per un film pensato dentro una trilogia dell’incomunicabilità), La notte si presenta oggi in forma di documentario: un reperto d’epoca, che ha disperso le riflessioni esistenziali sui rapporti tra uomo e donna, ma in cui emerge (o persiste) una traccia di realismo (documentario) utile per capire un certo clima culturale dell’Italia degli anni Sessanta.
Come un documentario dunque va rivisto, cogliendone divertiti stravaganze ed ellissi di un tempo che fu e che non ritornerà.
Il tema cardine del film è la figura dell’intellettuale negli anni del boom economico. Ancor più specificatamente, il rapporto controverso e alienato tra cultura e neocapitalismo. Quali smottamenti esistenziali abbia provocato l’irruzione della modernità capitalistica nella vita e nei pensieri del ceto intellettuale del paese, è testimoniato dalla quantità – a dir poco sterminata – di riflessioni, lamenti e provocazioni che andavano intasando la vita letteraria del paese di quel decennio.
Di fatto, un mestiere fino agli anni Cinquanta sostanzialmente artigianale, elitario e svincolato dai rapporti di produzione e di consumo, subiva impreparato e disorientato l’irruzione di trasformazioni capitalistiche per lui stranianti. Il consumismo nascente non mercificava solo frigoriferi e televisori, automobili o lavatrici, ma investiva anche l’accesso alla cultura. Una cultura fino a pochi anni prima prodotta e consumata all’interno di una stessa cerchia intellettuale, e che adesso trovava mercato, ricezione e valutazione fuori dai consolidati rapporti di riconoscimento reciproco tra produttori e consumatori. La società di massa conduceva ad una cultura di massa. Per meglio dire, ad una cultura immediatamente massificata, diversa da quel “popolare-nazionale” dal valore pedagogico-educativo, e coincidente con una frammentazione sotto-culturale involgarita, dove il popolare veniva declinato in popolaresco e la fiducia nel futuro diveniva incanto del progresso consumistico.
Lo shock culturale fu enorme. Fino ad allora libero di contrattare la propria posizione sociale ed economica, l’intellettuale degli anni Sessanta si vedeva sempre più legarsi all’industria culturale, poi all’industria tout court, infine alla sua commercializzazione, la sua possibilità di fruizione, modificando e spesso (non sempre) degradando il proprio prodotto. Ancora: un tempo affrancato da esigenze economiche – per eredità familiare o per carriere docenti individuate come mediazione tra necessità lavorative e culturali – il processo di proletarizzazione – cioè di inserimento coatto nel mercato del lavoro – non poteva che dileguare il carattere “disimpegnato” e distaccato dell’intellettuale, coinvolgendolo direttamente nei problemi materiali, sebbene da una posizione sociale differenziata da quel “popolo” che pure si individuava come referente. E infine: l’accesso alla cultura di milioni di uomini e donne, laddove questa fino a poco tempo prima rimaneva confinata in recinti rigidamente selezionati, coincidenti – come abbiamo detto – con gli stessi produttori di cultura, non poteva non stravolgere il rapporto tra intellettuale e cultura, i caratteri di quest’ultima, la sua comunicabilità. Questi e altri motivi condussero ad un sommovimento riflessivo e introspettivo lacerante, che costringeva, al tempo, ad interagire con la modernità capitalistica e a rifiutarla in nome di una rivendicata libertà di pensiero e di espressione. L’intellettuale negli anni Sessanta fu l’ultima delle figure sociali a rimanere in bilico tra il mondo di ieri e quello del caotico presente, tra passato e futuro, tra rivendicazioni castali e immiserimenti culturali. Di qui l’alienazione, lo spossessamento subito dalla propria opera; o il suo pervertimento, la svendita totale dei suoi margini di libertà alle ragioni del consumo di massa.
In quegli anni, e ancora per un decennio, il movimento operaio eserciterà un’influenza sui ceti intellettuali in grado di reggere la sfida della trasformazione. L’alienazione vera, che condurrà alla perdita di senso esistenziale raccontata da Antonioni, non coinvolgerà in prima battuta quel mondo intellettuale engagé legato in vari modi – dentro il Pci o ai suoi margini – alle lotte di classe. Il letterato comunista – nella stragrande maggioranza dei casi parente di quel privilegio sociale decretato dal suo status pre-moderno – proprio perché comunista avrebbe istituito un dialogo con la modernità e la cultura di massa, che alla lamentazione per i privilegi perduti andava affiancando un discorso sulle potenzialità di un avanzamento complessivo dei rapporti tra “cultura e popolo”.
Antonioni parla del disagio vissuto da quel mondo intellettuale in bilico tra conservazione e progresso, vagamente di sinistra ma disimpegnato, libero di vendere la propria forza lavoro intellettuale, ma al tempo stesso pronto a compromettersi con il capitale privato, con la grande impresa, magari “illuminata”, in forza delle nuove scienze sociali e delle human relations.
Giovanni Pontano (lo scrittore protagonista del film, interpretato da Marcello Mastroianni), è la controfigura di un certo intellettuale, legato non a caso all’opera di direzione culturale di Valentino Bompiani (che infatti compare nel film, così come appare un giovanissimo e sbarbato Umberto Eco). Un po’ Paolo Volponi un po’ Ottiero Ottieri; o forse Testori, Cassola. Letterati decenti, ma intellettuali senza casa e senza idee vive, e per questo disponibili a mercanteggiarle, corifei di uno sviluppo sociale immediatamente coincidente con la magnificazione del neocapitalismo, della presunta pianificazione riformistica, accaniti censori dei rigurgiti reazionari proprio in quanto subdoli avversari della trasformazione politico-sociale. Paradigmatica l’evoluzione di Paolo Volponi, ad esempio: alla Olivetti, negli anni Cinquanta; alla Fiat, nei Sessanta; infine nel Pci, quando alla metà dei Settanta si poteva essere rassicurati del suo orientamento politico.
Giovanni Pontano è dunque un tipo sociale determinato, investito dalla notorietà (e dai soldi), e quindi in crisi per via di questo mercanteggiare la propria arte. In crisi perché non sa resistere: completamente a-morale nella vita privata (si dà costantemente al tradimento della moglie), trasferisce questa a-moralità nella sua carriera letteraria, accettando l’invito di un imprenditore a divenire direttore del suo ufficio stampa, con il compito di scrivere la storia dell’azienda che coincidesse con la biografia dell’industriale. Un affresco in grado di avvicinare – queste le intenzioni del capitalista – i vertici aziendali e gli operai, in collaborazione verso il futuro radioso di “politica di alti salari” che l’imprenditore premette quale distintivo di democrazia e progresso.
Questo il documentario, la presa d’atto di uno stato mentale e psico-sociale tipico di una categoria di persone determinata.
Il racconto ha la sua forza nei molti passaggi lasciati in sospeso, solamente accennati o affrontati obliquamente: la Milano del boom, l’incerta modernità, i tic e le ipocrisie della borghesia produttiva ma anche attenta – per opportunismo – alle tendenze culturali più aggiornate.
Altrove, nel suo incedere sull’incomunicabilità dei protagonisti, risente del tempo trascorso, ma già rapidamente invecchiato pochissimi anni dopo. Oggi se ne può godere quel tanto che può ancora restituirci questo quadro d’autore. Un quadro sfocato, ma non per questo incapace di delineare alcuni limiti di una figura contraddittoria per definizione, oggi estromessa da qualsiasi funzione d’avanguardia.