Contro ogni fatalismo: Antonio Gramsci e la rivoluzione del popolo
L’Italia – come molti altri Stati nel contesto europeo e internazionale – sta entrando in una fase di acutizzazione della crisi economica. L’emergenza sanitaria legata al covid, tutt’ora non finita e tutt’altro che prevedibile nei suoi futuri sviluppi, ha innescato degli effetti non indifferenti sull’economia italiana, con un crollo del Pil del 10% previsto per il 2020[1]. Di fronte all’interesse padronale a non subire diminuzioni dei propri profitti, ma semmai a sfruttare la situazione per aumentare i propri rapporti di forza, è necessaria la preparazione di una cosciente risposta di classe, affinché i costi della crisi non ricadano sulle spalle dei lavoratori. Purtroppo, infatti, non ci si può adagiare sulla speranza che il peggiorare delle condizioni lavorative e di vita della maggioranza del mondo salariato sia un fattore sufficiente ad aumentare la conflittualità di classe e portare i lavoratori ad un’azione di carattere rivoluzionario, che sia capace di spezzare il giogo padronale. Basti pensare alla crisi internazionale scoppiata nel 2008, i cui effetti in Italia sono stati notevoli e mai superati del tutto – solo nel biennio 2008-2009 vi è stata una contrazione dell’occupazione del 2,4%, con un peggioramento delle condizioni nel mercato del lavoro che ha colpito soprattutto i giovani[2].
Non solo la mancanza, in quel contesto, di organizzazioni e forze di classe organizzate e coscienti ha impossibilitato lo sviluppo di un fronte anti-padronale capace di non far ricadere la crisi sui lavoratori, ma neppure si è visto un aumento spontaneo della conflittualità a seguito delle manovre anti-crisi varate dal governo con il beneplacito di Confindustria.
L’importanza di evitare il fatalismo nell’organizzazione di classe e nell’azione rivoluzionaria è un tema che Gramsci aveva ben a mente, come si può vedere nelle sue critiche alle posizioni immobiliste che il Partito Socialista Italiano, nonché la Seconda Internazionale, avevano a suo tempo. Senza perciò dimenticare l’influenza di un determinato contesto e di certi avvenimenti sulla psicologia e sull’azione delle masse – come, ad esempio, la Prima guerra mondiale, la quale si era rivelata essere un acceleratore di varie rivolte sociali –, l’esperienza storica e la riflessione teorica hanno portato Gramsci a ripudiare qualsiasi concezione deterministica dello sviluppo storico e, in particolare, della crisi finale del capitalismo. Alla domanda «se i fatti storici fondamentali sono determinati dal malessere o dal benessere economico»[3], la risposta del comunista sardo è alquanto esplicita: «si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale.»[4]
La struttura economica di una società ha sì il suo peso sulla coscienza degli individui nel loro complesso: non si può immaginare lo svilupparsi di un pensiero marxista nell’impero romano, come se determinate concezioni del mondo si sviluppassero indipendentemente dalla realtà strutturale in cui sono collocate. Tuttavia, quando si scende sul piano individuale di analisi, la realtà economica non può essere l’unico fattore da tenere in conto per determinare le influenze sul pensiero di una persona. Con una visione troppo economicistica, si rischia di ridurre «la dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione».[5]
Una concezione che finisce per trascurare l’attiva organizzazione dei lavoratori e il lavoro di proselitismo, scadendo nell’attesa che i lavoratori stessi, dal nulla, inizieranno ad avere una coscienza di classe e una capacità organizzativa tali da rispondere con efficacia al fronte padronale.
Per Gramsci tale concezione, inoltre, non teneva conto di come, di fronte ad una determinata crisi economica, il capitalismo non crolli come una casa di carta, bensì cerchi di rinnovarsi e di trovare soluzioni utili per la sua sopravvivenza. A riguardo, è di enorme attualità per l’oggi riprendere in mano il Quaderno 22 di Gramsci – Americanismo e fordismo – dove, con lucidità, viene analizzato lo sviluppo del fordismo come «punto estremo del processo dei tentativi successivi da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio di profitto»[6] e dove si evidenzia, in relazione al contesto italiano, la reazione alla crisi del ’29, che ha portato un maggiore intervento statale a tutela del capitale italiano, tramite azioni quali «l’aggravarsi dei regimi doganali e delle tendenze autarchiche, i premi, il dumping, i salvataggi delle grandi imprese in via di fallimento o pericolanti; cioè, come è stato detto, la «nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali» ecc.»[7]. A riguardo – come approfondito da un recente articolo pubblicato sull’Ordine Nuovo[8] –, è interessante notare come, nel contesto attuale, dopo anni nei quali la spesa pubblica veniva additata come qualcosa da limitare al fine di ridurre il carico fiscale (specie verso imprese e alti redditi) e stimolare così gli investimenti, si stanno rafforzando, grazie alla crisi per il Covid, alcune tendenze che vedono positivamente l’intervento massiccio dello Stato. Inoltre, il capitalismo non è solo un sistema che cerca di rinnovarsi sul lato economico: questo infatti non basterebbe per sopravvivere.
Uno dei rischi maggiori per esso è che sopraggiunga, oltre alla crisi economica, la cosiddetta «crisi d’autorità» o «crisi organica», locuzioni con cui Gramsci evidenzia il momento in cui le masse non hanno più fiducia nella società borghese. Tale crisi è tanto più forte, quanto più vi è una forza alternativa – cioè un movimento politico comunista – che mostri che un’alternativa è possibile e attuabile per superare le contraddizioni capitalistiche.
Per questo motivo, la classe borghese si prodiga per mobilitare un sistema di propaganda immenso, grazie alla propria ricchezza e al controllo statale e degli «apparati egemonici» della società civile (i media, il sistema scolastico, i partiti borghesi, ecc.), i quali permettono di sviluppare una falsa coscienza nelle masse, cioè un pensiero incapace di vedere le vere contraddizioni del capitalismo. Se non bastasse, poi, per portare a compimento l’“insabbiamento” delle proprie colpe, il sistema borghese non dimentica neppure di inglobare il più possibile in sé le realtà contro di esso. Cosa si intende con ciò? Si intende il tentativo di deformare le realtà le più coerentemente anticapitaliste al fine di spezzare la loro autonomia e coerenza ideologica e farle ricadere su un piano di ragionamento borghese.
Un esempio chiarificatore è la politica attuata da Giolitti negli anni ’10, che – per mantenere quieti gli operai, che erano la classe più cosciente politicamente al tempo – cercò di mantenere la classe operaia su posizioni prettamente corporative, cioè interessate solo a un miglioramento delle condizioni lavorative – ottenuto spesso a scapito dello sfruttamento contadino al Sud – e non a un cambio di sistema. Tra i metodi utilizzati per ciò, vi era di sicuro il favorire l’ala più riformista del PSI, cioè quella che remava contro i movimenti e le rivolte più radicali e rivoluzionarie degli operai, nonché contro quei dirigenti – quali Gramsci – che quelle rivolte le guidavano.
In tal modo, il sistema borghese ha la possibilità di eliminare ogni proposta alternativa ad esso. In tal modo, si crea un sistema dove ogni «concezione del mondo» è capitalista e si riduce – nel peggiore dei casi – a proposte di vita utili per favorire i profitti dei capitalisti e – nel migliore dei casi – a proposte di lotta di retroguardia, cioè dirette a chiedere le “briciole”, gli avanzi dei capitalisti grazie a minimi miglioramenti delle proprie condizioni lavorative e di vita. Battaglie poi spesso fallimentari, dato l’enorme forza che il capitale ha nella contrattazione. Ciò ovviamente non va a negare l’importanza, specie in condizioni di forte arretramento, delle lotte per il miglioramento anche nel breve termine di determinate condizioni lavorative, tramite conquiste limitate e momentanee: semplicemente tali conquiste vanno inserite in un quadro di ampio respiro, che le usi come rampa di lancio per successive conquiste e un progressivo miglioramenti dei rapporti di classe a favore dei lavoratori.
Insomma, le analisi gramsciane fanno capire bene come la borghesia sia da più di un secolo consapevole di quanto l’ideologia e lo stile di vita e di pensiero conti nelle masse. Non è un caso se un industriale come Ford avesse un corpo di ispettori che controllavano i propri dipendenti nella loro vita privata, famigliare, sessuale, ecc. Egli era consapevole che bisognava istillare nei lavoratori un modo di vivere e di pensare utile per essere efficaci in fabbrica.
Era necessario quindi che i lavoratori avessero una vita sobria – evitare l’alcool, una vita disordinata, ecc. – per essere attivi in fabbrica e che non avessero idee sovversive che mettessero in questione il sistema capitalista vigente.
Il problema che deriva da questa situazione è molteplice. Da un lato, bisogna rendersi conto che, se non si lotta sul terreno pratico e non ci si relaziona con le masse per diffondere un’alternativa comunista all’attuale società, le masse non riusciranno autonomamente a uscire dal capitalismo. Questo non perché la gente sia stupida, ma perché, se ognuno vive bombardato di propaganda capitalista, non potrà veder altro che alternative monche agli attuali problemi. Dall’altro, non ci si può aspettare che questo lavoro sia facile, che i borghesi lascino tranquillamente che i partiti e le realtà comuniste spezzino la cultura classista dominante. La borghesia, ogni volta che era necessario per la sua sopravvivenza, ha usato la violenza, fino a legittimare reazioni quali il fascismo in Italia. Per quanto non si possa, in questa situazione, pensare che tutti siano ideologicamente preparati al 100% prima della presa del potere e del cambio della società, ciò non toglie che i grandi cambiamenti possano avvenire solo se le masse li approvano e danno il loro consenso e la loro attiva partecipazione.
Per questo assume un valore inestimabile della costituzione di un partito comunista – il «moderno principe» per usare una locuzione gramsciana – che sia capace di svilupparsi e porsi come reale avanguardia. Un compito che risulta essere di estrema attualità oggi, di fronte alla mancanza di una realtà tale che sia riferimento saldo dei lavoratori.
Il partito dev’essere avanguardia in quanto, da un lato, rappresenta l’unità di coloro che hanno la coscienza di classe più avanzata, che sanno dirigere un cambio di società; dall’altro, in quanto si pone in unità organica con le masse, cioè dialoga con loro, le ascolta, è capace di agire col loro consenso. Si crea in tal modo un’azione educativa, che non è però intesa come azione “dall’alto” di un gruppo che tutto sa e autoritariamente pone il sapere agli ignoranti, ma come azione dialettica, nella quale ci si pone fra pari, cioè si è pronti a cogliere spunti e critiche costruttive anche dal più manuale dei lavoratori. Solo facendo così – facendo sentire responsabile ognuno della costruzione della nuova società – si può veramente guidare una rivoluzione non per il popolo, ma del popolo, in cui ognuno senta l’importanza di educarsi e di capire che fare della propria vita: «Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo»[9]. In tal senso, la nuova «concezione del mondo» comunista, «la nuova costruzione non può che sorgere dal basso, in quanto tutto uno strato nazionale […] partecipi ad un fatto storico radicale, che investa tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente, dinanzi alle proprie responsabilità inderogabili»[10].
Si potrà poi avere una rivoluzione del popolo, poi, proprio se sul lato pratico il sistema di rapporto educativo dialettico si traduce in un sistema d’azione e di organizzazione politica dove le decisioni sono prese perché le masse hanno mostrato il loro assenso.
Non si può, come detto, pensare che all’inizio si abbia già un sistema perfettamente funzionante e rodato, dato che specie i primi momenti sono caratterizzati dall’aspra reazione del capitale.
Bisogna però lottare costantemente per creare un sistema sociale e politico che eviti la deriva autoritaria, che dia in mano alla gente il potere politico tramite propri organi decisionali e d’azione che siano coordinati in un’azione comune verso la «società regolata», cioè quella prospettata società comunista dove non v’è più una dualità fra il popolo e chi comanda, ma è il popolo stesso che dirige e decide della sua vita. Di fronte a ciò, Gramsci evidenzia che non basta semplicemente prendere coscienza delle contraddizioni del capitale e della necessità di un superamento di stampo socialista di esse: è fondamentale anche ottenere coscienza di come sia necessario organizzarsi affinché l’obiettivo indicato sia raggiungibile.
Francesco Pietrobelli
Fonti:
[1] https://tg24.sky.it/economia/2020/10/10/pil-italia-2020-confindustria
[2] https://www.eticaeconomia.it/ee/wp-content/uploads/2011/12/DAmuri_EE.pdf
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione Einaudi, p. 459
[4] Ivi, p. 1587
[5] A. Gramsci, La critica critica, articolo pubblicato il 12 gennaio del 1918 sul Grido del popolo
[6] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione Einaudi., p. 2140
[7] Ivi, pp. 2175-2176
[8] https://www.lordinenuovo.it/2020/10/08/lo-stato-come-leva-competitiva-del-capitale-nella-crisi/
[9] Antonio Gramsci, Studi difficili, articolo pubblicato sull’Ordine Nuovo il 17 dicembre 1929
[10] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione Einaudi, p. 816