Gli anni ’70 fra conquiste inaudite e speranze infrante: “Gli invisibili” di Nanni Balestrini
Se permane ancora forte, seppur molto spesso nebuloso, il ricordo degli avvenimenti del ’68, le lotte degli anni ’70, culminate nel Movimento del ’77, sono qualcosa molto spesso lasciato in sordina, per quanto si tratti di un periodo durante il quale si è vista una forte sperimentazione politica tesa alla ricerca di un superamento di una realtà sociale sentita come asfittica. Proprio per questo, Gli invisibili di Nanni Balestrini – l’opera dell’autore probabilmente più conosciuta – assume particolare valore, grazie alla sua capacità di offrire uno spaccato delle lotte di quegli anni grazie ad una scrittura avanguardista, tesa alla ricerca di una rottura con la tradizione nella sua totale rinuncia della sintassi. Si tratta di un romanzo che percorre gli avvenimenti del periodo visti dagli occhi del protagonista, il cui labile approfondimento psicologico serve a renderlo un soggetto collettivo, nel quale possono riconoscersi tutte quelle persone che hanno più o meno vissuto le lotte di quegli anni, tanto nel mondo studentesco quanto in quello del lavoro o carcerario. Come lui, anche gli altri personaggi vengono delineati più dalle loro azioni che non da una forte analisi della loro psiche, con gli stessi nomi che vogliono evitare una loro forte individualizzazione, rimarcando il valore di questi come esponenti di un’esperienza collettiva – non è un caso se i “compagni” di lotta abbiano tutti nomi «di piante medicinali, di piante buone», mentre gli antagonisti, quali i magistrati o i poliziotti, «hanno nomi di animali un po’ rapaci, un po’ feroci», come detto dallo stesso Balestrini[1].
Le vicende vengono sviluppate su due piani narrativi: in uno, il protagonista si ritrova in carcere e vive le lotte interne fra carcerati e guardie; nell’altro, tramite flashback che interrompono la prima linea narrativa, si rivive il suo periodo militante fra le lotte del movimento studentesco prima e operaio poi, con il loro rifiuto di una società omologante e di un lavoro sentito come estraneo.
Ciò che si esprime con forza nell’opera, tramite lo scorrere degli eventi e degli anni del protagonista, è la forza collettiva dirompente dell’epoca, capace di mettere in crisi un sistema d’autorità e una società classista sentita come opprimente e inaccettabile.
La ricerca di metodi nuovi e sperimentali di lotta si rivela allora essere il tentativo di trovare un’alternativa ad un vivere sentito come estraneo, tanto nella scuola – tramite mobilitazioni studentesche e “cortei interni” ad essa che permettono di piegare l’autorità del preside e di ottenere un potere inaudito fra diritti d’assemblea e controllo sulle lezioni[2] – quanto nella fabbrica – grazie a scioperi il cui livello di forza è tale da obbligare i padroni ad abbassare le loro pretese e i crumiri ad aggiungersi allo sciopero o perlomeno abbandonare il luogo di lavoro[3]. Il delinearsi concreto di uno scontro fra oppressi e oppressori non manca neppure nella narrazione carceraria, nel quale si evidenziano dei rapporti di forza fra guardie e carcerati che in determinati momenti sono a favore dei secondi, obbligando il direttore del carcere a concedere, pur di evitare una rischiosa rivolta, concessioni non da poco, quali maggiori libertà su che tenere nelle celle, più ore d’aria, più colloqui al mese e un minore potere delle guardie stesse sul controllo dei prigionieri, sia comuni che politici[4]. Conquiste dovute alle lotte interne al carcere, nelle quali i prigionieri politici avevano il loro peso grazie alla capacità di organizzare e capire come muoversi per conquistare determinati diritti e libertà.
Se da un lato viene evidenziata la capacità di lotta e di organizzazione collettiva, grazie alle quali la forza d’azione si rivelava imponente[5], dall’altro il romanzo evidenzia come si tratti di un periodo anche di confusione, durante il quale si presentano problematiche nuove – fra le tante, l’insorgere del separatismo femminista[6] in risposta ad un maschilismo e un sistema patriarcale non mancante negli ambienti di sinistra –, ma soprattutto nel quale si evidenziano dubbi, mancate risposte e l’incessante ricerca su come effettivamente coordinare le lotte, come fare in modo da non rendere inefficace la forza collettiva che si era creata. È negli stessi eventi narrati che si sottolinea questa contraddizione fra l’enorme movimento creatosi e la mancanza parziale di una direzione che superi le lotte immediate: si pensi all’esempio del controllo della scuola da parte degli studenti, che si era ridotto ad un drastico rifiuto dei professori e alla stessa vendita delle attrezzature dei laboratori, al punto che «la scuola era ormai diventata uno spazio vuoto anche d’interessi completamente estraneo da cui a un certo punto ci siamo resi conto che bisognava uscire»[7]; oppure ai dubbi su come proseguire la lotta politica, che porta il gruppo di compagni attorno al protagonista a dividersi fra chi era intenzionato a intraprendere la lotta armata e chi puntava a proseguire secondo la linea dettata del movimento.
Sono dubbi e contraddizioni che si scontrano con l’arma poliziesca della repressione, un elemento che percorre con forza tutto il romanzo, ma soprattutto la seconda parte di esso. Repressione che viene evidenziata soprattutto nel periodo carcerario, dove un passo troppo avanti dei carcerati, che riescono a sequestrare 19 guardie e trattare per un periodo con la polizia, si infrange contro la brutalità dei carabinieri prima – che irrompono lanciando bombe nei corridoi della prigione e sparando ad altezza uomo, ferendo pure una guardia – e delle guardie poi – che picchiano selvaggiamente un prigioniero alla volta, lasciandone solo tre capaci di reggersi in piedi alla fine dei pestaggi.
Una repressione che ha ripercussioni profonde nel movimento di lotta, portandolo alla crisi e all’incapacità di trovare un modo d’agire che risulti ancora efficace come prima, perdendo così quel rapporto di forza favorevole rispetto ai padroni:
« dovevamo renderci conto di come le cose erano cambiate fuori adesso e che non ci immaginavamo come le cose erano diventate diverse fuori come tutto fuori era cambiato l’aria l’atmosfera il clima i discorsi la gente non dovevamo pensare che le cose erano rimaste come prima adesso la grande paura era passata i padroni erano di nuovo sicuri di sé erano tornati a sfoggiare loro i soldi le loro Rolls Royce per le strade le loro pellicce i loro gioielli alla Scala e adesso tutta la gente e anche tanti di quel compagni pensavano solo a lavorare a fare i soldi a dimenticare tutto quello che era successo prima quando si credeva che tutto forse stava per cambiare »[8]
Estremamente significativo è il finale dell’opera, col protagonista che amaramente evidenzia la stessa difficoltà di capire come proseguire le lotte in carcere, di fronte ad un sistema carcerario ora più sofisticato e repressivo, nonché un gruppo di prigionieri non più solidali e compatti fra loro, a causa anche dell’esperienza dei pentiti che hanno creato non pochi dissapori e dubbi su chi fidarsi. Il finale con le fiaccole accese dai prigionieri all’unisono fuori dalle proprie finestre, in segno di protesta, in un carcere disperso nella campagna e visibile solo da qualche sparuto automobilista di passaggio, diventa praticamente la metafora di un movimento che, arrivato al suo culmine, non ha saputo come concretamente proseguire e concretizzare le lotte in un’alternativa ad un sistema oppressivo e alienante tanto in carcere quanto fuori da esso[9], diventando così invisibile alla società nel suo complesso. L’opera di Balestrini dà così visibilità a delle vicende spesso dimenticate, piene di spunti e su cui va fatta una riflessione critica, tanto per capire le grandi conquiste e lotte dell’epoca quanto i limiti che hanno decretato il fallimento di un tentativo di rovesciare la società borghese.
Francesco Pietrobelli
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[1] https://www.youtube.com/watch?v=2TuUCVP90wo&list=PLoyeQbSxPbaiBb81Y63RMDd8FiwONVtPh.
[2] Nanni Balestrini, Gli invisibili, DeriveApprodi, Roma 2019, capitolo 2.
[3] Ivi, capitolo 29.
[4] Ivi, capitolo 7.
[5] Interessanti alcuni esempi nel capitolo 26, quali il metodo di andare in massa al cinema o nei trasporti pubblici, pagando poi una cifra minore e ritenuta giusta rispetto ai prezzi stabiliti ufficialmente.
[6] Ivi, capitolo 30.
[7] Ivi, capitolo 26.
[8] Ivi, capitolo 48.
[9] Ibidem.