Sul concetto di “nazionale-popolare” nelle attuali forme della cultura di massa
«Sommamente ridicola la fiducia riposta in noi [poeti] dal volgo, temeraria e indifendibile l’impresa di educare il popolo e la gioventù per mezzo dell’arte. Come potrebbe infatti fungere da educatore colui che irrimediabilmente e per sua propria natura è spinto verso l’abisso? È vero che vorremmo rinnegarlo, che vorremmo acquistare dignità; ma ovunque dirigiamo i nostri passi, l’abisso ci attrae. Così avviene che noi rinunciamo alla conoscenza che disgrega: poiché, mio Fedro, la conoscenza non possiede dignità né rigore; è consapevole, comprensiva, indulgente, priva di tenuta e di forma; ha simpatia per l’abisso, è l’abisso medesimo»
Thomas Mann, La morte a Venezia
Arte e politica non sono mai andate d’accordo, ma i consumi (e i costumi) culturali dei tempi che corrono invitano ad aggiornare una riflessione necessaria anche se non sentita come tale. Ci invita e anzi ci costringe un duplice movimento che stritola – di fatto è così – ogni discorso critico: da un lato, cent’anni dopo la riproducibilità benjaminiana, ci troviamo immersi in un bombardamento culturale continuo e inarrestabile, che ci invita, tramite i suoi supporti, i suoi dispositivi, la sua velocità e disintermediazione, a consumare costantemente e irriflessivamente “cultura”, sia essa visuale (cinema e serie tv, web series e televisione), che musicale (dai talent a Spotify) che “museale” (la mostra d’arte come “evento”, e come evento “furbo”, subito apprezzato dal grande pubblico in quanto scorciatoia educativa); dall’altro, il consumo così recepito viene sempre meno pensato, sottomesso a critica e valutato nelle sue potenzialità (che pure potrebbero esserci) e nei suoi problemi (evidenti e, proprio perché tali, subito accantonati).
L’irruzione della massificazione culturale, situata nel nostro paese nei primi anni Sessanta come conseguenza del boom economico, generò un feroce dibattito che incrinò le granitiche certezze dei ceti intellettuali nazionali. Ceti intellettuali, occorre opportunamente ricordare, apparentati molto oltre le forti divisioni politiche dell’Italia di allora. Lo storicismo crociano, il magistero classico istituito dalla direzione gentiliana, il ruolo di primus inter pares del letterato come interprete e traduttore della cultura nazionale, la nota e abusata continuità ideale (idealistica) tra Vico e De Sanctis, Labriola e Croce, terminata e “realizzata” infine in Gramsci: questo e altro ancora univa gli intellettuali italiani nati tra il ‘900 e gli anni Venti in un percorso culturale affine, sopraffatto dalla guerra e scomposto dalla Resistenza, ma saldo nella sua visione di fondo delle cose culturali.
E furono proprio i comunisti, ovvero la galassia intellettuale gravitante attorno al Pci, che ragionarono con maggiore profondità sulle trasformazioni dei consumi culturali – che inevitabilmente si riflettevano non solo sul modo di consumare, ma anche su quello di produrre cultura; in qualche modo costretti a ragionare, perché tali trasformazioni modificavano, e infine terremotavano, consuetudini acquisite, con annessi ruoli sociali e privilegi materiali tipici di una élite dalla tradizione oramai traballante.
Come poteva resistere il potere di mediazione dell’intellettuale letterato, cioè colui che giudicava e decideva cosa poteva e cosa non poteva definirsi “cultura”, di fronte a un’industria culturale che generava diversi approcci, differenti fruizioni, libere di accedere ad un prodotto pensato sempre più, per l’appunto, come “prodotto”, come merce particolare, e in ultimo: quanto “particolare”, in fondo? Dove segnare il confine, il limite, tra uso consapevole e svago inconsapevole, tra ricezione partecipata e assimilazione incosciente?
Ebbene, il dibattito fu lungo e feroce. Non è nostra intenzione rievocarlo compiutamente, quanto individuare in quel torno di tempo l’attimo in cui le riflessioni gramsciane sulla cultura vengono sottoposte al fuoco incrociato delle contraddizioni e delle aporie apertesi con la massificazione culturale, con il suo processo di industrializzazione, la sua riproducibilità tecnica, il progressivo circuito di svilimento e rilancio di specifici linguaggi artistici. L’epoca, cioè, in cui determinate forme culturali (il romanzo, la poesia, la musica colta, la rappresentazione pittorica, il teatro), in crisi da tempo, trovano definitiva frantumazione, per rilanciarsi attraverso vie impervie e originali, ma declinanti. L’epoca d’oro di taluni linguaggi artistici era alle spalle, e con essi a digradare appariva esattamente la figura preposta alla loro traduzione e assimilazione sociale: l’intellettuale. Intellettuale non tanto come figura specifica, ma come momento specifico di collegamento tra cultura e popolo, tra letterato e lettori. Incrinata l’autorità di tale momento introduttivo la ricezione culturale veniva anch’essa in qualche modo sconvolta. Se, nell’Italia pre-moderna e pre-industriale (ma tale discorso non vale solo per l’Italia ovviamente), il produttore e il consumatore di alta cultura tendevano a coincidere, nel paese vorticosamente modernizzato dei Sessanta (e complice ovviamente la scolarizzazione di massa) ciascuno poteva (e doveva) consumare la propria porzione di cultura autonomamente, sempre meno “introdotto” e sempre più costretto, dalla moltiplicazione dei messaggi culturali dati dall’industria dell’intrattenimento di massa, a subire passivamente l’universo di simboli e motivi inerenti alla sfera del culturale.
E dunque: cultura di massa e massificazione culturale; cultura popolare e popolaresca; cultura generale e cultura nazionale; il “nazional-popolare” come sinonimo di una cultura finalmente non – e anti – elitaria: dove situare il confine, anzi, i diversi confini, tra queste diverse accezioni della cultura?
Come riconoscere un fatto culturale da un altro, come valutarlo, eroso il potere di mediazione di un ceto, dalla fisionomia di vera e propria casta, intellettuale-letterato sempre meno in grado di orientare giudizi e opinioni, finalmente slegate dagli stringenti vincoli della conoscenza specifica? Di qui il groviglio di contraddizioni che ancora oggi influiscono sulla ricezione della cultura, sulla sua valutazione, e di conseguenza sulla sua produzione. Non per caso il problema attanagliò in particolare i comunisti e lasciò tutto sommato indifferenti cattolici e liberali. La trasformazione culturale dei Sessanta portava con sé anche una democratizzazione reale, un’apertura della cultura a fasce di popolazione fino a quel tempo escluse. Democratizzazione e svilimento andavano però di pari passo, e stabilire il grado di sostenibilità di tale processo costrinse la cultura marxista ad interrogarsi, anche su se stessa. Tanti “letterati marxisti” erano stati, fino al ’43, letterati fascisti ma, più di questo, letterati crociani. Occorreva fare i conti con la propria origine e la propria funzione sociale.
Il sostanziale fallimento di un punto d’equilibrio ha prodotto l’affermarsi di una vera e propria mitologia attorno a parole e concetti usati per legittimare un certo consumo culturale, ma che in realtà hanno perso qualsiasi rapporto con i significati originari. Un caso su tutti è quello del “nazionale-popolare”, concetto tra i più deformati del pensiero gramsciano, utilizzato infine oggi per giustificare qualsiasi operazione sotto-culturale presentata e validata in quanto “popolare”, “anti-elitaria” e quindi “democratica”, interclassista e pacificante. Erano “nazional-popolari” Fantozzi e la “commedia all’italiana”, Sanremo, Domenica In e Striscia la notizia, e poi (ovviamente) Romanzo criminale o Gomorra, La casa di carta o Rino Gaetano. Qualsiasi operazione di costruzione culturale massificata divenne, per ciò stesso, “nazional-popolare”, in quanto apprezzata e consumata da chiunque, finalmente accessibile senza più quelle mediazioni necessarie che decidevano cosa poteva e cosa non poteva trovare spazio nella cultura del paese. La cultura di massa come rifiuto della cultura “alta”; come punto d’incontro tra “alto” e “basso”; infine, come giustificazione del “basso” in quanto democratico e comprensibile “alle masse”. Occorre allora, e ancora, riferirci brevemente al senso gramsciano del concetto, per poi chiederci: è possibile, oggi, una cultura popolare e nazionale insieme? La sotto-cultura odierna ha qualcosa a che fare, anche solo tangenzialmente, con ciò che Gramsci intendeva o si disperava di reclamare?
Come doverosa premessa, va intanto detto che Gramsci – nelle sue riflessioni sul “nazionale-popolare” – non si riferiva alla cultura in quanto tale, al senso sociologico-antropologico del termine, o all’ampio spettro di linguaggi culturali che dimoravano l’Ottocento europeo. Gramsci si riferiva alla cultura letteraria, e in particolare al romanzo: è questa mancanza ad essere rilevata nel discorso gramsciano. Il romanzo in quanto espressione compiuta dell’autocoscienza ideale della borghesia, operazione riuscita in Francia, in Russia e in Inghilterra ma mancata in Italia (per alcuni versi anche in Germania, sostituita in parte dalla cultura musicale), per specifici motivi. Il carattere non-nazionale e non-popolare della nostra letteratura, cosmopolita ed elitaria, risiedeva proprio nel distacco storico tra intellettuali-letterati e popolo, nella mancata elaborazione e traduzione dei sentimenti popolari in cultura “alta”, nella sua astrazione idealistica e nella sua tradizione libresca. La mancata ambizione della borghesia nazionale, ridotta in stato di minorità culturale dalle sue stesse caratteristiche socio-economiche, aveva impedito in Italia lo svilupparsi di una autocoscienza in grado di interpretare i voleri e le aspirazioni di tutta la società, non solo dei suoi ceti colti e privilegiati. In assenza di ciò, gli interessi popolari premiavano quella letteratura che veniva sentita come nazionale e popolare insieme (Dumas e Balzac, Hugo e Zola, Dostoevskij e Tolstoj, Dickens ecc) ma di altre nazioni e di altri popoli.
E l’esempio massimo di letteratura nazionale, il Manzoni, trovava in Gramsci un duro (e giusto, a nostro modo di vedere) giudizio critico volto a svelare il carattere «aristocratico» del cattolicesimo manzoniano, inteso come «compatimento» delle figure subalterne incapaci di incarnare valori sociali e culturali autonomi e alternativi alle classi possidenti, incapaci di «vita interiore» e oggetto, al più, di «benevolenza», di «compassione». La liberazione del popolo è affare, anche per il Manzoni, della “nobiltà illuminata” (illuminata dal cristianesimo per giunta: valga per tutti la figura del Federigo Borromeo).
Se questo, a grandi e inevitabilmente schematiche linee, è il senso del concetto di “nazionale-popolare” in Gramsci, subito saltano agli occhi alcuni caratteri determinanti: in primo luogo, la centralità della letteratura, e del romanzo, come sintesi e apogeo artistico dell’autocoscienza borghese del XIX secolo. Di conseguenza, non ogni espressione artistica può essere “nazionale-popolare”, se non in senso lato, ma solo quella particolare forma in grado di unificare in sé una cultura nazionale. Un discorso replicabile, forse, per il Cinema della prima metà del Novecento, ma oggi? In secondo luogo, per darsi, una cultura propriamente “nazionale” non può prescindere da una classe anch’essa eminentemente “nazionale”, in grado di esprimere i voleri e i valori ideali della nazione stessa, intesa come comunità culturale ma anche politica. Questo ruolo, detenuto dalla borghesia europea tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, può ancora essere pensato nel XX secolo della Rivoluzione e delle guerre mondiali, dell’imperialismo e dello scontro politico-sociale? La costruzione dell’autonomia politica del proletariato, percorso di emancipazione culminato nella rivoluzione d’Ottobre e declinato con la fine del socialismo reale, ha comportato anche la costruzione di una sua autonomia culturale. Una volta raggiunta tale autonomia, era possibile delegarla ai valori della classe avversa? Con ogni evidenza non era possibile.
L’unità stilistica e la compattezza narrativa del romanzo dell’Ottocento viene meno perché a prosciugarsi non è la vena creativa o la capacità narrativa degli autori del Novecento, invero straordinaria, ma perché crollano le condizioni e le convinzioni che rendevano possibile quell’unità. La decadenza, le avanguardie, le sperimentazioni e i vari e declinanti “ritorni all’ordine” altro non sono che la presa di coscienza di questo impossibile nostos, a cui rispondere con insolenza, creatività o, per l’appunto, nostalgia.
Il “nazionale-popolare”, nel Novecento, è allora inevitabilmente altro dal suo modello ottocentesco. Non è più delegato e delegabile alla cerchia dei letterati borghesi, ma esprime i valori di un’altra classe che si pone come pienamente “nazionale”, il proletariato. L’unità culturale incarnata dalla borghesia ottocentesca non è però replicabile, e la cultura di matrice popolare-proletaria entra subito in crisi per una molteplicità di fattori che è difficile ricondurre a sintesi in queste poche pagine. L’alterità culturale finisce così per essere la sua moralità: è “proletaria” (e cioè progressiva, democratica, davvero “nuova”) quell’arte in grado di sostenere dei valori morali conseguenti. Così facendo, però, l’arte di questo tipo diviene subito arte “politica”, tracimando nel suo contrario: in ideologia, e dunque in propaganda mascherata, a cui in ultima istanza si chiede, ricordando il peraltro futile Vittorini, «di suonare il piffero della rivoluzione». Togliatti, dai solidi gusti culturali borghesi, se ne rideva, manovrando un’intellettualità partecipe della forza del partito e inguaribilmente lamentosa, ma il problema era effettivo. Una cultura di questo tipo, edificante nel suo senso più pieno ma contraddittorio, non può che rimanere imbrigliata nel suo stesso circuito vizioso: una cultura che non si confronti con l’abisso ma costruisca dei modelli valoriali non è cultura, ma velina di partito, per quanto artisticamente infiocchettata. C’è una bella frase di Goethe che, a tal proposito, chiarisce il senso (peraltro poroso e instabile, come ogni discorso sulla cultura e i suoi dilemmi) di ciò di cui stiamo parlando: «una buona opera d’arte infatti può avere e avrà senz’altro delle conseguenze morali, ma pretendere che l’artista persegua fini morali significa guastargli il mestiere». Pretendere il Proletkult è affare da praticoni ideologizzati ma non risolve il problema del rapporto tra arte e politica. Lo stesso Lenin – acerrimo nemico delle fantasie gorkijane sull’arte proletaria – con la sua acida franchezza dichiarava che «le buffonate alla Majakovskij non servono alla rivoluzione; ma se proprio se ne riconosce la necessità, accettiamole pure. Ma non si passi il segno; non si giunga a collocare i buffoni, sia pure in nome della rivoluzione, al di sopra del “borghese” Puškin».
E dunque, per tornare al “nazionale-popolare” di gramsciana memoria, al comunismo italiano si pongono due problemi: il primo, questo carattere culturale va impresso attraverso un’opera di “maieutica persuasione politica”, potremmo dire. Insomma, il “nazionale-popolare” il Pci se lo costruisce in casa, e combatte tutte quelle forme presuntamente “nazional-popolari”, che la borghesia presenta come tali, e che in realtà celano torsioni interclassiste e anestetizzanti della battaglia culturale in corso nell’Italia degli anni Quaranta-Cinquanta. Il secondo problema è che tale sforzo, che si risolve in buona sostanza e al suo culmine artistico nella stagione neorealista – sia essa letteraria (Pratolini, Cassola, Levi, Fenoglio), che cinematografica (Rossellini, De Santis, De Sica, Visconti) – edifica uno stile e una narrativa veristica più che realistica, e dunque “populista” più che davvero popolare, per usare il giudizio tranchant che ne diede Asor Rosa nel suo importante studio della cultura letteraria italiana tra le due guerre (Scrittori e popolo, 1965). Il “popolo” è l’oggetto del contendere, “lasciato parlare” in quanto portatore di problematiche sociali che si fanno immediatamente verità politiche. I limiti della stagione neorealista saranno oggetto di una profonda riflessione di quella stessa intelligenza collettiva in grado, poi, di passare dal “neorealismo al realismo”, come ebbe a dire Guido Aristarco valutando l’evoluzione dell’opera di Visconti.
Questo però è un modo brutale di riassumere vicende culturali della primaria importanza. Se lo facciamo è per chiarire i contorni di un discorso che ci serve, oggi, per intendere e smentire una certa “ideologia del nazional-popolare” ancora molto in voga e brandita – estremo paradosso – contro “la cultura di sinistra”, intendendo con ciò un impasto di elitario ed ermeneutico, sperimentale e incomunicabile, che caratterizzerebbe – figuriamoci – la cultura alternativa a Bud Spencer, Tarantino, la musica Trap o l’ultima produzione Netflix. Il “nazional-popolare” equiparato al “basso”, e il “basso”, il sotto-culturale, l’intrattenimento, celebrato come democratico e davvero popolare. Lo stravolgimento del senso gramsciano, se vogliamo. Ma soprattutto, il decadimento di ogni idea di cultura celata attraverso la frasetta edificante. Questo, più che il “nazional-popolare”, è il nazional-populismo, presente nel paese ben prima dell’affermazione politica di Grillo&Salvini.
Eppure, andando a conclusione dei molti temi sollevati e trattati inevitabilmente come titoli di un discorso tutto ancora da rifare, rimangono all’ordine del giorno alcuni problemi decisivi del rapporto tra politica e cultura. E cioè: non ha più alcun senso parlare né cercare, nella produzione culturale contemporanea, il “nazionale-popolare”, perché non esiste più alcuna funzione sociale progressiva delle classi dominanti, mentre quelle dominate, terminato il secolo della loro indipendenza politica, non hanno né la consapevolezza né la forza di proporre alcunché di effettivamente culturale e, al tempo stesso, “nazionale”, cioè generale.
Il “nazional-popolare” è la maschera attraverso cui vengono presentati i peggiori prodotti della sottocultura dominante, spacciati eccentricamente per “critica della cultura dominante”.
Ancora: anche se questa forza ci fosse, l’esperienza del Novecento ha segnalato i limiti dell’intreccio soffocante tra arte e politica. Quel punto di mediazione, su cui si erano scontrate le migliori menti dell’Italia del dopoguerra, non è stato ancora trovato o, quand’anche fosse stato raggiunto, ha sempre avuto caratteristiche precarissime, contingenti, luminose proprio nella loro unicità e nella loro capacità di smarcamento. Il Novecento ci ha insegnato che non è pensabile opporre una “cultura proletaria” alla “cultura borghese” (il Proletkult al “borghese” Puškin), quanto invece opporre la Cultura, che è sempre una, alle sottoculture borghesi e/o reazionarie. Ma per capire cosa è cultura e cosa non lo è, quali forme transitorie può assumere nella contemporaneità e quali significati universali può ancora ricoprire, andrebbe avviato un dibattito informato, cioè condotto da intellettuali in grado di afferrare il cuore dei problemi dell’arte contemporanea. Andrebbe cioè stimolata nuovamente quella mediazione intellettuale che l’industria culturale ha contribuito a smantellare. Farlo senza protagonismo politico delle lotte di classe è però impraticabile, perché i problemi culturali dello scorso secolo non erano altro che manifestazioni specifiche di problematiche politiche. L’attuale subalternità culturale delle classi subalterne non è altro allora che il riflesso di una subalternità politica. Nel frattempo, però, possiamo quantomeno non sostenere la cultura dominante quando si presenta come manifestazione camuffata di se stessa.