Dalla logistica al contrattacco di classe: intervista a un delegato SI Cobas
Il settore della logistica è investito di un ruolo di sempre maggior rilievo nel sistema economico nel quale viviamo. Oltre all’esperienza degli ultimi anni che ha provato coi fatti questa affermazione, il periodo di lockdown ha fatto emergere con maggior forza l’importanza del settore all’interno delle maglie dell’economia anche nel nostro paese. Sulla scia di questa considerazione, in seguito al recente esplodere di focolai nelle sedi bolognesi di due importanti aziende del settore, la Bartolini e la FedEx-TNT, e della mobilitazione in tutta Italia contro le scelte ingiuste proprio della TNT, abbiamo raggiunto Tiziano, sindacalista SI Cobas.
Ciao Tiziano, partiamo con delle informazioni generali: qual è la realtà della logistica in generale, e come vi muovete come SI COBAS al suo interno?
È un settore che già al 2017 presentava un fatturato generale di oltre 36,6 miliardi, con 864 milioni solo di utili, e dal 2017 ad oggi c’è stato un aumento del 30%. Si consideri che nel mese di maggio 2020 la logistica ha avuto un aumento rispetto al maggio del 2019 dell’86% con l’e-commerce e gli ordini online, un aumento quasi “miracoloso” dovuto ovviamente al lockdown. Questa esplosione del lavoro è una delle ragioni per cui nella logistica ci sono stati molti casi di COVID-19 e in particolare nella regione Emilia-Romagna in cui io personalmente intervengo. Rispetto alla sindacalizzazione direi che si tratta di un settore con un importante bisogno di sindacalizzazione. I lavoratori sono centinaia di migliaia, noi come SI Cobas abbiamo un’importante presenza con decine di migliaia di iscritti, poi ci sono anche lavoratori sindacalizzati con ADL Cobas e CGIL, anche se non so le cifre esatte. Devo dire che le lotte che stiamo facendo come SI Cobas sono in qualche modo un polo d’attrazione per gran parte della logistica, anche per quei lavoratori che oggi non sono ancora iscritti. Stiamo raccogliendo molti nuovi iscritti anche da settori non della logistica, come alcune fabbriche del nord dove non sono presenti i confederali, solo che non essendo noi firmatari dell’accordo sulla rappresentanza sindacale facciamo fatica ad andare alle trattative, molte aziende rifiutano le nostre richieste d’incontro. Chiaro quindi che dove tu rappresenti il 90% dei lavoratori il diritto di sederti al tavolo te lo conquisti, laddove invece stai ancora gettando le basi fai più fatica ad andare alla contrattazione e in alcuni settori questo impedisce di crescere.
Ripercorriamo gli avvenimenti del COVID: che effetti ha avuto sul settore della logistica e soprattutto sui suoi lavoratori?
Bisogna prima di tutto tener conto che nella prima fase circa il 55% delle aziende ha continuato a lavorare, e subito dopo nella fase due 180.000 aziende hanno cambiato il codice Ateco per riprendere l’attività. Ancora dopo si è deciso che bastasse una semplice autocertificazione che veniva spedita alle prefetture, che non hanno mai verificato la veridicità o meno delle stesse. Questi fattori hanno comportato che la circolazione delle merci rimanesse immutata e che a ciò si andasse ad aggiungere il carico di lavoro derivante dalla crescita dell’e-commerce. C’è stato, se possibile, un tentativo di comprimere ulteriormente i tempi di lavoro. Di fronte al fatto che il carico nei magazzini è aumentato hanno da un lato chiesto ai lavoratori di lavorare ancor di più e in condizioni peggiori, dall’altro intensificato il ricorso ai subappalti, prendendo lavoratori non solo interinali ma anche dai centri d’accoglienza o richiedenti asilo, lavoratori iper-sfruttati che se rifiutassero verrebbero espulsi. Noi, appena ci siamo resi conto della pericolosità della pandemia, abbiamo in alcuni giorni fatto una serie di riunioni per decidere il da farsi insieme anche all’ADL Cobas, e abbiamo chiamato i nostri lavoratori all’astensione dal lavoro. Abbiamo spiegato che quella non era una normale trattativa sindacale, una normale contrattazione o la presentazione di una piattaforma dopo la quale si iniziano gli scioperi. Trattando quella materia, al centro era la loro salute, la loro vita. La risposta è stata più che positiva anche se a volte non è scontato far passare temi come la non monetizzazione della salute e della sicurezza. La questione è stata importante perché ci ha permesso non soltanto di mettere al centro la salute, e quindi la vita dei lavoratori, ma ha permesso e ci permette anche di entrare specificamente nella contestazione dell’organizzazione del lavoro, e quindi della necessità di ridurre l’orario, della necessità di mettere in contrapposizione i tempi di vita coi tempi di lavoro e fare così un salto di qualità. Abbiamo lottato per ottenere dei protocolli per far lavorare i lavoratori con meno incertezze perché le mascherine, la sanificazione sono uno strumento che deve essere abbinato ad una organizzazione e svolgimento del lavoro che siano in linea con il diritto alla sicurezza dei lavoratori. In questo senso, ad esempio, abbiamo successivamente insistito su alcune proposte come aumento delle pause e dei loro tempi.
Spesso si sente dire che il sistema degli appalti e la somministrazione di lavoro siano uno strumento con cui si eludono obblighi di sicurezza in capo alle aziende e che permettano livelli di sfruttamento tali da abbinare ai maggior profitti per i padroni livelli di sicurezza sempre più bassi per i lavoratori. Qual è l’idea che ti sei fatto con la tua esperienza sindacale non solo recente?
Devo dire che sia la dinamica degli appalti che quella della somministrazione di lavoro hanno gli effetti che citavi e che assieme alla frammentazione contrattuale dei lavoratori sono i principali strumenti usati dalle aziende. Si tratta di una vera e propria catena criminale, fatta da committente, appalto, e subappalto, dove non soltanto ci sono pessime condizioni di lavoro ma anche possibilità di infiltrazione per gli affari delle varie mafie, come la Ndrangheta. Il committente si rivolge ad una società, prevalentemente società SRL, prima invece erano cooperative allo scopo di risparmiare. Non si tratta mai di società serie, spariscono quasi sempre nel giro di due anni, facendo perdere ai lavoratori il TFR o lasciandoli con contributi non pagati, a tutto vantaggio di committenti e appaltatori. Quando aumentano le richieste, si rivolgono alle agenzie interinali, o ai centri d’accoglienza, come ha fatto ad esempio la Bartolini, oppure ai richiedenti asilo. Prendono lavoratori che già vivono condizioni precarie, quindi più facilmente ricattabili, e li pagano pochissimo. Questa è l’esemplificazione della criminalità di questa modalità, tanto che in Germania dopo che son scoppiati i focolai nei macelli hanno messo i subappalti fuorilegge, mentre da noi sono la normalità. Spesso ci troviamo di fronte a lavoratori di una cooperativa che invece prendono ordini dal committente, che li fa lavorare, decide quando vanno in ferie, gli fa il diario giornaliero del lavoro, e così via, però vengono pagati come fossero dipendenti della cooperativa, con un altro tipo di contratto e quindi molto meno di quel che dovrebbero. Se si va a vedere la storia anche recente della logistica poi, grandi gruppi e consorzi sono stati chiusi perché trovati con le mani in pasta, perché legati a camorra, ndrangheta, e questo su tutto il territorio nazionale.
Avvicinandoci a Bologna e ai fatti di cronaca più recente, qual è la situazione dei magazzini in città?
A Bologna soltanto all’interporto, nella logistica ci sono tra i 15.000 e i 20.000 lavoratori, di cui circa 6.000 iscritti al nostro sindacato, ovviamente qui ci sono anche tutti i padroni più importanti, TNT, UPS, DHL, Bartolini, Geodis ed altri. Si può dire che abbiamo una riproduzione in scala di ciò che vi è sul territorio nazionale. Pensando poi in termini di regione, si consideri che l’Emilia-Romagna con l’interporto bolognese, quello parmigiano e quello di Piacenza ospita dei poli che sono delle vere cittadelle della logistica, con una valenza strategica per il territorio nazionale. Se blocchiamo l’Interporto, in particolare a Bologna, tagliamo a metà l’Italia impedendo alle merci di spostarsi tra nord e sud. Il nostro sindacato ottiene dei risultati perché ha una modalità di conflitto che produce danni, che è esattamente ciò che si deve fare quando si affrontano giganti di quelle dimensioni.
Nello specifico alla Bartolini (BRT) qual è stata la situazione e come vi siete mossi?
Il 14 giugno ci chiamano i lavoratori, ci dicono che ci sono alcuni casi di COVID e noi chiediamo immediatamente la chiusura dell’azienda, anche perché nel frattempo i casi diventano 5, 10, 17 e poi 119, un focolaio di una certa dimensione. Vengono fatti due scioperi, noi prepariamo una PEC in cui chiediamo la chiusura dell’azienda e la inviamo all’azienda, alla ASL e alla prefettura. L’azienda dice che sono sufficienti le misure prese per essere conforme ai protocolli, l’ASL che non ci sono i presupposti per chiudere fintanto che l’azienda è in regola e la prefettura non risponde perché la prefettura non risponde mai. A quel punto il 18 giugno i lavoratori per tutelarsi decidono di andare a casa e mettersi autonomamente in quarantena, e nel pomeriggio l’azienda chiude per tre ore. In quelle tre ore l’azienda dice di aver sanificato il capannone, che è grande come una piccola città. Dopodiché chiamano una trentina di lavoratori in subappalto, qualcuno dal centro d’accoglienza in via Mattei, qualcuno dai richiedenti asilo qualcun’altro dalle agenzie interinali. Mentre i nostri lavoratori sono tutti in quarantena quindi la Bartolini riprende a lavorare, e li noi iniziamo a porre questioni, non solo da un punto di vista dell’attuazione dei protocolli. Bisogna aver chiara la situazione alla Bartolini: ci sono circa centotrenta lavoratori, facchini, settanta driver e poi i lavoratori in subappalto, che alle 19:30 al cambio turno i lavoratori vengono a contatto tra di loro, in spogliatoio e poi in mensa dove mangiano tutti assieme. Duecento lavoratori utilizzano una decina di bagni, e lì chiaramente il virus si può diffondere. Inoltre, siamo in estate, e i capannoni non sono aerati, dentro ci sono circa 45 gradi, i lavoratori con la mascherina fanno fatica a respirare. Lì noi abbiamo chiesto l’applicazione delle richieste che già avevamo fatto: nella fase 1 e all’inizio della fase 2 Bartolini era stata l’ultima azienda ad accettarle, e poi non le aveva neanche messe in pratica, quindi hanno una doppia responsabilità da questo punto di vista. La cosa nel frattempo diventa nazionale, arrivano le televisioni, i giornalisti dandoci opportunità di mettere in discussione non soltanto le modalità di lavoro ma anche questa gara tra regioni nel riaprire il prima possibile in cui l’Emilia-Romagna si è fatta trovare subito pronta, senza neanche verificare che ci fossero le condizioni per poter lavorare nella logistica. Una responsabilità ancora maggior se si pensa che l’assessore alle attività produttive della regione, Vincenzo Colla, è stato anche il competitor di Maurizio Landini alla segreteria della CGIL, quindi non poteva non sapere quali fossero le condizioni di lavoro nella logistica, in caso contrario avrebbe dovuto fare un altro lavoro, invece che il sindacalista per trent’anni. Insomma, il focolaio alla Bartolini è stato il punto terminale di una serie di decisioni, istituzionali e padronali, che si riflettono poi sempre sulla pelle dei lavoratori. Questo è tanto più vero se si pensa che non siamo di fronte ad un caso isolato ma che altri focolai sono scoppiati nello stesso periodo alla TNT e poi con casi numericamente meno importanti all’SDA, alla Palletways, alla Geodis e alla Torello.
Sempre in riferimento a contesti di conflitto che state portando avanti in questi giorni, parliamo invece degli scioperi alla Fedex-TNT. Cosa è successo a Pescheria Borromeo e da lì in poi?
A Pescheria Borromeo 66 lavoratori interinali iscritti al SI Cobas avevano un accordo sindacale che prevedeva l’assunzione a tempo indeterminato. Con la scusa delle merci essenziali sono stati spremuti come limoni durante il lockdown e, finito questo, l’azienda non solo si è rifiutata di assumerli come da accordo ma ha addirittura deciso di licenziarli. Peraltro, il divieto di licenziamento tanto sbandierato dalle istituzioni è stato uno specchietto per le allodole, perché i licenziamenti “per giusta causa” erano consentiti, e in molti settori si è visto bene, del resto c’è stato un calo del lavoro del 40% e Confindustria prevede due milioni di disoccupati in più rispetto alla crisi 2008. Il COVID diventa per i padroni anche una scusa per riorganizzare le aziende e far quello che vogliono: un esempio nella logistica è proprio quello che è successo alla TNT di Peschiera Borromeo. Infatti c’era un accordo e hanno fatto retromarcia. È stato un tentativo della proprietà di FedEx di ripristinare le condizioni antecedenti, ovvero non solo di poter decidere dei tempi di lavoro ma anche dei tempi di vita dei lavoratori. Il tentativo è quello di riportare la situazione indietro di vent’anni, attraverso l’uso della giustizia, della polizia, denunce, fermi e manganelli. Quello che abbiamo portato avanti presso i lavoratori e su cui abbiamo avuto una buona risposta è che aziende come TNT, BRT, UPS sono multinazionali e per opporsi a decisione ingiuste serve una risposta di tutti i lavoratori. Non è più possibile pensare di vincere una battaglia bloccando un magazzino, oggi la battaglia è generale e quindi tutti i lavoratori devono scioperare com’è appunto successo per la FedEx-TNT. Considerandola una vertenza che parla a tutto il mondo del lavoro anche al di fuori della logistica, abbiamo deciso di fare uno sciopero in tutta la filiera, in tutta l’Italia non solo per l’assunzione di questi lavoratori, ma anche per cercare di impedire alla TNT di far tornare i lavoratori al passato, un passato che avrebbe significato perdere i diritti, perdere la dignità. Davanti all’opposizione dei lavoratori hanno quindi chiamato prima la polizia, poi i carabinieri, infine l’esercito e adesso addirittura le guardie private coi taser. Difatti il 23 luglio notte c’è stato il tentativo di utilizzare il taser contro i lavoratori e tutti quelli che erano lì solidali. Sulla presenza di persone che ci sostengono in questi momenti vorrei insistere perché credo che, fra le altre, la vicenda della TNT sia emblematica di una saldatura fra lavoratori sindacalizzati, i lavoratori della logistica in generale, e tutti i compagni e compagne che fanno parte del Fronte della Gioventù Comunista e le forze che stanno costruendo con noi la prospettiva di un fronte anticapitalista. Quello che sta succedendo alla TNT-FedEx non riguarda solo i suoi lavoratori, e chi pensa il contrario non ha capito niente, se la battaglia sarà vinta dalla FedEx sarà un problema per tutti, non solo nella logistica. Se invece questa diventa una lotta generalizzata, è chiaro che è un punto in più che portiamo tutti a casa. Non soltanto perché è da marzo aprile che i lavoratori sono in sciopero, ed è un tempo davvero lungo, ma anche perché nonostante siano stati picchiati, manganellati, gliene hanno fatte di ogni e nonostante questo il giorno dopo erano regolarmente in tanti di nuovo lì davanti al magazzino. Significa che c’è una nuova coscienza di classe, che va esercitata e sottolineata come elemento fondamentale di un percorso che riguarda tutti quanti.
È questa, quindi, la vostra prospettiva a partire dalla situazione che ci hai descritto e dalle lotte che portate avanti?
Il dato da cui noi partiamo è che come SI Cobas sappiamo di non essere autosufficienti. L’idea dell’autosufficienza e dell’autorappresentazione sono uno dei mali che stanno attraversando sia la sinistra che i sindacati conflittuali. Serve una discussione certamente approfondita, anche solo perché è cambiata la fase con la pandemia, è emersa una forte crisi del sistema che veniva descritto come “il migliore possibile”. Questi sono elementi che devono farci riflettere, farci uscire dalla logica con cui si è mossa la sinistra, quella dell’ognuno per sé, della sinistra del meno peggio, dove ognuno pensava di essere il depositario della verità.
Quindi ci siamo messi a disposizione per cominciare un percorso in cui, concentrandoci su obiettivi comuni e su prospettive condivise, si possa dare una risposta di classe all’offensiva dei padroni assieme alle forze sindacali e politiche che decidono di partecipare.
Si tratta di un passaggio in cui ci si sforza di costruire rapporti e legami anche se spesso questo nel mondo sindacale ad esempio è stato tutt’altro che scontato. Non si rinuncia alla propria autonomia o identità ma si inizia assieme un percorso che lanci non solo una risposta di difesa dei diritti che vedremo contrarsi con l’esplodere della crisi in autunno ma che si ponga anche obiettivi di contrattacco. Una tappa di questo percorso sono state le assemblee dell’11 e del 12 luglio scorsi nelle quali abbiamo cominciato a porre delle basi sottolineando come il percorso e gli attori in esso siano qualcosa di aperto al quale hanno preso parte anche singoli delegati combattivi di specifici luoghi di lavoro. Un percorso aperto a patto, naturalmente, di tenere la barra su alcune questioni dirimenti come l’abbandono di logiche di compatibilità col sistema in cui viviamo o l’opposizione alla logica della “responsabilità” con cui le dirigenze dei sindacati confederali nascondono la volontà di fare accordi al ribasso sulla pelle dei lavoratori. Con questa consapevolezza direi che la sfida che abbiamo davanti sia introdurre non solo proposte ma azioni, visto che la nostra controparte, ovvero Confindustria, già si sta muovendo con forza. In quest’ottica è importante l’assemblea nazionale dei lavoratori combattivi che si terrà nella giornata di sabato 26 settembre, con l’obiettivo di aprire una vera agenda di lotta per il prossimo autunno.
Intervista a cura di Federico Morichetti