Gig economy e sfruttamento: Uber Italy commissariata per sfruttamento dei migranti
Risale a qualche ora fa la notizia della disposizione dell’amministrazione giudiziaria, ossia il commissariamento, della filiale italiana della multinazionale statunitense Uber, da parte della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano. L’accusa, per Uber Italy e per la società Flash Road City, addetta al reclutamento dei rider per la distribuzione del servizio Uber Eats, è quella di caporalato: secondo gli inquirenti, le due società avrebbero avviato una massiccia campagna di “reclutamenti a valanga non controllati”, per far fronte all’esplosione di domanda di consegne a domicilio, seguita all’inasprirsi delle norme per il contenimento del contagio da Coronavirus.
Tali reclutamenti sarebbero stati rivolti con particolare attenzione ai soggetti in situazione di “emarginazione sociale”: si tratta infatti in larga parte di immigrati, “richiedenti asilo” e persone che dimoravano in “centri di accoglienza temporanei”, “provenienti da contesti di guerra, zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri) e la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare”.
Come per quanto avviene nel caporalato agricolo, gli inquirenti hanno ovviamente riscontrato quanto il “forte isolamento sociale in cui vivono questi lavoratori” offre “l’opportunità di reperire lavoro a bassissimo costo, poiché si tratta di persone disposte a tutto per sopravvivere, sfruttate e discriminate da datori di lavoro senza scrupoli”: si parla infatti di turni di lavoro massacranti, incuranti delle condizioni meteo, a tre euro a consegna, con 50 centesimi trattenuti per ogni consegna annullata e circa €21000 di mance “elettroniche” (ovvero associate alla consegna tramite l’app) sparite nelle tasche della società; le vessazioni erano somministrate per mezzo degli stessi strumenti di lavoro, come la sparizione dei 70 euro della cauzione dello zaino per le consegne, ma soprattutto attraverso l’applicazione: le suddette mance trattenute, la “penale” per le consegne annullate, ban temporanei all’accesso per dare una lezione al runner “pigro”, blocco dell’account definitivo per chiunque non accettasse almeno il 70% degli ordini. Per chi venisse colto dai sorveglianti (posizionati da Flash Road City all’accesso dei ristoranti) in “atteggiamenti errati” l’ordine era chiaro: “Chi fa il testa di minchia mettiamolo in stand by”.
Ovviamente c’è chi si è ribellato, chiamando “schiavista” e “ladro” l’intermediario, e subito sono partite le minacce di aggressione fisica in risposta: “Ho solo minacciato di venirti a rompere la testa e lo ribadisco (…) ti vengo a prendere a sberle, ti rompo il culo”. Il mancato rispetto dell’integrità fisica dei riders passa non solo per le minacce, ma anche per i bonus di €50 per chi avesse rispettato le consegne seppur malato: è chiaro a tutti quanto il profitto, per multinazionali come Uber, passi tranquillamente sopra le norme sanitarie, specialmente in tempo di pandemia. Tali ordini, ovviamente, non provenivano solo dai caporali della società intermediaria, ma anche dagli stessi manager di Uber che, nonostante la società sostenga che abbiano lavorato nel “pieno rispetto di tutte le normative”, compaiono nelle intercettazioni come palesemente partecipi nella gestione dei rider, sanzionandoli, gestendone gli orari, ignorandone totalmente l’autonomia decisionale e indirizzando l’attività della società intermediaria perché agisse esattamente secondo queste direttive, in aperta contraddizione con i contratti tra le due società e tra queste e i rider.
Oltre al commissariamento di un anno per Uber Italy, si sono predisposti procedimenti penali per cinque dipendenti della multinazionale, per Giuseppe Montini e per svariati dipendenti della sua Flash Road City, nonché perquisizioni e il sequestro di €500000 in contanti.
Possiamo quindi parlare di vittoria per i lavoratori delle piattaforme di delivery? Certo, il commissariamento di Uber Italy è un segnale forte, quasi inaspettato, da parte dello Stato, spesso più prono a soluzioni assai più accomodanti nei confronti delle multinazionali che operano sul territorio italiano. Si va quindi a sottolineare, e aggiungeremmo “per fortuna”, che anche nello sfruttamento delle categorie professionali meno protette e riconosciute ci sono dei limiti che non vanno oltrepassati, neanche dai moderni giganti dell’economia. Questo però non cancella le problematiche intrinseche che affliggono le suddette categorie lavorative: gli orari folli nelle giornate di maggiore intensità di domanda, la paga bassa a consegna per chi accetta il cottimo, il controllo arbitrario sui frutti accessori delle transazioni (mance via app, ma anche i bonus per il peso delle consegne e per il chilometraggio, e gli incentivi per gli ordini minimi) continueranno ad esistere anche riconducendo queste forme di sfruttamento nei limiti formali della legalità.
Né si accenna alla regolarizzazione per gli immigrati coinvolti nel caporalato del food delivery, nonostante siano evidentemente stati selezionati, sulla base della provenienza geografica da situazioni di estremo disagio, in maniera specifica per le loro caratteristiche fondamentali di ricattabilità e suscettibilità all’accettazione di qualsiasi forma di lavoro pur di potersi mantenere in vita.
Il reale avanzamento nelle condizioni lavorative all’interno delle strutture delle gig economy passa solo occasionalmente per le mani della magistratura italiana, che ne costituisce semmai l’ultima istanza: il riconoscimento. La prima mossa spetta sempre e solo ai lavoratori attraverso l’organizzazione, da quella basilare della denuncia (che ha condotto alle indagini su Uber Italy) a quella, più avanzata, della lotta sindacale che ha portato alle importanti conquiste di inizio anno, come l’obbligo dell’assicurazione INAIL per i rider, e al riconoscimento di questi ultimi come categoria professionale dipendente nella sentenza del Tribunale di Milano, che attribuisce ai rider la stessa normativa e la stessa retribuzione dei lavoratori dipendenti, confermata in Cassazione a gennaio in seguito al ricorso di Foodora.
Insomma, ben vengano certe sentenze, ma come sempre solo la lotta paga.