Il giorno sbagliato di Derrick Borte, ovvero dell’ordinaria follia dell’America Wasp
Un uomo bianco nel cuore della notte fa irruzione in un’anonima villetta suburbana, uccide i due coniugi e dà fuoco alla casa. Vaga per il resto della notte, e la mattina seguente è immerso nel consueto traffico metropolitano lavorativo alienato. Nel frattempo, una giovane madre dalla vita confusa e dal lavoro precario accompagna il figlio a scuola, tentando di svicolare il solito blocco motorizzato di tangenziali e periferiche grigie anch’esse alienate. Qui si incrociano i due destini. Un colpo di clacson di troppo e l’ammucchio di frustrazioni incrociate frantuma rapporti umani vincolati a una normalità apparente sempre meno sostenibile. L’incipit resiste fino a questo punto, rimane credibile nell’evocare lo sporco sotto il tappeto della comunità wasp nordamericana. Circa venti minuti. Di qui in avanti la storia prende la piega prevedibile del moltiplicarsi di angoscia fasulla, costruita, oramai scollegata da ogni realismo. L’inseguimento tra il wasp man panzone trumpiano in suv e la donna precaria fallita nel lavoro e nelle relazioni deraglia rapidamente nella fantascienza. La donna è braccata, la scia di morte che un allucinato Russell Crowe semina lungo il suo percorso di delirio e autodistruzione è sin da subito prevedibile. Cosa può salvarsi allora in un film come questo?
È interessante ragionare di come un certo cinema americano ritorni sempre sugli stessi motivi. Sull’assurdo quotidiano, che si mantiene unicamente come costrutto incollato malamente dalla repressione e dall’autocontrollo sociale, da sogni di gloria sempre meno desiderabili e sempre più prosaici: un telefonino, una busta paga, la possibilità di un mutuo o di una relazione stabile. Quello che negli anni Cinquanta e Sessanta era l’american dream coronato dal successo economico, oggi è mera lotta per la sopravvivenza. Il suv come status politico-sociale, l’anarchismo di fondo come de-responsabilizzazione da ogni obbligo collettivo, la difesa armata del proprio recinto casalingo come ragione di vita.
Siamo nel cuore dell’ideologia americana, e anche della sua distopia. È per questo che tanto cinema hollywoodiano torna sullo stesso tema, sull’impazzimento dell’uomo comune, del “cittadino medio”, del bravo vicino di casa che a un certo punto, dal nulla e per nessun motivo, dà di matto, sconvolge il patto sociale fatto di lavoro e promozione salariale in cambio di autoasservimento.
Qualcuno, a proposito di questo giorno sbagliato, ha parlato di Duel (1971). Anche l’esordio alla regia del ventiquattrenne Spielberg mette in scena la follia anonima e inspiegabile. Davvero immotivata, in questo caso, più subdola, quasi mistica potremmo dire, e perciò più angosciante e indecifrabile. Lungo le strade solitarie di uno Stato del sud, tra Arizona e California, un tranquillo commesso viaggiatore si trova davanti un lento e inquinante e inquietante camion-cisterna. Lo supera, per essere subito dopo superato nuovamente dal tir a sorprendente velocità. Come il gatto con il topo, l’autocisterna rallenta, si fa superare, supera di nuovo, tentando di speronare, buttare fuori strada il tranquillo commesso viaggiatore. Senza un motivo vero, senza che nessuno se ne accorga, segno di una società che ha già messo in conto dell’inevitabile assurdo quotidiano senza però farci i conti. Si scansa, guarda da un’altra parte, fa finta di non vedere, l’importante è portare a casa la giornata, o forse solo la pelle. L’inseguimento sconvolge la vita dell’onesto lavoratore, che invece di escogitare una soluzione per trarsi d’impaccio decide di accettare la sfida. Un po’ scappa, un po’ gioca anche lui, fino all’inevitabile finale di morte e distruzione. C’entra qualcosa questo Duel con il film di Borte? Davvero poco, se non nei motivi di fondo che abbiamo accennato, di una società delirante che si regge su una mimesi di rapporti sociali consueti e in verità ormai rovinati e irrecuperabili. La vera traccia comune è l’impossibile solidarietà, che in Duel è portata alle estreme conseguenze e in questo giorno sbagliato sempre premessa e mai realizzata per cause fortuite. Qualcuno vorrebbe ma non ce la fa, laddove il messaggio di Spielberg rimaneva decisamente più radicale: ognun per sé è il motto di un’America sfasciata, la tua morte è la mia vita e chi s’è visto s’è visto. Decisamente più aderente alla realtà, pur nella sua ambiguità di fondo che aleggia per tutto il racconto.
C’è però un altro film che invece si presta alla sovrapposizione di temi e di linguaggi, ed è Un giorno di ordinaria follia, di Joel Schumacher (1993). Dai primi Settanta ai Novanta ad oggi dunque: segno che ciò che non va ricorre insistentemente, e nonostante ciò continua immodificabile. Bill Foster (un grande e, anche qui, allucinato Michel Douglas) è fermo nell’infernale traffico di Los Angeles. Il caldo è opprimente, i lavori in corso fermi come sempre, la miseria sociale ai bordi delle strade replica l’inumanità del traffico paralizzato. Ad un certo punto lascia la sua macchina e prosegue a piedi, senza una meta precisa, ma deciso a rivedere moglie e figlia da cui si è recentemente separato. Lungo il tragitto aggredisce il proprietario di un mini market, litiga con alcuni ragazzi, si ritrova in possesso di una borsa colma di armi da fuoco, e le usa per le più illogiche motivazioni: chiedere un panino in un fast food, sparare a un telefono, aggredire un altro negoziante.
L’illogicità della violenza è il diretto contrappunto dell’illogicità di ciò che la provoca: non c’è una motivazione particolare, specifica; al contrario, c’è una motivazione sociale, impersonale diremmo, che però non può essere rintracciata – men che meno risolta – con l’ordinaria strumentazione del controllo sociale: un po’ di polizia, i servizi sociali, qualche carezza dello Stato assistenziale. Pezzi del problema, non sue soluzioni.
Allora questo giorno sbagliato è un giorno qualsiasi, di ordinaria follia, dove il punto è tutto su quell’aggettivo: ordinario, che ben si presta a qualificare la vita sociale della società anglosassone bianca e protestante, dedita al mantenimento dell’ordine salvo prorompere in altrettanto ordinaria violenza. Il filo rosso è quello di un’America che non può resistere ancora, eppure in qualche modo va avanti. Questa capacità di resistenza – sia essa dovuta alla repressione, al trickle-down economico, al sogno evocato e mai compiuto della realizzazione per arricchimento – sembra sostenersi con sempre maggiore difficoltà. L’esplosione, nell’ultimo decennio, di grandiose lotte di classe del proletariato nero mettono in mostra una società tagliata trasversalmente in più società contrapposte. Ma dentro l’America bianca c’è salvezza? La pacificazione, l’ordinata integrazione dei movimenti di protesta bianchi, ci dicono il contrario. Ci restituiscono l’immagine di una società invecchiata e annichilita, dove la speranza è data dalla distruzione generalizzata delle basi sociali di questo equilibrio.
È da un’altra società, contrapposta frontalmente a quella wasp che accomuna Trump e Ivy League, che prenderà corpo l’alternativa in grado di spezzare i caratteri ordinari della violenza quotidiana nordamericana.
Quello che in Spielberg e Schumacher ancora poteva venir accettato, non può più esserlo in un Borte qualsiasi. Sarebbe il caso di osare, proprio ciò che non fa questo giorno sbagliato.