La nascita di una nuova organizzazione dipende non solo dalla volontà soggettiva di chi la fonda ma anche dal contesto socio-economico. Lo stesso avvenne per la nascita del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) nel gennaio di cento anni fa e per questa ragione è utile descrivere, sia pure per sommi capi, il contesto nel quale il partito fu fondato. La nascita del Pcd’I non sarebbe pienamente comprensibile al di fuori della tendenza imperialista dell’Italia, della guerra mondiale, della crisi economica e sociale successiva e del biennio rosso.
L’Italia imperialismo fragile ma aggressivo
L’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento assunse una fisionomia da Paese imperialista, in contemporanea al diffondersi dell’industria pesante e alla formazione di grandi concentrazioni di potere industriali-finanziarie. La svolta decisiva per il “decollo” dell’industria italiana avvenne tra il 1899 e il 1915, nel periodo cosiddetto giolittiano, dal nome del politico, Giovanni Giolitti, che fu egemone in quel periodo storico. Momento importante di questo periodo fu la guerra contro la Turchia (1911-1912), che, oltre a portare l’annessione come colonia della Libia, aprì le porte ad una rapida penetrazione italiana nei Balcani e persino in Asia Minore.
L’industria pesante italiana era foraggiata direttamente dallo Stato, soprattutto attraverso le spese militari che aumentarono enormemente. Queste passarono dal pur notevole 16,5% delle spese complessive dello Stato nel 1906-1907 al 34% nel 1912-13. Neanche la fine della guerra contro la Turchia portò a un sostanziale ridimensionamento della spesa militare che assorbiva ancora il 30% del bilancio nel 1913-1914[1]. La spesa sociale e per eventuali riforme non era sufficiente, mentre venivano privilegiate le spese per la repressione interna. Le spese per la pubblica sicurezza quasi raddoppiarono tra 1906 e 1913 mentre le Università nel 1913 non ottennero che la metà di quanto avevano percepito nel 1906. La scelta tra riforme sociali e imperialismo fu in Italia molto chiaramente a favore del secondo. Il costo della rapida industrializzazione, della politica imperialista e del riarmo venne addossato alle masse lavoratrici, in particolar modo a quelle del Mezzogiorno. L’unico sbocco per molti lavoratori fu allora rappresentato dall’emigrazione, che nel 1913 toccò il picco con 872mila emigranti di cui quasi i due terzi diretti in America[2].
Il processo di raggiungimento di uno status di potenza industriale portò a importanti mutamenti d’indirizzo politico all’inizio del XX secolo.
Negli anni immediatamente precedenti alla Prima guerra mondiale l’industria italiana stava attraversando una crisi di crescita che si pensò di risolvere con la creazione di uno “spazio vitale” cioè perseguendo una politica imperialista sul modello di quella di altre potenze mondiali, malgrado la carenza sia di materie prime sia di risorse energetiche.
L’Italia stava lottando per conquistarsi un posto di potenza industriale in grado di farsi largo nei mercati internazionali. Tuttavia il Paese scontava numerosi limiti, trovandosi in una situazione precaria in cui le esportazioni erano notevolmente inferiori alle importazioni. L’Italia cercò di bilanciare le proprie carenze economiche di fondo con una notevole dose di spregiudicatezza in campo politico, che la portò, ad esempio, a ribaltare le proprie alleanze dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale e a intraprendere una serie di avventure militari che la portarono fino al disastro della Seconda guerra mondiale. Il fascismo fu, per molti versi, il logico sbocco delle scelte dell’Italia liberale nella politica sia interna sia estera, che si estrinsecava nel sempre minore peso politico esercitato dal Parlamento nei confronti dell’esecutivo e del re. La realizzazione di uno “spazio vitale” nel Mediterraneo orientale rappresentava, agli occhi della classe dominante, un vantaggio sia economico sia politico. Per questa ragione gli interessi industriali italiani sostennero le avventure imperialiste italiane. Mentre per la Germania il controllo monopolistico del mercato e l’espansionismo all’estero rappresentarono un punto d’arrivo, per l’Italia rappresentarono un punto d’inizio, perché concentrazione e saturazione del mercato si verificarono sin dagli inizi del processo di industrializzazione. Per questa ragione gli industriali italiani dovettero puntare immediatamente sugli sbocchi all’estero e sulle commesse statali, entrambi collegati all’espansionismo militare.
Hilferding nel Capitale finanziario (1910) sostenne che l’imperialismo era l’unica via d’uscita dei moderni stati industriali ai problemi della riduzione dei profitti e del deficit delle bilance commerciali. Le situazioni di crisi e le conseguenti aspirazioni imperialistico-commerciali descritte da Hilferding si adattano, pur con delle varianti, anche all’Italia. Infatti, fra il 1908 e il 1914 l’Italia aveva conseguito una posizione di autonomia, per quanto precaria, in campo industriale. Le grandi imprese italiane – Ansaldo, Fiat, Pirelli – erano allo stesso livello delle industrie degli altri Paesi. Le politiche protezionistiche ed espansionistico-militari erano diventate necessarie per il capitalismo italiano. L’Italia fece di tutto per imitare la politica delle altre potenze di più vecchia e consistente industrializzazione, cercando di penetrare nei Balcani e nell’Asia minore mediante il commercio d’esportazione, l’infiltrazione politica e i finanziamenti a lungo termine. La differenza con gli altri Stati imperialisti era solo quantitativa.
La tendenza espansionistica nell’Adriatico e nei Balcani confliggeva con gli interessi dell’Austria-Ungheria. Questa fu una delle ragioni che portò l’Italia a uscire dalla Triplice Alleanza, cioè dall’accordo militare che la legava alla Germania e all’Austria-Ungheria, e ad allearsi con la Triplice Intesa, composta da Gran Bretagna, Francia e Russia. Infatti, il trattato segreto di Londra stabilì l’entrata in guerra dell’Italia in cambio non solo dei cosiddetti territori irredenti, cioè del Trentino, di Trieste, e di Gorizia ma anche dell’Istria, di parte della Dalmazia e del Dodecanneso oltre a compensi in Africa, Asia Minore e Albania. La ragione principale dell’entrata in guerra a fianco della Triplice Intesa fu, quindi, di carattere espansionistico, al fine di stabilire uno “spazio vitale” per il capitale italiano nell’Adriatico e nell’area del Mediterraneo orientale e acquisire definitivamente lo status di grande potenza in grado di sedersi al tavolo della spartizione imperialistica del mondo.
La guerra mondiale, la crisi post-bellica e il Biennio rosso
Il biennio rosso (1919-1920), ha rappresentato uno dei momenti di più alta tensione rivoluzionaria delle classi subalterne italiane degli ultimi cento anni, sia per la profondità sia per la diffusione delle lotte sul territorio nazionale. Il biennio rosso si articolò in una serie di eventi, che ebbero inizio nel giugno-luglio 1919 con i moti contro il caro-viveri e proseguirono con la lotta per la terra, con l’ammutinamento dell’Esercito, soprattutto ad Ancona, culminando con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.
Così come in Russia la rivoluzione del 1917 fu preceduta dalla sua “prova generale” del 1905, anche in Italia i sommovimenti del biennio rosso furono preceduti, prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, da un importante moto insurrezionale, la cosiddetta settimana rossa (1914). La stessa entrata in guerra dell’Italia fu contrassegnata da una importante opposizione da parte popolare, in cui la lotta contro la guerra si unì alla lotta per il pane.
Di particolare importanza furono gli avvenimenti accaduti durante la guerra, in particolare nel 1917. In quell’anno la stanchezza delle masse popolari europee per le privazioni e i massacri della guerra imperialista si fecero sentire in Russia prima con la rivoluzione di febbraio, che abbatté lo zarismo, e poi con la rivoluzione di Ottobre che realizzò il primo governo operaio della storia dopo la Comune di Parigi.
Importanti rivolte avvennero anche a Occidente, ad esempio in Francia, dove si verificarono ammutinamenti di massa delle truppe, che comportarono la momentanea interruzione delle offensive sul fronte occidentale fino all’arrivo delle truppe statunitensi. In Italia avvennero due fatti unici. Il primo fu il crollo del fronte a Caporetto, che, all’inizio una semplice falla nello schieramento italiano, divenne una vera e propria rotta a causa di quello che è stato definito un vero e proprio “sciopero” militare. Il secondo fu l’insurrezione di Torino, dove, a causa dell’enorme sviluppo della produzione industriale bellica, si era formata una ampia e radicalizzata classe operaia. Quello di Torino rappresentò nell’Europa occidentale un fenomeno unico di insurrezione di una città durante la Prima guerra mondiale.
Sarebbe difficile capire il biennio rosso, così come la Rivoluzione d’Ottobre, senza considerare la Prima guerra mondiale e i suoi effetti sul tessuto sociale e sui rapporti fra capitale e lavoro e tra il capitale italiano e quello internazionale. Sebbene vittoriosa, l’Italia uscì prostrata dal conflitto in misura più profonda delle altre potenze. Sul piano umano le perdite militari ammontarono a 650mila caduti e a centinaia di migliaia di feriti e mutilati, una cifra superiore a quella della Seconda guerra mondiale, e le perdite civili a più di mezzo milione senza contare le vittime della epidemia della spagnola. Nonostante le perdite umane e l’impegno economico enorme, i risultati per l’imperialismo italiano, che era entrato in guerra non tanto per riunire Trento e Trieste all’Italia ma per estendere la propria area di influenza imperialistica, si rivelarono insoddisfacenti. Le esorbitanti richieste del governo italiano, che nel 1915 furono accettate da Inghilterra e Francia con il Patto di Londra non vennero confermate dopo la pace.
In questo modo, si originò la leggenda della “vittoria mutilata”, che fu uno dei fattori da cui si sviluppò il fascismo, alimentando l’attivismo militare italiano che doveva condurre dalle guerre coloniali fino al disastro della Seconda guerra mondiale.
Se all’estero la situazione era gravida di tensioni, all’interno l’economia era cresciuta in modo squilibrato e i divari sociali si erano approfonditi. L’apparato industriale era cresciuto a dismisura e artificialmente per le commesse militari, favorendo la crescita dei profitti e la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi grandi gruppi industriali, Ilva, Montecatini, Ansaldo, Fiat, ecc., che furono i grandi beneficiari della guerra.
La conversione dell’industria bellica in industria di pace determinò subito dopo la guerra una forte crisi, che coinvolse anche le banche, che si erano legate strettamente alle grandi industrie nel momento della crescita.
Ad esempio, la banca Italiana di Sconto, esposta con l’Ansaldo, che a sua volta doveva fronteggiare una paralisi produttiva dovuta alla fine della guerra, dovette essere sovvenzionata dalla Banca d’Italia (cioè dai cittadini italiani) con ben 1.300 milioni. Ciononostante la Banca Italia di Sconto venne messa in liquidazione e i suoi creditori riuscirono a recuperare solo il 65% del loro credito. Nel 1920 la crisi si acuì per l’aumento dello stock delle merci invendute mentre rallentava la domanda di beni strumentali e i salari operai venivano decurtati. Fu lo Stato a intervenire ancora a sostegno dei grandi gruppi, cresciuti artificialmente e in modo parassitario, con il protezionismo, aumentando nel 1921 le voci protette da tariffa doganale da 472 a 953, e attraverso quel processo di compenetrazione tra capitale finanziario e Stato che divenne uno dei fattori della crisi politica del dopoguerra e una delle molle più potenti per l’avvento del fascismo e poi per la sua politica estera espansionistica[3].
L’Italia, inoltre, per finanziare la guerra aveva contratto in debiti all’estero, tra 1916 e 1918, circa 20 miliardi di lire-oro prebelliche (cifra pari al reddito nazionale di un anno); all’interno vennero prelevati altri 46 miliardi (cifra pari ad oltre il reddito nazionale di 2 anni), sottraendoli alle risorse dell’economia nazionale. Malgrado l’entità del debito reale fosse stata ridotta dalla crescente inflazione, dopo la guerra rimanevano da pagare oltre 40 miliardi di spese belliche rimaste scoperte[4]. La svalutazione monetaria, se, da un lato, risolse in parte il problema del debito, dall’altro lato provocò un aumento della polarizzazione sociale: le categorie a reddito variabile (speculatori, industriali, pescecani, e, in misura molto minore, affittuari e mezzadri) si arricchirono mentre quelle a reddito fisso (operai e impiegati) e alcune categorie di redditieri (agricoltori non coltivatori) si impoverirono.
L’industrializzazione accelerata non era riuscita ad assorbire il surplus della manodopera contadina neanche durante il periodo bellico; la riconversione dell’industria bellica causò l’aumento della disoccupazione, che fu aggravata dalle politiche anti-immigratorie degli Usa che bloccarono una importante valvola di sfogo all’enorme esercito industriale di riserva che raggiunse i 2 milioni nel 1921.
Oltre alla classe lavoratrice, a essere colpito da questa situazione fu il ceto medio, cioè quelle classi sociali piccolo-borghesi su cui si era fondato in precedenza lo Stato italiano. Mancò la capacità e soprattutto la volontà di organizzare in direzione rivoluzionaria, nella situazione di crisi, le grandi masse che entrarono in movimento durante il biennio rosso. Tale mancanza di direzione delle forze antagoniste da parte del partito socialista, riguardò anche le classi medie che in guerra avevano avuto funzioni di comando e ora erano disoccupate. Come avrebbe rilevato criticamente Gramsci negli anni a venire, dopo il biennio rosso e ancor di più dopo la presa del potere del fascismo, l’errore del partito socialista stette nel non aver saputo saldare insieme proletariato e contadini e nel non aver cercato quantomeno di neutralizzare politicamente i ceti intermedi. In modo particolare i socialisti non riuscirono a rivolgersi agli ex combattenti. Anzi, se li resero nemici, come spiega Gramsci:
“Era evidente che la guerra, con l’enorme sconvolgimento economico e psicologico che aveva determinato specialmente tra i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi, avrebbe radicalizzati questi strati. Il partito se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la classe dominante.”[5]
Il partito comunista d’Italia nacque, quindi, alla fine di un percorso politico delle masse italiane che rivelò tutti i limiti del riformismo e dell’opportunismo del partito socialista e dei sindacati maggioritari e in un contesto, da una parte, di crisi acuta del capitalismo alle prese con la riconversione industriale, e dall’altra parte, caratterizzato da un inasprimento del nazionalismo e delle tendenze espansionistiche per la “vittoria mutilata”.
La scelta dei comunisti di separarsi dal partito socialista rappresentò il primo e fondamentale momento di rottura col riformismo e l’opportunismo nel nostro Paese, con l’obiettivo di dotare finalmente le masse lavoratrici di una direzione politica generale e veramente rivoluzionaria.
La nascita del partito, però, avvenne in un momento difficile, quando il movimento rivoluzionario delle masse era ormai rifluito e mentre lo squadrismo fascista si sviluppava prepotentemente nelle campagne e nelle città, appoggiato dagli agrari, dagli industriali e dallo Stato. Ciononostante il Pcd’I, sorto da neanche quattro mesi, alle elezioni politiche di maggio 1921 riuscì ad ottenere il 4,61% dei voti, conquistando 15 seggi in Parlamento, mentre il partito socialista, pur confermandosi il principale partito italiano con il 24,7% dei voti, perse il 7,6% dei voti e 33 seggi, rispetto alle precedenti elezioni politiche del 1919.
__________________________________________
[1] Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio sul pre-fascismo, Einaudi, Torino 1974, p.106.
[2] Ibidem, p.111.
[3] Renzo del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. III (1914-1922), p.64
[4] Ibidem, p. 65.
[5] Antonio Gramsci, Passato e presente, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 67-68.