Vi sono, nel nostro paese, vicende di ordinario sfruttamento e speculazione economica nelle quali convivono, all’interno della stessa realtà, i tre maggiori meccanismi che, in questi anni, sono stati utilizzati dai padroni al fine di scaricare l’incertezza economica sui lavoratori (o sulla collettività in generale). Stiamo parlando della delocalizzazione dei capitali e della forza lavoro, dell’utilizzo pretestuoso (o del tutto fraudolento) degli aiuti pubblici e, infine, “banalmente”, della precarizzazione pervasiva, spesso tramite meccanismi di subappalto, di dipendenti anche altamente qualificati.
Affrontiamo qui il caso di Abramo Customer Care S.p.a., società che possiede sedi in diversi centri della Calabria e d’Italia – e non solo – e che offre da anni canali di front office, back office, assistenza commerciale, tecnica e gestione reclami a diversi operatori telefonici. L’azienda da più di un anno manifesta difficoltà finanziarie e nell’erogazione degli stipendi e da tempo si rincorrono voci di un cambio di proprietà di Abramo, fino ad arrivare, lo scorso novembre, alla richiesta di concordato preventivo al Tribunale di Roma.
Diversi dubbi, però, sono diffusi tra i lavoratori, a cominciare dal fatto che l’azienda non sembra mai aver subito un reale calo di traffico e commesse. Intervistiamo a riguardo due dei dipendenti che hanno subito in prima persona il disagio della situazione che si è venuta a creare in azienda. Cominciamo con Pietro, dipendente nella succursale di Crotone.
Ciao Pietro, descrivici per sommi capi la situazione alla vostra sede.
Ci troviamo, come azienda, sostanzialmente commissariati e con le finanze in gestione al Tribunale; l’intero stipendio di ottobre e un terzo di quello di settembre sono congelati e sono tre mesi che viviamo nell’incertezza. Si parla, adesso, di vendita, ma non c’è chiarezza, sono tutte voci. La cosa curiosa è che la proprietà sembra aver gettato la spugna anche se di lavoro ce n’è più di prima!
Come si spiega, secondo te, questo paradosso?
Dicono che avevano accumulato debiti per attività non molto produttive, ma la realtà è che la proprietà si è stancata, magari vuole investire in altro e monetizzare. Circolano anche voci che sia un escamotage per cambiare il nome all’azienda, liberarsi dai debiti dichiarando fallimento grazie al concordato e fare una vera e propria restaurazione aziendale con dei prestanome. Il Tribunale ha in mano i documenti e potrebbe, in caso, scoprire qualcosa.
Come funziona in generale il vostro lavoro?
Noi lavoriamo principalmente per TIM, ma anche per Poste Italiane. Per un periodo abbiamo fatto servizi per Vodafone. La logica del subappalto è la ragion d’essere stessa dell’azienda: sollevare gli operatori telefonici ed altre imprese dalla seccatura del negoziare contratti e dell’attivare nuovi reparti di gestione delle risorse umane.
Abramo fa questo con il vantaggio di pescare “per mestiere” da un ambiente sociale disperato, tra una gran massa di giovani e meno giovani. La cosa più triste di tutto questo è la totale mancanza di prospettive e certezze, oltre l’essere il primo pezzo da scartare dal bilancio aziendale, grazie ai contratti a tempo determinato o agli stage, quando il padrone decide che l’ambiente è stato già spolpato abbastanza.
Passiamo, adesso, a Carlo, dipendente della sede di Montalto Uffugo e tesserato da anni con la CGIL.
Ciao Carlo, la crisi della Abramo nella vostra sede sembra essere cominciata prima dell’esplosione della pandemia. Da quanto tempo prosegue questa situazione?
Diciamo che tutto è cominciato quando, più di un anno e mezzo fa, l’azienda ha cominciato a fare utilizzo del FIS (Fondo d’Integrazione Salariale) per i dipendenti della commessa TIM, qui a Montalto, sostenendo che il traffico fosse limitato: questo è stato l’inizio. Gradualmente, nei mesi successivi, la cosa si è acutizzata; a metà 2019 sono cominciate a circolare le prime voce circa nuove aziende disponibili a comprare, e si trattava di aziende concorrenti. Dopo la stagione estiva sono iniziati i problemi con le buste paga e le diffide. Considera che il nostro part-time, anche con gli scatti di anzianità, può arrivare al massimo a 700 euro mensili, venendo a mancare questo introito minimo diventa veramente difficoltoso per noi.
A quanto ammontano gli stipendi arretrati ad oggi?
Tieni in considerazione, innanzitutto, che l’azienda, d’accordo con i sindacati, aveva già deciso di spostare la data dei pagamenti dal 15 al 25 di ogni mese, con diverse ripercussioni per gli impegni finanziari di ciascuno di noi. Il 30 ottobre del 2020, poi, c’è stata la presentazione in Tribunale del piano di recupero dei debiti, a causa del quale tutto quello che era nel passivo fino ad allora è stato congelato (il 30% dello stipendio di settembre, l’intero mese di ottobre e dieci ratei della tredicesima, quelli che vanno da gennaio ad ottobre). Ora, le somme corrispondenti a tali debiti vengono rese disponibili di volta in volta con l’omologa del Tribunale, quindi passeranno mesi prima di poter recuperare quanto ci è dovuto. Inizialmente ci avevano detto che entro il 7 di gennaio sarebbe stato presentato il piano di rientro, ma la legge offre altri 70 giorni di proroga e quindi se ne riparlerà a marzo. Nello stesso tempo, si rincorrono ancora voci di aziende che vogliono acquistare…
Come state vivendo questa condizione attualmente?
La priorità del commissariamento, fortunatamente, è tutelare i lavoratori, perciò con le fatture incassate i due commissari pagano gli stipendi. Operiamo in continuità aziendale, ovvero con un concordato che non parte come fallimentare. Da noi, all’interno della commessa per ho mobile, si gestiva moltissimo traffico in più, abbiamo sia il back office che front line. E tuttavia, nell’ultimo periodo hanno messo ancora qualcuno di noi in FIS.
Che spiegazione ti dai di questa apparente contraddizione?
Diciamo che Abramo ha approfittato del FIS, come anche del piano Covid: invece di dotarci di dispositivi di protezione individuale ci ha messo tutti in smart working, condizione in cui tutte le spese fisse ricadono su di noi; ha poi utilizzato il FIS Covid per nove settimane, ma era evidente che fosse giusto un pretesto per sfruttare tutto il possibile a livello di sostegno pubblico per poi arrivare alla situazione odierna.
Tutti i vari bilanci chiusi in positivo dall’azienda nel corso del tempo non determinavano nuovi investimenti, i soldi ottenuti con i guadagni delle nostre sedi li hanno sempre reinvestiti fuori in manodopera a basso costo (Slovenia, Albania, Brasile, eccetera) e grazie ad agganci a livello politico (uno dei due fratelli Abramo è sindaco di Catanzaro, l’altro si era presentato con il PD nella stessa regione: cadono sempre in piedi). La proprietà, insomma, non ha deliberatamente messo più soldi in cassa, ma li ha trasferiti in banche ed altri circuiti senza reinvestirli in attività produttive. Una sorta di riciclaggio legalizzato, a discapito nostro e della nostra “carriera”: questo è l’effetto della libera circolazione dei capitali.
Un altro dei vantaggi “competitivi” di Abramo è la condizione sociale dei suoi dipendenti…
Certo. È un’azienda che è arrivata ad essere tra le migliori d’Italia nel settore perché ha sfruttato le competenze e la cultura dei ragazzi dell’Università della Calabria e delle altre università della regione, con contratti di collaborazione a progetto o comunque precari, magari di un mese, che venivano fatti finire per poi richiamarti. Una zona geografica lavorativamente depressa che ha permesso ad Abramo di usufruire di salari bassi ma competenze alte: la botte piena e la moglie ubriaca.
Ricordo lavoratori che si facevano 8 o 9 ore al giorno per sperare (invano) in una stabilizzazione. Col decreto legge Dignità, paradossalmente, molti non sono semplicemente stati più chiamati e sono stati sostituiti da stagisti a 500 euro al mese. Certe volte, anzi, l’azienda metteva in FIS noi e faceva lavorare loro.
Com’è il quadro interno dal punto di vista sindacale?
Il tasso di sindacalizzazione è dominato dai confederali, ma molti hanno abbandonato le tessere negli anni per i contratti di basso livello che essi firmavano. C’è una buona presenza dei Cobas. La maggior parte delle persone, purtroppo, aspetta la manna dal cielo, l’arrivo del personaggio noto di turno che ti risolve tutto, o sperano ancora che ritorni tutto come prima e temono di rovinare i rapporti con l’azienda. Su 500 persone a tempo determinato, diciamo, si muovono 30-40 persone. Ma l’opinione pubblica deve sapere chi è realmente Abramo! Solo la presa di coscienza di tutti i dipendenti e la loro unità per far pagare la crisi ai proprietari dell’azienda potrà portare ad un riconoscimento della nostra dignità lavorativa.