La grandezza di un “uomo medio”. Vita di Antonio Gramsci, di Raffaele Majello
All’inizio degli anni Novanta, Giuseppe Fiori – noto biografo di Gramsci – ricordò quanto in Italia i mass media avessero dimenticato il fondatore del PCdI. Gramsci era entrato nella televisione Rai per la prima volta nel 1967, con un misero documentario di 25 minuti. Solo nel 1980, affidatogli il compito dal direttore rai Massimo Fichera, il regista Raffaele Majello preparò uno sceneggiato di cinque ore, diviso in quattro puntate: “Vita di Antonio Gramsci”. Fra gli sceneggiatori, spuntava lo stesso Giuseppe Fiori. La serie-documentario tuttavia venne accantonata in magazzino dal direttore che era subentrato a Fichera, il quale «persino si rifiutava di vederla. Nell’Italia nata dalla Resistenza al fascismo, un film su Gramsci lo contrariava». Ci volle l’intervento appassionato di Enrico Berlinguer per far cadere la censura su un film che, comunque, venne trasmesso in tv di soppiatto, senza molte pubblicità. «Da allora – afferma Fiori – su Gramsci silenzio totale. E se la scuola e i mass media sono questi, può stupire la diffusione di una sottocultura che rimuove o addirittura respinge Gramsci?»[1]
Nonostante dopo gli anni Novanta sia spuntata qualche rara pellicola riguardo al comunista sardo (fra cui Gramsci 44[2], incentrato sul suo confino a Ustica), il commento di Fiori rimane ancora attuale. Proprio per questo, non va lasciata nel dimenticatoio un’opera più unica che rara qual è “Vita di Antonio Gramsci”. La serie, disponibile su Rai Play[3], si pone l’obiettivo di narrare la vita del sardo partendo dagli anni torinesi, concentrandosi specie nel periodo del Biennio Rosso, per giungere gradualmente fino al periodo carcerario e gli ultimi giorni prima della sua morte.
Il punto forte di questa produzione – senza voler ora addentrarsi in una valutazione degli aspetti prettamente cinematografici – è la capacità, sia tramite spezzoni di riprese del tempo, sia grazie ad una sceneggiatura in cui i discorsi di Gramsci riprendono suoi famosi articoli e lettere, di guardare in modo approfondito alla vita di uno dei politici più influenti del secolo scorso in Italia nonché a quel periodo di sconvolgimenti politici che è andato dalla Rivoluzione d’Ottobre, e i conseguenti moti operai in Italia, fino all’avanzamento, in Italia, del fascismo.
Specie la prima e la seconda puntata, concentrate sul periodo di militanza politica precedente all’incarcerazione, ci danno la consapevolezza di chi fosse veramente Gramsci: un grande studioso e politico, la cui riflessione teorica non era mai staccata dal lavoro militante. Come emerge chiaramente fin dai primi minuti, l’attività culturale di Gramsci – sviluppatasi a Torino specie con la rivista Ordine Nuovo – non era un gioco intellettuale a sé stante, ma un’arma politica che andava usata per diffondere una coscienza comunista fra gli operai torinesi con cui egli si trovava e discuteva, pronto a parlare al più umile di essi senza mai trattarlo in modo paternalistico, ma confrontandosi come fra pari. Contro ogni massimalismo rivoluzionario, Gramsci era consapevole che anche le occasioni più propizie erano inutili se non vi era un lavoro di crescita soggettiva fra i lavoratori, capaci di prender coscienza delle contraddizioni del capitale e dei modi per superarle. In tal senso, assume un’enorme valenza la narrazione della serrata delle fabbriche torinesi, culmine del biennio rosso, durante la quale – grazie anche allo stesso lavoro culturale promosso dall’Ordine Nuovo – gli operai avevano dimostrato capacità eccezionali di direzione autonoma delle industrie. Esemplificativo è un discorso simbolico di un operaio che, mentre si trova in un treno con dietro a sé Gramsci, Togliatti e Terracini, mostra la capacità che gli operai avevano raggiunto di non limitarsi a rivolte disordinate, ma di organizzarsi per gestire la produzione stessa:
«È difficile spiegare cosa hanno rappresentato per noi operai questi anni di lotta. Bisogna prima sapere come eravamo trattati. Penso a prima della guerra, anche prima della guerra… umiliati, disprezzati, sfruttati, accantonati… non contavamo, ecco tutto. […] A volte si usciva dalla fabbrica così, spontaneamente… eh, cosa si faceva […]. Tutto quello che incontravamo cercavamo di distruggerlo, così, come una fiammata, perché… perché, perché il fanale che rappresentava il comune era il nostro nemico; il tram era il comune, era il padrone, erano i nostri nemici, quelli che ci umiliavano e disprezzavano. Qualunque cosa si potesse distruggere, andava sempre bene. Poi, poi sono arrivati questi anni di lotta e abbiamo capito che anche noi potevamo contare. Abbiamo fatto funzionare la fabbrica da soli! Senza impiegati e senza capi. Ecco, si è capito che, singolarmente e come classe, potevamo contare molto.»
“Vita di Antonio Gramsci” non è tuttavia un’opera concentrata solo sul lato politico: soprattutto dalla seconda puntata e man mano, andando verso il finale, si conosce sempre più anche il lato sentimentale di Gramsci: la sua relazione con Giulia Schucht, nata durante il suo primo viaggio politico a Mosca; la continua ricerca di instaurare un rapporto affettivo ed educativo coi figli, anche durante il periodo carcerario (famosa, fra le ultime lettere, quella diretta a Delio sulla storia[4]); il forte legame con la madre, alla quale scrisse nel 1931: «poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli».
La serie televisiva non dimentica, inoltre, di sottolineare un elemento centrale in Gramsci. Come ben mostrano le puntate sul periodo carcerario, più di uno fra prigionieri e guardie dubitò, all’inizio, di avere davanti il famoso deputato sardo – colui che aveva avuto il coraggio, in pieno fascismo, di denunciare il carattere capitalista e sfruttatore del regime mussoliniano durante la seduta parlamentare. Sembrava strano che un uomo piccolo e gobbo come lui potesse essere quell’imponente deputato che si ergeva a nome dei poveri e degli sfruttati. Valentino Gerratana ricorda, nella prefazione ai Quaderni del carcere, come un anarchico ultraindividualista, quando gli venne presentato in carcere Gramsci in persona, disse: «Non può essere, perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo»[5].
Gramsci – e questo le puntate lo mostrano benissimo – era un uomo con tutte le sue debolezze. Gobbo e fisicamente gracile fin dall’infanzia, dovette convivere con problemi e malattie fisiche che col carcere diventarono sempre più acute; la sua adolescenza fu segnata dalla povertà e da difficoltà che lo portarono a non pochi esaurimenti nervosi; Giulia la conobbe a Mosca in una clinica, dopo che era stato ricoverato per essere crollato per l’enorme stress da lavoro degli ultimi anni; uno dei figli non lo vide mai e in carcere dovette convivere con la lontananza della propria famiglia, che gli spediva lettere di rado in certi periodi. Questo lato del comunista sardo, l’opera diretta da Majello lo mostra egregiamente e fa bene perché dà la coscienza di quanto Gramsci non sia diventato il colosso che tutti conoscono perché era invincibile, bensì lo sia diventato nonostante tutte le difficoltà che aveva in quanto essere umano con tutte le sue debolezze. Un monito a ricordarsi come tutti, anche i più grandi, non siano esseri invincibili, e come la grandezza non si riponga in virtù innate, ma nelle proprie capacità di lottare e di non rinunciare a quel che si crede, per quanto la situazione possa essere ardua.
Assume allora senso la frase scritta da Gramsci in una lettera al fratello Carlo, che potrebbe in fondo riassumere il significato della sua vita, che la serie approfondisce nelle sue quattro puntate:
«Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo.»
[1] Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, l’Unità, Roma 1991, pp. XIV-XV
[2] https://www.ramfilm.it/gramsci-44.html
[3] https://www.raiplay.it/programmi/vitadiantoniogramsci
[4] «Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti piú di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio, Antonio.»
[5] Valentino Gerratana in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, pp. XIII