Unorthodox, di Anna Winger e Alexa Karolinski. Regia di Maria Schrader, Netflix 2020
Questa miniserie in 4 puntate, rilasciata da Netflix a marzo, potrebbe segnare un ulteriore passaggio verso la maturità della serialità televisiva. Lasciando alla stancante replicazione narrativa il ruolo minore del sottoconsumo popolare, e a questo ibrido cinematografico la ricerca più cosciente e culturalmente ambiziosa. Unorthodox si presenta infatti come film, soltanto casualmente suddiviso in quattro puntate di 55 minuti circa l’una. Eppure non è solo il minutaggio ad indicare una vicinanza al cinema: l’uso sapiente e riuscito degli spazi, privilegiando costantemente l’esterna senza ridurre questa all’aspetto “avventuroso” o “movimentato”, e anzi, ribaltando il facile schematismo seriale (ma anche cinematografico), assegnando agli ambienti chiusi i momenti salienti, e a quelli aperti i momenti di riflessione. Un capovolgimento in grado di collocare l’azione nell’intimo casalingo e claustrofobico, e la meditazione alla luce del sole. Un fatto in qualche modo originale nel racconto cinematografico attuale.
La storia merita una sinossi ragionata. Esty Shapiro è una ragazzina di diciannove anni che abita nel quartiere di Williamsburg, Brooklyn, New York. Fa parte della comunità ultra-ortodossa chassidica del quartiere, una rigida setta ebraica di matrice est-europea emigrata tra gli inizi del ‘900 e il nazismo. Williamsburg è il cuore di questa comunità che, come ogni comunità chiusa, ideologizzata e votata al rispetto del dogma (come ogni dogma, stratificato: le “leggi” della Torah vengono ulteriormente irrigidite dalle esegesi rabbiniche), si pone in lotta con il resto della società e delle sue regole, dei suoi costumi e delle sue idee. Il regime di separazione è al tempo stesso fonte di vigore della comunità stessa. Il rispetto delle asfissianti regole di vita consente alla comunità una apparente compattezza, stabilendo quei rapporti di promiscuità familista in cui a dileguare è ogni concetto di “privato”.
Per di più, il ruolo degradato della donna – incubatrice di figli e amministratrice del focolare domestico – garantisce una prolificazione degli appartenenti alla comunità, grazie all’elevata natalità interna al gruppo ortodosso. Eppure la compattezza non può che essere solo apparente.
Liberarsi dai vincoli parentali – diretti e indiretti – è un’impresa titanica, visto che la comunità è fonte di relazioni e di lavoro, di salvezza religiosa e di aiuto reciproco. L’appartenenza è dunque più subita che cosciente, e l’armonia non può dunque che essere la patina dietro cui si celano contrasti irrisolvibili.
Esty giunge dunque in età da matrimonio, ed è promessa all’altrettanto giovane Yanky, membro della comunità che conosce, ovviamente, soltanto in punto di nozze. Il legame così stabilito volge immediatamente al peggio, dato che le normali difficoltà di coppia divengono subito affare della famiglia, e poi della comunità: il confine tra privato e pubblico è dileguato e le autorità religiose decidono sui destini personali per mezzo della mediazione parentale. L’oppressione non può che portare Esty a una scelta radicale: non è più possibile una vita nella comunità, ma neanche nel quartiere, e persino a New York. Serve un nuovo inizio, lontano dalla morsa familista.
Scappa verso Berlino, in una dolorosa fuga al contrario: come i suoi parenti fuggirono dall’Europa dei Pogrom e dalla Germania nazista verso la libertà americana nella prima metà del Novecento, adesso il viaggio si compie al contrario. È l’America la terra da cui scappare, e Berlino la speranza di una nuova vita.
Una Berlino nel frattempo divenuta capitale multiculturale, espressione dei desideri e delle ansie di una generazione di giovani cosmopoliti. Qui Esty troverà non solo la sua dimensione – tentando l’ingresso alla Philarmonie data la sua passione nascosta e repressa per la musica (nella comunità, ovviamente, le donne non possono suonare, né cantare), ma riallaccerà i fili del suo passato: di qui partirono i suoi nonni, e qui vive sua madre. Ma a Berlino viene a cercarla anche suo marito, trovandosi anche lui di fronte al mondo aperto e confuso della città-mondo, esattamente ciò che non può più essere la Williamsburg ortodossa. L’intrico di contrasti personali, familiari ed esistenziali giungerà dunque al suo culmine, e comporterà per tutti una scelta di vita: la comunità o la società? Le radici o la libertà?
Il plot non supporta tesi precostituite. Ogni personaggio è dilaniato dal dubbio, a cominciare dalla giovane Esty. Non ci sono risposte semplici, e la serie le rifiuta.
L’unico momento di cedimento è nella colorazione artificiale di Berlino, terra promessa dove la propria realizzazione passa per il global english e Starbucks al servizio dello studente transnazionale o della coppia omosessuale (l’insistenza su questo tema è una chiave sintomatica, e debole, del racconto).
Una Berlino immaginaria, controcanto di una Williamsburg opprimente e autoritaria. Una Berlino che però, agli occhi di Esty, presenta anche le aporie della società individualizzata: l’assenza di regole sociali relativizza ogni comportamento, distrugge quell’etica comunitaria che pure, per la stessa protagonista, non è solamente espressione di una collettività malata. La Shoah, ovvero il passato, è ampiamente rimosso e relativizzato. Simbolicamente racchiuso nella battuta di un’amica ebrea berlinese di Esty: “dobbiamo pensare al presente”. E questo presente non sembra mostrarsi nelle forme del ricordo consapevole e metabolizzato, ma nella rimozione: non sono cose che ci interessano, dobbiamo realizzarci attraverso lo studio e il lavoro, cioè attraverso la promozione di quell’Io su cui si fonda la contrapposizione alla tradizione ortodossa. Una contrapposizione inefficace.
La forza di gravità dei due poli magnetici (famiglia e comunità da un lato, società aperta e multiculturale dall’altro) non è però simmetrica: la libertà promessa è sempre più forte di un’etica imposta, e questo deciderà le sorti della storia personale di Esty.
È dunque un pamphlet cinematografico al servizio della società aperta e multiculturale? Il racconto ha il pregio di rendere più complesso il problema, sebbene la scelta finale non possa che essere una critica dell’assurdo comunitario quando si contrappone alla società e all’individuo. L’aspirazione alla libertà e la realizzazione di questa dentro uno spazio aperto e conflittuale (conflittuale proprio perché aperto), rimane sempre più appagante che la misera conferma di sé nella propria comunità. È il mondo il palcoscenico da vivere e conquistare, non enclave auto-costruite e auto-organizzate. Eppure, per cambiare le regole di questo mondo occorrono idee forti e conseguenti. La comunità può assolvere al compito di costruirle e di difenderle. Certo la Torah non servirà alla promozione di leggi in contrapposizione essenziale con quella stessa società da cui si nasconde. Ciò non toglie che il conflitto interiore e sociale è “vero”, e lo scontro tra credenti e apostati non è destinato a mettere in crisi i soli credenti. Alla fine, dipende in ciò che si crede. Un livello questo che una serie del genere non poteva affrontare, ma che allo stesso tempo – grazie anche alla grande prova della protagonista Shira Haas – ha il coraggio di non appiattire sulle tracce di un post-moderno che, anche in un episodio culturale simile, dimostra la sua stanchezza e il suo superamento.