Donbass: scioperano gli operai di alcune miniere della LNR
Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Fabrizio Poggi
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In Donbass continuano i martellamenti ucraini: nel mese di maggio, nella Repubblica popolare di Lugansk, si sono contati 2 morti e oltre 20 feriti sotto i colpi delle forze di Kiev. Ma non c’è solo la guerra. Anzi, le mosse ucraine dimostrano come, oltre agli interessi USA e UE, per l’accaparramento delle risorse delle regioni industriali del sudest del Paese e l’accerchiamento dei confini russi, il capitale locale continui a darsi da fare per speculare su quanto rimane delle ricchezze naturali e delle strutture industriali dell’epoca sovietica.
Capitalisti ucraini e affaristi che operano a volte con la copertura delle autorità repubblicane, e in combutta coi capitali russi, mettono sul lastrico i lavoratori locali, pur di arraffare per sé a più non posso.
Lo scorso 5 giugno gli operai della miniera “Komsomolskaja” – la più grande della regione – non lontano dalla città di Antratsit, nella Repubblica popolare di Lugansk, sono scesi di nuovo in sciopero per chiedere il pagamento dei salari di aprile e marzo, dopo lo sciopero proclamato tre mesi fa per ottenere, anche in quell’occasione, gli arretrati dei mesi precedenti. Non conosciamo la situazione delle ultime ore, ma il 7 giugno l’attivista sindacale Galina Dmitrieva riferiva che i lavoratori, alla fine del turno, si erano rifiutati di tornare in superficie e aveva parlato dell’intervento degli agenti del Ministero della sicurezza nazionale della LNR[1], che avrebbero bloccato i minatori e isolato la zona, interrompendo anche i collegamenti cellulari e i trasporti (col pretesto della quarantena per il Coronavirus) e impedendo ai familiari di portare cibo e acqua agli scioperanti. Secondo il canale NEWS.ru, i minatori protesterebbero contro “il lavoro gratuito” e la “direzione estera dell’impresa: il comportamento delle persone giuridiche che operano oggi nella regione, nei confronti degli interessi della popolazione locale”, è detto, “ricorda un atteggiamento coloniale”.
Il riferimento è, con ogni probabilità, al capitale russo che controlla quella e varie altre miniere: l’8 giugno si attendeva l’arrivo di “qualcuno dalla Russia” per trattare coi minatori.
Il fatto è che, lo scorso aprile, la direzione della “Komsomolskaja” aveva pagato solo parte degli arretrati, promettendo il saldo entro il 15 maggio: promessa rimasta sulla carta. Sembra inoltre che si voglia introdurre un sistema di pagamento che, di fatto, abbasserebbe i livelli salariali. Il co-presidente del Sindacato indipendente dei minatori, Aleksandr Vaskovskij, scriveva il 9 giugno Nakanune.ru, ha dichiarato in un video-messaggio che la situazione, per quanto riguarda pagamento dei salari e condizioni di lavoro nella Repubblica è abbastanza deprimente: in tutte le miniere della LNR ci sono arretrati non pagati di due mesi e il totale degli arretrati in LNR e DNR[2] si avvicina ai 2 miliardi di rubli. Sempre secondo NEWS.ru, sarebbe stata preparata una lista con i primi 130 scioperanti da licenziare.
Delegato a trattare coi minatori, sarebbe il direttore dell’Amministrazione industriale di stato “Oriente-carbone” (che dalla scorsa primavera amministra tutte le miniere della LNR), Vladimir Šatokhin, il quale avrebbe qualificato la miniera “Komsomolskaja” come una “zavorra”, in cui è necessario “investire molto denaro”, consigliando ai lavoratori “di pazientare ancora un po’ e promettendo il pagamento dei salari “man mano che il budget si stabilizzerà”.
NEWS.ru e Nakanune.ru scrivono di fermi di attivisti da parte della polizia a Krasnodon, Rovenki, Krasnyj luč, Belorečensk, per impedire azioni in appoggio ai minatori di Antratsit. La procura generale della LNR ha avviato un’indagine sull’attività delle varie Amministrazioni industriali di stato da cui dipendono le miniere: sarebbero già state accertate violazioni all’attuale legislazione e il giudice istruttore Irina Gubajdulina ha dichiarato che verranno adottate le relative misure nei confronti dei funzionari responsabili.
In generale, c’è da dire che le miniere che facevano parte della holding di Rinat Akhmetov (tutt’oggi, il maggiore oligarca ucraino: a marzo scorso Forbes quotava il suo patrimonio a 2,4 miliardi di $. Agli inizi della guerra in Donbass, sembrava aver preso le parti delle Repubbliche popolari: evidentemente, per tentare di non perdere le proprie aziende) dal 2017 erano state nazionalizzate e sono ora sotto il controllo della spa di tipo chiuso “Vneštorgservis”, registrata nell’Ossezia del Sud, unica entità statale a riconoscere LNR e DNR. Operando tramite “Vneštorgservis”, le persone giuridiche russe che controllano varie miniere in Donbass (anche alcune formalmente statali), evitano di cadere sotto le sanzioni USA. NEWS.ru ipotizza che dietro “Vneštorgservis”, che acquista il totale del carbone estratto in DNR e LNR, ci siano biznessmeny dell’entourage dell’ex presidente ucraino Viktor Janukovič e collega in qualche modo anche l’assassinio del leader della DNR, Aleksandr Zakharčenko, nel 2018, al suo tentativo di interrompere tale catena affaristica; un elemento in più, forse, per chiarire le mosse non del tutte chiare ai vertici della DNR seguite all’omicidio di Zakharčenko.
Dal 2014 al 2019, a causa della guerra e anche col pretesto della “non redditività”, sarebbero state chiuse dieci delle 32 miniere di Lugansk; dei circa 90.000 lavoratori occupati prima dell’aggressione ucraina, alla primavera del 2019 ne erano rimasti circa la metà, mentre al maggio scorso, secondo il capo del governo della LNR, Sergej Kozlov, il numero si sarebbe ulteriormente ridotto a 34.000.
Lo scorso aprile, il sito ROTFront aveva pubblicato un’intervista a uno dei minatori della città di Krasnyj luč, nella LNR. Oltre, ovviamente, della pericolosità del lavoro, l’operaio aveva raccontato di come, a partire dalla fine dell’Unione Sovietica, il settore fosse stato abbandonato a se stesso, senza alcune effettiva modernizzazione tecnica, permettendo anzi agli speculatori di vendersi anche le apparecchiature. Secondo l’intervistato, dopo Janukovič, molte miniere sono cadute in mano agli speculatori: alcuni arrestati, altri sono riusciti a mettersi al sicuro. Ma, in generale, sembra non ci sia particolare interessamento da parte delle autorità della Repubblica per la situazione delle miniere. Per quanto riguarda gli stipendi, Aleksandr (nome di copertura) dice: “Non so come dare una definizione dello stipendio di un minatore, quando, di fatto, non viene pagato. La media di chi scende nei pozzi a luglio 2019 andava dai 15.000 ai 25.000 rubli, con un minimo di 10.000. Ma, da luglio 2019 a marzo 2020, è stato pagato circa il 60% di quelle somme. Pagano per acconti. Per i lavoratori di superficie, lo stipendio medio non supera i 6.000-7.000 rubli, pagati più o meno con la stessa percentuale”.
Somme con cui si riesce a comprare poco, dice Aleksandr, secondo il quale anche il mancato pagamento dei salari costituisce una manovra per convincere i lavoratori ad andarsene, chiudere così le miniere e intascare i soldi dalla vendita delle apparecchiature. Inoltre, ciò favorisce la concorrenza delle imprese straniere, che possono inondare con le propria produzione i mercati ucraino e dei paesi dell’ex URSS. Alla domanda se ci siano altre prospettive di occupazione, in caso di chiusura delle miniere, Aleksandr afferma che il futuro non lascia molte speranze, se gli speculatori continueranno a vendere tutto e intascare i soldi.
Come si afferma nella stessa Lugansk, la situazione è molto complicata; “purtroppo la Russia è un paese capitalista, per di più, nello stadio del capitalismo selvaggio”.
Ma non risulta che il capitalismo “civilizzato” offra di meglio ai lavoratori.
Fabrizio Poggi
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[1] LNR: Luganskaja Narodnaja Respublika, Repubblica Popolare di Lugansk
[2] DNR: Doneckaja Narodnaja Respublika, Repubblica Popolare di Doneck