Con l’avvicinarsi del Giorno del Ricordo, come ogni anno, si leva il coro di giornalisti, politici ed esponenti istituzionali che prendono parola sul tema della “vicenda delle foibe”. In questo contesto riteniamo importante la lettura della nostra intervista allo storico Eric Gobetti, autore di “E allora le foibe?”1, disponibile dallo scorso 14 gennaio sia in formato cartaceo che ebook. Si tratta di un lavoro nel quale l’autore affronta quella vicenda, cioè quegli episodi di esecuzioni prodottesi ad opera delle forze partigiane della Jugoslavia fra il 1943 e il 1945 nel contesto della guerra di Liberazione dal nazifascismo sia in territorio jugoslavo che nei territori del Friuli-Venezia Giulia, entrando nel merito dell’immaginario collettivo ufficiale, un “discorso fatto di stereotipi, di slogan, di parole d’ordine che tuttavia non racconta niente, non dà conto della complessità del fenomeno, con le sue contraddizioni”. L’autore, che da anni si occupa della storia dell’ex-Jugoslavia2, svolge un’opera di analisi dei dati e delle fonti, dando gli strumenti per comprendere l’effettiva entità della dinamica storica e del contesto nel quale si produce
Cominciamo da te, qual è il tuo percorso formativo, dove è nata la tua passione per la ricerca storica?
Molto brevemente, mi sono laureato in storia e mi sono sempre occupato della storia dell’ex-Jugoslavia e dei rapporti storici tra Italia e Jugoslavia. Non ho esperienza accademica e mi definisco uno storico “free-lance”, è molto difficile vivere di questo lavoro, infatti mi sono occupato di cose diverse: ho fatto documentari, scrivo libri, faccio lezioni e conferenze in varie parti d’Italia e da circa 10 anni organizzo viaggi della memoria, sempre nella ex-Jugoslavia, legati a vari aspetti, dalla guerra in Bosnia degli anni ‘90, alla Seconda guerra mondiale. Ad ogni modo mi interesso sempre di questioni riguardanti i rapporti fra Italia ed ex-Jugoslavia.
Come mai hai scelto le vicende dell’ex-Jugoslavia come campo principale delle tue ricerche?
È una scelta che ho compiuto essenzialmente durante le guerre degli anni ’90. All’epoca avevo 18 anni, e gli anni della guerra hanno coinciso con gli anni dei miei studi all’università. Come molti giovani mi interessavo di quello che accadeva nel mondo e ovviamente ero molto incuriosito da una vicenda così grave che avveniva proprio alle porte dell’Italia, e così ho iniziato ad occuparmene. Durante gli anni della guerra non sono stato in quei paesi, il primo viaggio risale al 2000, quindi un anno dopo la fine dei bombardamenti su Belgrado e da lì c’è stato un innamoramento nel senso che finché la cosa era teorica, attraverso gli studi e la ricerca, tutto era sì interessante ma rimaneva, per così dire, “freddo”, invece incontrare, conoscere davvero quei luoghi mi ha fatto innamorare di quel mondo e quindi ho continuato ad occuparmene.
È interessante approfondire l’affermarsi di un vero e proprio topos nel contesto della narrazione storica del Novecento nel nostro paese: quello degli “italiani brava gente”; una narrazione volta a sminuire il ruolo dell’occupazione italiana durante la Seconda guerra mondiale o nel contesto delle esperienze coloniali italiane. Qual è la tua opinione in merito all’utilizzo di questo vero e proprio topos rispetto ai territori della Jugoslavia?
Sì, io mi sono occupato in vari articoli proprio delle politiche della memoria sia in Italia sia in Jugoslavia riguardanti l’occupazione italiana in Jugoslavia e anche di come la storiografia e gli studiosi si sono dedicati al tema. Quindi è un tema che mi interessa e ho approfondito. Credo che lo stereotipo degli “italiani brava gente” sia ormai parte della stessa identità nazionale, diventato ormai uno dei pilastri, e certamente non è un aspetto che riguarda esclusivamente i crimini di guerra nei Balcani o anche soltanto riferito alla Seconda guerra mondiale. Ormai è un immaginario che noi tendiamo ad applicare in ogni tipo di contesto: l’italiano rappresentato sempre come il buono, incapace di essere aggressivo, violento, in qualunque contesto. Quindi in qualche modo la rappresentazione simbolica che è stata fatta delle occupazioni italiane in varie parti del mondo, sia nelle colonie che in Europa deve molto a questo tipo di immaginario, il quale era già presente tra l’altro proprio durante la Seconda guerra mondiale. Studiando i documenti dell’epoca dei generali italiani in Jugoslavia, si vede come quegli stessi ordini criminali che vengono impartiti ai propri soldati dai comandanti partono dal presupposto che siccome i soldati italiani sono buoni bisogna dirgli esplicitamente di compiere dei crimini. Viene proprio scritto negli ordini che “è ora di smetterla con questo mito del bravo italiano, l’italiano deve essere duro, violento”. Quindi è interessante come questo topos, che era vivo già all’epoca, ha continuato a perdurare anche dopo. Nel caso dei Balcani è paradossale che proprio in un contesto nel quale gli italiani si sono comportati in maniera così violenta e repressiva lo stereotipo del “buon italiano” continua ad essere quello prevalente. Un elemento interessante, inoltre, è che questo non avviene solo in Italia. Anche all’estero questo è diventato un pilastro dell’immagine dell’italianità: in molti film americani gli italiani vengono dipinti un po’ come bamboccioni, simpatici, buoni ma incapaci di fare la guerra. E questo succede paradossalmente anche nei Paesi che hanno subito l’occupazione italiana, spesso a fronte di crimini peggiori commessi dai tedeschi o dai collaborazionisti locali.
Per quanto riguarda il tuo ultimo lavoro “E allora le foibe?”, d’impatto è sicuramente la scelta del titolo che riprende uno slogan diventato iconico all’interno della narrazione sulle foibe, uno slogan che non ammette repliche e che viene usato molto spesso per chiudere ogni discussione. Rispetto alla realtà storica di quanto accaduto, quali sono le maggiori distorsioni che si sono imposte come “verità” ufficiali?
Il titolo riprende lo slogan del personaggio di Caterina Guzzanti, “Vichi di CasaPound”, e in qualche modo richiama un elemento molto vero: cioè di fronte a quel tipo di domanda “e allora le foibe?” molte persone, che siano anche moderate o di sinistra, non sono in grado di rispondere, perché non hanno gli elementi, non conoscono l’evento. Quello che è realmente accaduto non lo sa quasi nessuno ma ugualmente è entrato nell’immaginario collettivo ufficiale il discorso propagandistico neofascista. Un discorso fatto di stereotipi, di slogan, di parole d’ordine che tuttavia non racconta niente, non dà conto della complessità del fenomeno, con le sue contraddizioni, come qualunque fenomeno storico. Viene semplicemente presentato come uno scontro bianchi e neri, buoni e cattivi, fascisti e comunisti e quindi di fronte a questo modo di raccontare può essere difficile trovare gli strumenti per reagire. Non è soltanto, dunque, l’aggressività fascista ma è anche l’incapacità di saper rispondere, dall’altra parte, ed è questo che mi ha portato ad usare questo titolo per il mio libro: rispondere a questa domanda, evitare che la propaganda neofascista diventasse verità di Stato. Di certo non mi aspetto che i neofascisti leggano il mio libro, non lo leggerebbero con occhi sufficientemente neutrali. Invece spero che lo leggano persone anche molto moderate, anche quegli stessi che ogni anno in televisione affermano cose inesatte o imprecise, se non del tutto sbagliate, perché non hanno gli strumenti e gli elementi per comprendere i fatti. Detto questo, quali sono queste inesattezze? Sono tante, numerose. Alcune molto evidenti, come per esempio quella relativa al numero dei morti, uno dei temi che scatena di più discussioni. In generale tutti i numeri che si sentono fare nei media sono molto al di sopra della realtà. Io, ci tengo a precisare, nel mio libro non tendo a proporre una verità assoluta contro una falsità assoluta, non è questo il lavoro dello storico; più semplicemente invito a ragionare e a guardare alla complessità del fenomeno e soprattutto a riprendere in mano le fonti, dalle quali parte qualunque ricerca storica, e i dati, i quali sono comunque a disposizione di tutti. Da questo punto di vista gli storici rigorosi dicono tutti le stesse cose. Sulle cifre, per esempio, è difficile trovare delle grosse discrepanze fra uno storico di orientamento più moderato come Raoul Pupo – il quale è stato anche segretario della DC di Trieste per molti anni – e il libro scritto da me, che non sono mai stato iscritto a nessun partito ma mi considero antifascista e di sinistra. Non ci sono molte differenze, proprio perché noi storici sappiamo quali sono le cifre reali. Poi naturalmente uno può dire che, per esempio, i morti nelle foibe del ’43 sono stati duecento e un altro quattrocento, ma insomma siamo nell’ordine di poche centinaia, a differenza di chi parla invece di tremila, cinquemila se non diecimila morti. In quel caso stiamo parlando proprio di numeri falsi, completamente. Tuttavia, la questione dei numeri è, a mio avviso, la meno dirimente, la più facile da analizzare. Le questioni, al contrario, che mi paiono molto più centrali sono, per esempio, l’utilizzo del concetto di pulizia etnica, un concetto che viene utilizzato ormai in maniera regolare anche dai nostri Presidenti della Repubblica. Il primo a sdoganare il concetto di pulizia etnica in merito alle foibe fu Napolitano, un utilizzo che trovo totalmente scorretto, perché la pulizia etnica prevede una violenza tale da costringere le persone a scappare, cosa che non avviene in questo caso poiché, come racconto nel mio libro, i fatti relativi alle foibe e l’esodo istriano sono eventi totalmente scollegati, anche da un punto di vista cronologico, avvengono in anni diversi e soprattutto per ragioni diverse. Chiaramente nell’ambito dell’esodo ci possono anche essere delle motivazioni legate al ricordo e alla paura di eventi specifici occorsi gli anni precedenti ma è solo una delle tante motivazioni, la fuga nel suo complesso non è stata dovuta ad atti di violenza contro un’intera popolazione. Inoltre, laddove vi possono essere stati atti di violenza, essa non era legata a ragioni di tipo di nazionale. Infatti i discorsi patriottardi del tipo “andarono via perché italiani, scelsero l’italianità”, tanto cari ad una certa narrazione, sono scorretti.
Le ragioni reali sia delle violenze di quegli anni, sia della scelta dell’esodo derivarono da questioni di tipo politico, ideologico e sociale, ma non di tipo nazionale. Tanto è vero che fra gli esuli vi furono moltissimi croati e sloveni, così come fra i morti delle foibe vi furono croati e sloveni e fra coloro che realizzarono questi atti vi furono al contrario anche molti partigiani italiani. Quindi l’elemento nazionale è uno degli elementi ma sicuramente non quello più rilevante. Sottolineare questo aspetto è di fondamentale importanza perché cambia totalmente il quadro rispetto a quello che è l’immaginario che ci viene fornito, cioè quello di slavi che vogliono uccidere gli italiani in quanto tali, che è falso. Inoltre, quanto detto mette in discussione lo slogan centrale della narrazione sulle foibe che addirittura raggiunge l’estremo quando si sente dire che le foibe rappresenterebbero la nostra “Shoah”. Una lettura totalmente insensata e slegata dalla realtà e che purtroppo sta diventando sempre più comune.
Riallacciandoci a quanto hai appena detto, sul fatto che fra gli esuli vi erano anche molti croati e sloveni e che fra i partigiani jugoslavi molti italiani, è interessante notare una base politica relativamente anche ai cosiddetti “infoibati”. Spesso si trattava di gente collusa con il regime fascista con delle forti responsabilità politiche? Sembrerebbe in atto un’operazione quasi istituzionale di depoliticizzazione degli eventi che appiattisce tutto sulla prospettiva etnica italiani contro slavi, una depoliticizzazione che avviene anche, più in generale, sulla memoria collettiva relativa ai fatti della storia italiana fra il ’43 e il ’45, attraverso slogan come “i morti sono tutti uguali”, “prima del ’45 gli italiani erano tutti fascisti dopo tutti antifascisti”, un appiattimento generale della memoria nazionale atto a spoliticizzare l’intera vicenda per creare una memoria collettiva irreale. Qual è il tuo giudizio in merito a ciò, è in atto un’operazione di questo tipo?
Ritengo che questo tipo di depoliticizzazione della società prescinda, in un certo qual modo, dal caso specifico delle foibe, la vediamo in tutti i campi in realtà. Naturalmente, in particolare, nell’ambito delle politiche della memoria legate alla Seconda guerra mondiale. Ma a ben guardare è una depoliticizzazione per certi versi apparente, poiché non si usano più le categorie ideologiche del fascismo, del comunismo, delle ideologie del Novecento, ma si utilizzano le categorie nazionali, che, se vogliamo, sono categorie ottocentesche. Siamo, in un certo qual modo, tornati indietro ad utilizzare categorie interpretative precedenti, ignorando tutto quello che stava nel mezzo, ma che è fondamentale perché è quello che distingue il Novecento dagli altri periodi storici. L’interpretazione di questi fenomeni soltanto da un punto di vista nazionale, ignorando per così dire le ideologie, è essa stessa una scelta ideologica; il nazionalismo è un’ideologia come le altre. Pertanto la depoliticizzazione mi sembra soltanto apparente. Nel caso specifico della Seconda guerra mondiale non ha senso che essa venga letta in chiave puramente nazionalistica, si perde completamente la logica dei fenomeni. Perché ci sarebbe stata la guerra civile in Italia? Perché i partigiani combattevano contro i fascisti? Non si comprenderebbe più nulla. Naturalmente, per quel che riguarda le foibe, certo, siamo in una zona di confine, perciò la lettura dei cattivi stranieri che volevano uccidere i buoni italiani diventa per alcuni una tentazione. Ma la Seconda guerra mondiale non è quello, almeno non solo quello, certo che c’era anche in una certa misura l’elemento nazionale, ma non era assolutamente quello prevalente. La Seconda guerra mondiale è stata una guerra civile globale, dove i fascismi combattono contro paesi differenti, con realtà politiche differenti, e che tuttavia si oppongono all’ideologia fascista. Nel contesto specifico dell’Istria, questa guerra civile non contrappone necessariamente slavi e italiani, ma chi si schiera col fascismo e chi si schiera contro. È chiaro che il fascismo, essendo una forma estrema di nazionalismo, in quei luoghi poteva vedere la maggioranza degli italiani aderire a quella ideologia poiché ne ricavavano un vantaggio oggettivo. Il fatto che i morti non siano dovuti esclusivamente alla nazionalità non significa che degli innocenti non siano stati uccisi. Fra le vittime ci sono anche persone che magari non avevano alcuna connivenza diretta col regime ma erano semplicemente impiegati statali, delle poste, insegnanti etc. ma erano visti, in un contesto di forte contrapposizione ideologica, aderenti al regime.
Il lavoro che hai svolto in “E allora le foibe?” potrebbe essere definito come un lavoro di “debunking”, di controllo accurato di fonti e dati. Si sente a volte dire, nel linguaggio giornalistico, che viviamo in un’epoca di “post-verità” con riferimento a modalità emotive di presentare una notizia sulla base di credenze e non di fatti verificati che finiscono per imporre come veritiere narrazioni lontane dalla realtà dei fatti. A fronte di questa dinamica, quanto ritieni che sia possibile avvicinare un vasto pubblico, considerando anche i nuovi media e la sovraesposizione informativa a cui spesso si è sottoposti, a ricerche rigorose soprattutto su argomenti che vengono percepiti come divisivi, come nel caso delle foibe?
Sì, mi viene da dire che un’epoca di “post-verità” come questa sarebbe piaciuta molto a Goebbels il quale affermava che una menzogna ripetuta più volte diventa verità. Facebook sarebbe stato ideale per i nazisti, a furia di ripetere continuamente delle falsità esse diventano vere, la gente ci crede. In fondo è il meccanismo stesso della propaganda nazista! Il mio ragionamento di base, il motivo che mi ha spinto a scrivere questo libro è fondamentalmente questo: quando si ha il rubinetto rotto si chiama l’idraulico, se non si sa una cosa di storia si chiama lo storico! Affidarsi a chi non ne sa nulla, ad un giornalista, un politico o il primo che passa e fa un post su Facebook, è sbagliato, più giusto sarebbe affidarsi a chi quegli argomenti li ha trattati e se ne è occupato seriamente. Naturalmente lo stesso discorso vale per la storia. Oggi purtroppo si fa spesso fatica perfino a leggere un post un po’ lungo sui social, figurarsi un libro, e quindi la domanda è: come fa la gente comune a leggere un libro di storia? Ovviamente ci sono vari livelli, il problema non ha molto spesso a che fare col pubblico ma con la serietà dell’autore e l’onestà intellettuale di chi fa questi mestieri: dal ricercatore, al divulgatore, al giornalista e tutti coloro che poi contribuiscono alla formazione di quegli immaginari collettivi e delle politiche della memoria di cui stiamo parlando. L’onestà di fare ognuno quello che è in grado di fare, mentre al contrario ci sono molti soggetti che molto spesso nel momento di fare divulgazione non si informano e parlano a vanvera. Quindi c’è da un lato l’ignoranza ma anche una buona dose di disonestà intellettuale.
A proposito di verifica dei numeri, quando si parla di foibe spesso emerge il nome di Basovizza, la narrazione ufficiale, che parla di 3000 morti, ha utilizzato Basovizza come luogo simbolo della memoria, cosa c’è di vero dietro Basovizza?
Basovizza è un problema abbastanza serio, io ne parlo diffusamente nel libro, anche se non ne farei una questione di principio per quel che concerne la memoria. In fin dei conti un luogo della memoria vale l’altro. L’Italia aveva bisogno di trovare un luogo della memoria per ricordare quella vicenda. Tuttavia ci sono elementi interessanti da considerare: in primo luogo Basovizza non è una foiba ma un pozzo minerario, il ché già la rende abbastanza diversa da quello che è l’immaginario collettivo sulle foibe; in secondo luogo non ci sono certezze che vi sia stato infoibato qualcuno perché non ci sono fonti incontrovertibili: i rilevamenti dell’immediato dopoguerra parlano di pochi resti difficilmente identificabili, carcasse di cavalli e altro materiale comunque non significativo per attestare alcunché di rilevante.
I 3000 morti sono il risultato di un’operazione che in ogni altro ambito sarebbe perfino ridicolo se non fosse tragico: hanno misurato lo spazio disponibile nella cavità e hanno stimato che siccome c’entravano 3000 corpi allora questi morti ci sarebbero stati davvero. Una cosa completamente assurda. Ma la cosa ai miei occhi ancora più grave è che Basovizza era già un luogo della memoria per gli sloveni, perché a Basovizza nel 1930 vengono fucilati quattro attivisti antifascisti sloveni, i cosiddetti “quattro martiri di Basovizza”. Scegliere questo luogo per la memoria, al di là della sua comodità logistica, è stato abbastanza provocatorio da parte delle istituzioni italiane.
Qual è invece l’atteggiamento della ricerca storica accademica in merito a questo tema? Anche qui si scontano delle problematiche simili a quelle che hai citato oppure c’è maggiore oggettività nell’affrontare la questione foibe?
È un tema complesso che non conosco molto bene, non essendo dentro l’università o comunque vicino a questi meccanismi. Sicuramente, in generale, gli intellettuali accademici italiani sono spesso stati al di fuori del cosiddetto agone mediatico, con un atteggiamento talvolta snobbistico, anche rispetto alla politica. Al punto che spesso o sei un personaggio televisivo o sei uno studioso, difficile che le due cose coincidano. Il noto caso di Alessandro Barbero, che è uno dei pochissimi personaggi che sono al contempo studiosi e personaggi mediatici, non costituisce una regola. Escludendo lui che è un caso quasi unico, ci sono degli studiosi che restano unicamente nell’ambito accademico e personaggi, come Paolo Mieli, che invece fanno televisione, per cui spesso le due figure di studioso e personaggio mediatico non coincidono. Il mondo accademico in generale è molto autoreferenziale, nel caso specifico del tema delle foibe ci sono alcuni studiosi che hanno seriamente analizzato la questione ma è sempre stata in generale una questione poco studiata. Perciò non ha torto chi magari afferma che questo fosse un tema non molto dibattuto, certamente non nella misura in cui è avvenuto dalla Seconda Repubblica in poi, quando si è potuto parlare delle foibe slegandole però dai crimini fascisti. Ecco, in questi termini in effetti non se n’era mai parlato prima di allora, un’operazione del genere non era pensabile, forse questo è uno dei motivi per cui è stato per molto tempo un argomento delicato e poco studiato. Anche perché in precedenza, quando si faceva ricerca storica seriamente, vi erano delle difficoltà oggettive come trovare studiosi che, per consultare con profitto gli archivi, conoscessero lo sloveno, il croato etc. I pochi studiosi che conoscono quelle lingue o lavorano all’estero oppure non sono dentro l’accademia, come nel mio caso. Questo da un lato dimostra anche un certo atteggiamento razzistico che abbiamo verso questa parte d’Europa. Immaginereste uno studioso di storia della Francia, che tenga lezioni all’università non conoscendo il francese? Il quadro è abbastanza triste e desolante: ci sono motivazioni politiche che impediscono agli studiosi di potersi approcciare con serenità alla questione ma anche motivazioni e limiti di tipo culturale rispetto a quel mondo.
Il percorso di istituzionalizzazione delle foibe che giunge poi all’istituzione del cosiddetto “Giorno del Ricordo”, il 10 febbraio, da parte del governo Berlusconi (con voto favorevole del centrosinistra). Quali tappe significative possono essere ravvisate, secondo te, in questo percorso?
La costruzione del discorso pubblico sulle foibe è successiva all’istituzione del “Giorno del ricordo”. Infatti, nei primi anni successivi alla sua istituzione le autorità pubbliche non erano preparate, non sapevano realmente come celebrare quella giornata. Anche i film, le produzioni letterarie, e tutto ciò che serviva alla costruzione dell’immaginario collettivo sulle foibe arrivano un po’ dopo l’istituzione del “Giorno del ricordo”. L’istituzionalizzazione del “ricordo delle foibe” è frutto di un accordo politico che certifica, in un certo qual modo, i rapporti di forza politici di quegli anni – la fine degli anni ’90 – in cui c’è una sorta di riconoscimento reciproco da parte delle forze ex rappresentanti dei cosiddetti opposti estremismi. È lo stesso clima politico che porta al riconoscimento da parte degli ex comunisti dei cosiddetti “ragazzi di Salò”. Gli esponenti del centrosinistra, in linea teorica eredi del PCI, riconoscono agli eredi del MSI l’appartenenza al quadro istituzionale e dall’altra parte le destre riconoscono agli eredi dei comunisti l’appartenenza alla società nazionale, diciamo così. Quindi il discorso sulle foibe è necessario a entrambi gli schieramenti. Non è più soltanto una rivendicazione della propaganda neofascista che da sempre delle foibe ha fatto una bandiera. Così la propaganda neofascista diventa verità di Stato, entrando nel patrimonio comune, istituzionale, e dall’altro lato gli ex-comunisti si possono affermare come difensori dell’identità nazionale denunciando crimini commessi non da loro ma dai comunisti jugoslavi, col presupposto implicito di considerare come barbari e inferiori quest’ultimi in chiave sempre nazionalistica. E tutto ciò naturalmente è stato possibile solo grazie agli eventi che hanno portato allo smembramento della ex-Jugoslavia e al clima generale scaturito dalle guerre degli anni ’90. Ovviamente il tutto in una logica solo di politica interna e per interesse di quelle specifiche forze politiche.
Lo sdoganamento delle forze neofasciste e della loro narrazione, che si riferisce anche, ma non solo, alla questione specifica sulle foibe, sembra aver generato un clima di crescente ostilità nei confronti di quegli studiosi che si occupano in maniera rigorosa di queste tematiche, i quali finiscono spesso per subire attacchi per le loro ricerche. Anche tu hai avuto la stessa impressione, e, più in generale, ritieni questo fenomeno attuale?
Io credo che sia un fenomeno molto grave ed è anche questo uno dei motivi che mi hanno portato a scrivere questo libro, mettendomi anche in gioco ed esponendomi. Ovviamente non lo faccio solo per me, perché questo clima di ostilità, di censura, di aggressione mediatica verso chi si occupa seriamente di un tema storico è un precedente molto grave. In questo senso, a mio avviso, è molto importante capire come reagiranno le istituzioni, l’accademia di fronte alle aggressioni che io stesso ho già ricevuto e che probabilmente riceverò, fatto che naturalmente non riguarda solo me ma anche tanti altri studiosi che si occupano del tema – penso a Claudia Cernigoi o Alessandra Kersevan, ma addirittura lo stesso Pupo, nonostante la sua moderazione –. Oggettivamente è una situazione che non consente a nessuno di condurre serenamente un lavoro di ricerca storico rigorosamente condotto. Davvero non vogliamo reagire a questo stato di fatto? È vero che per la maggior parte questi attacchi vengono condotti da ambienti neofascisti, ma è pure vero che fra di essi vi è una larga parte di attacchi che proviene da partiti istituzionali, potenzialmente di governo, potremmo dire, come per esempio “Fratelli d’Italia”. Quindi non sono aggressioni circoscrivibili ad una realtà di forze estremamente marginali. Ecco, in questo senso, credo che sarebbe necessario una levata di scudi a difesa della libertà di ricerca da parte delle istituzioni. Ad esempio lo scorso anno per la commemorazione del 10 febbraio il Presidente Mattarella ha affermato che era ora di finirla con gli storici “negazionisti”. Ecco, sarebbe bello se quest’anno lui dicesse esattamente il contrario: cioè che sarebbe ora di smetterla di accusare di negazionismo gli storici che fanno ricerca libera e seria su questi argomenti. Questa sarebbe la prova che dimostra che viviamo ancora in un paese democratico e antifascista.
Per concludere, allora, che cosa rispondiamo alla domanda: “E allora le foibe?”
La risposta giusta dovrebbe essere: “Hai due ore?”. Ironia a parte, ovviamente si tratta di fenomeni complessi, a cui non si può rispondere con eccessive semplificazioni. Ma io credo che la risposta più corretta in fondo potrebbe essere: va bene, è giusto ricordare quelle vittime, ma non sarebbe stato più necessario, e non è altrettanto urgente oggi commemorare le vittime dei crimini fascisti? L’Italia, che ha contribuito a scatenare la Seconda guerra mondiale, che ha la responsabilità morale di milioni di morti, che ha la colpa diretta di migliaia di civili uccisi, può davvero continuare ad ignorare le vittime che ha seminato ovunque, in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia? Io credo di no.
1 Eric Gobetti, E allora le foibe?, Roma-Bari, Editori Laterza, 2021
1 Citiamo solo alcuni testi dell’autore sul tema:
- Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma-Bari, Laterza, 2013
- Eric Gobetti, La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943-1945), Roma, Salerno editrice, 2018